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Autore: Fuuma    21/09/2008    4 recensioni
Una vita secondo Ryou. Ricostruita per lui, intorno a lui, dal suo punto di vista e dalla sua voce narrante.
È cominciato tutto in un Cafè, buffo che sia di nuovo lì che la storia riprende.
Se questo fosse un romanzo rosa, il protagonista maschile otterrebbe l’incontro tanto agognato con la sua anima gemella ed alla fine leggeremmo tutti un bel ‘e vissero felici e contenti’.
Ma i romanzi rosa sono stupidi e la realtà è una fottuta fregatura.
Ed alla fine tutto ciò che ottieni, si riduce all’attesa di una dannata telefonata.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ichigo Momomiya/Strawberry, Kisshu Ikisatashi/Ghish, Retasu Midorikawa/Lory, Ryo Shirogane/Ryan
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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[Words to a Phone]

Call#12

.Cappuccino with punches and croissants.

L’odore di caffè e croissant aleggia dolcemente tra le quattro pareti di un piccolo bar, in una delle viuzze più caratteristiche di New York.

Ce ne sono anche qui. Se si vuole perdere la cognizione del tempo trascorrendo un paio d’ore senza pensare a nulla, solamente con le note di un pianoforte rimandate dall’unico altoparlante appeso alla parete, questo è il posto perfetto.

Rising Sun.

Era il posto preferito di mia madre, il luogo in cui si è fidanzata ufficialmente con mio padre, quello dove mio padre le ha chiesto di sposarlo.

Umpf, romantico eh?

Sì, in effetti lo definirebbero così.

Tuttavia a me piace semplicemente perché è piccolo, perché ci sono sempre gli stessi volti della gente che lo frequenta, perché sono in pochi a saperlo apprezzare e perché semplicemente lo trovo un bel posto.

Tutto qua.

Nulla di davvero romantico, no, non sono cose a cui penso seriamente, nemmeno quando la giovane cameriera in divisa si avvicina a noi con un sorriso cordiale e ci domanda cosa vogliamo ordinare, guardando prima me e poi la ragazza accomodata di fronte.

“Caffè, grazie.” Rispondo, sintetico, per poi rivolgere un cenno alla ragazza che sotto spesse lenti da vista arrossisce e distoglie lo sguardo.

Pensavo di metterle soggezione, ma ho capito che non sono solo io a farle questo effetto, è il mondo intero.

Non credo di aver mai conosciuto una ragazza più timida di questa.

“Cosa ordini, Midorikawa?” domando, non è mia intenzione metterle fretta nella scelta, ma ho la sensazione che se non la incito non avrà mai il coraggio di aprir bocca.

Che stupido. È abbastanza presuntuoso da parte mia arrogarmi il diritto di sentirmi come se l’avessi presa sotto la mia ala protettiva, ma è questo l’effetto che mi fanno quelle sue iridi lucide ed immense e sembrano così fragili che ho paura di vederle finire in pezzi da un momento all’altro.

Sto sorridendo. Me ne rendo conto quando lei alza lo sguardo su di me e poi lo riabbassa subito, diventando ancor più rossa di quanto già non sia.

Sorrido perché mi fa tenerezza.

“Ah… Io… Io prenderei un cappuccino se è possibile… grazie…”

“Un caffè e un cappuccino.” Si appunta la cameriera “Altro?”

“Ah! Ecco…” Si ferma, riflette guardando di sottecchi verso la vetrina dei croissants, e poi “No, no, nient’altro, davvero!”

Scommetto che ha avuto l’impressione di star caricando di troppo disturbo la cameriera che ora, comunque, sta cercando di trattenere una risata dietro una facciata di cordialità circostanziale.

“Una brioche al cioccolato, grazie.”

La mia voce si è infilata tra le due, scivolando con nonchalance per poi essere udita dalla giovane bionda e registrata insieme al resto delle ordinazioni.

Ci sono voluti tre o quattro minuti perché tornasse con quello che avevamo chiesto.

“Questa è tua.” Affermo, spostando il piattino in cui troneggia il croissant, davanti alla mia collega.

Mi guarda, naturalmente arrossisce, e poi agita le braccia in un modo stranissimo.

Non saprei neppure descriverlo, sembra che… che stia cercando di dar forma a due piccole trombe d’aria solo col movimento degli arti, o che voglia nuotare nell’aria. Non capisco bene in effetti, ma è buffa, lo è da morire.

“Ma… ma… ma…”

È diventata la sua nuova cantilena, una nenia imbarazzata che non ha né capo, né coda e gote di pelle chiara sono ridipinte di rosso.

“Ma…”

“Pensavo la volessi.”

“Cosa? Io?” domanda, spalancando i suoi occhi, già così grandi, dondolando lo sguardo smeraldino tra me e la brioche.

“Sì. Tu.”

“Ma…” Ti prego no, non ricominciamo con quella nenia “Io non credevo che…”

“Midorikawa, è solo una brioche.”

Può una persona sciogliersi? Come burro intendo o come neve fresca sotto il sole d’Estate, lasciando di sé niente più che una pozzanghera d’acqua che presto evaporerà a sua volta.

Lei lo sta facendo.

Gli occhi si sono fatti più lucidi e come specchi d’acqua centellinano grosse lacrime di rugiada.

“Scusami, non era mia intenzione farti piangere, Midorikawa.”

Allora è vero, che questa ragazza è fatta di cristallo.

“No, non è questo… è solo che… ho qualcosa nell’occhio, ecco, sì, è solo per questo.”

Mente.

Lo sappiamo entrambi.

Ma se è questo quello che vuole, allora “D’accordo.”

“Ti ringrazio.”

Non capisco perché lo faccia, non c’è niente di cui debba ringraziarmi.

Potrei anche chiederglielo, dirle che non c’è bisogno che si senta in perenne imbarazzo anche quando non siamo in ufficio, soprattutto con me che avrò soltanto due o tre anni più di lei. Non sono molti. Solitamente non sono niente.

Ma prima che possa introdurre il discorso un’ombra si è stagliata sul nostro tavolino e, quando alzo gli occhi per guardare chi si sia fermato così vicino a noi e perché, un uomo mi guarda di rimando.

Occhi sottili, duri, al di sotto di folte sopracciglia scure ed una fronte corrucciata che gli conferisce un’aria autoritaria.

“Ryou Shirogane.” Non pensavo conoscesse anche il mio nome “Sai chi sono?” domanda, senza troppo tergiversare.

Purtroppo sì.

“Mr. Hammilton.”

“E poi?”

Il suo tono sa di minaccia ed il suo sguardo sembra in grado di potermi sbattere a terra e farmi sanguinare senza neppure sfiorarmi.

Finge di essere calmo, ma non dev’essere un bravo attore.

“E’ il marito di Miss Hammilton.”

Il marito della donna con cui andavo a letto per la precisione e lo sappiamo tutti e due, perciò questa discussione non ha senso d’esistere, come non ha senso il fatto che soltanto ora quest’uomo sia venuto a cercarmi, si sia piazzato davanti a me e mi parli.

È una situazione che non mi piace, così come il suo tono mentre rivolge un’occhiata veloce alla mia giovane collega e piega la bocca in un sorriso fastidioso.

“Chi è quella, la nuova puttanella che ti scopi?”

“Come scusi?”

La mia voce si è sovrapposta alla stessa domanda di Retasu pronunciata con voce più sottile, sebbene in realtà siamo tutti imbarazzati e probabilmente lo sarebbe anche lui se si rendesse conto di quello che ha appena detto.

“Senta, tenga miss Midorikawa fuori da questa faccenda, se deve dirmi qualcosa la dica e basta.”

“Oh, miss Midorikawa.” Mi fa il verso lui “Quante formalità per uno che l’ha portata in un bar lontano da occhi indiscreti.”

Non è vero, non l’ho portata in questo bar e non ci siamo dati appuntamento, semplicemente ci siamo incontrati qui per caso e per una semplice questione di cortesia abbiamo deciso di sederci allo stesso tavolo e scambiare due chiacchiere in compagnia. Ma ora mi pento di averla notata, di averle rivolto un cenno di saluto e di essermi seduto con lei.

In ogni caso non ho intenzione di giustificarmi davanti ad un uomo che è per me un perfetto sconosciuto, quello che faccio io non lo riguarda.

“Che cosa vuole da me? Se è per Amy…”

“Adesso è diventata Amy?”

Merda.

“Se è per sua moglie, è finita.”

Oh God, fa che Midorikawa finga di non avermi sentito, fa che finga di non esistere. Ti prego, fa che se ne vada e non racconti a nessuno di questa storia.

Cazzo. Cazzo. Cazzo.

Come diavolo ho fatto a mettermi in questo casino?

“Non lo capisci bamboccio? È proprio questo il punto. Per colpa tua che non ti scopi più mia moglie la mia vita è diventata un inferno!”

Cosa?

Ma di che diavolo sta parlando?

Come fa un uomo, un marito, ad essere tanto cinico?

“Cosa vuoi per riprendertela? Dei soldi? Eh, è questo? Ti pagherò, dimmi tu la cifra.”

Ok.

Fermo.

Non farlo Ryou.

Non è nessuno per cui valga la pena di prendersela tanto a cuore.

È solo un omuncolo che non sa neppure di cosa stia parlando.

È solo…

“Eddai, non mi dirai che quella bimbetta è ai livelli di Amy, figurati se una come lei sa cosa significhi soddisfare un uomo.”

Fanculo!

Devo averlo pronunciato ad alta voce, mentre il mio braccio si è alzato ed il mio pugno ha colpito il volto di quel bastardo, dritto alla mascella, rompendogli quel sorriso saccente e divertito e sperando di avergli rotto anche due o tre denti.

Midorikawa ha urlato, portandosi le mani al volto.

George è caduto sopra il tavolino più vicino, ribaltandolo.

E subito dopo mi ha restituito il pugno; deve avermi spaccato il labbro perché ho sentito subito il sapore dolceamaro del sangue invadermi la bocca ed il suo odore spargersi per le narici quando l’ho ricolpito, prima di nuovo in faccia e poi in pancia.

È rimasto piegato in due dal dolore sputando sangue e saliva ed io l’ho guardato, in piedi di fronte a lui, con il desiderio di sollevare la caraffa di caffè bollente e sbattergliela violentemente sulla testa.

Ucciderlo.

Per questo sono scappato.

L’ultima cosa che desidero è diventare un assassino a causa di una situazione che ci è sfuggita di mano.

Sono uscito dal locale di tutta fretta, seguito da Midorikawa che, sconvolta, cerca di completare una frase di senso compiuto senza in realtà riuscirci tra il suo singhiozzare e le lacrime che hanno iniziato a rigarle il viso.

Non mi fermo, non la guardo, non le parlo.

Continuo a camminare con passo sostenuto finché non giriamo l’angolo, allora i miei passi si arrestano di colpo e lei finisce inesorabilmente per sbattere contro la mia schiena.

Devo riprendere fiato.

Devo scusarmi con lei.

Dovrei semplicemente sparire per qualche anno da questa città e magari andarmene alle Hawai.

Mi volto, piano, alzando lo sguardo sulla ragazza che sta ancora piangendo ed in continuazione si passa le dita affusolate al di sotto delle lenti, cercando di asciugarsi le lacrime.

“Midorikawa ti… ti chiedo scusa per averti coinvolto.”

“Ma… ma… cosa voleva da te? Perché ti ha detto quelle cose? Perché le ha dette… a…”

Non ci siamo neppure accorti di essere passati dal “lei” al “tu” e, sinceramente, ora è l’ultima cosa che potrebbe fregarmi.

“Lascia stare, non sapeva quel che diceva.”

“Però tu…”

“Midorikawa, ti prego…”

Annuisce e sembra comprendere, poi infila una mano nella borsetta che ha portato con se e ne estrae un fazzoletto con le iniziali ricamate in verde acqua sull’angolo, che tende verso di me.

Sento ancora il sangue impastarmi la bocca e istintivamente la mia lingua è passata sulle labbra raccogliendone le gocce che le macchiano. La mia non è certo una ferita grave, non morirò.

Prendo in mano il fazzoletto che mi porge e con l’altra le sfilo gli occhiali da vista.

“Midorikawa.” La chiamo piano, mentre porto la stoffa bianca al suo volto, asciugandole lentamente le lacrime che una per una si depositano tra le pieghe del fazzoletto.

“S-sì?”

“Quelle cose che ha detto quell’uomo su di te, non le penso. Non le pensa nessuno, hai capito?”

“Mhm.”

Glielo restituisco, tentando di mostrarle la brutta copia di un sorriso sforzato.

“Bene. Volevo solo che fosse chiaro. Arrivederci.”

“Arrivederci… Shirogane.”

Non credo che per oggi ci vedremo ancora, l’ultimo posto in cui vorrei andare è l’ufficio.

Indietreggio, lei abbassa lo sguardo tra le proprie mani fissando insistentemente il proprio fazzoletto e quindi mi volto per andare altrove. Ovunque. Tanto, ora come ora, un posto vale l’altro.

E già che ci sono, dovrei spegnere il cellulare prima che la sua suoneria rintroni nelle mie orecchie.

“Maledizione.” bofonchio afferrando il telefonino e guardando il display che lampeggia sadicamente.

Ci vogliono almeno altri due squilli perché mi decida a rispondere.

“Cosa?” pronuncio a denti stretti, portando una mano alla tempia che inizia a pulsare dolorosamente.

Dall’altra parte della linea non devono averla presa molto bene visto che rimangono in silenzio.

“Lo so che sei tu, dimmi cosa vuoi.”

“Sei arrabbiato con me?”

“No… senti hai scelto un pessimo momento per farti vivo, ok?”

“Mi dispiace.”

“Cameron, arriva al punto se ti dispiace, non ci sto perfettamente con la testa e vorrei…”

“Le prendi ancora le pillole?”

“Cameron!”

Gli psicanalisti, possibile che non cambino mai neppure fuori dal loro ambiente di lavoro?

“Hai ragione, non sono più affari miei ormai. Scusa.”

“Perché. Mi. Hai. Chiamato.”

Quanto ci vorrà ancora perché la smetta di finire di girarci intorno e arrivi al motivo della chiamata?

Non ne posso già più di questa conversazione.

“Sto cercando mio figlio.”

Come si dice: tale padre, tale figlio.

La stupidità deve essere una cosa congenita.


.CALL#12.

[THE END]

   
 
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