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Autore: Ale_edgy    03/09/2014    0 recensioni
Lei non lo aveva mai sopportato quel grembiule. Lo avrebbe strappato se sua madre le avesse dato il permesso
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cecilia era una ragazza diversa. Diversa nel nome, così strano, diversa nel modo di pensare, nel modo di vestire.
Diversa nel modo di amare.
L’aveva capito fin da quando aveva dieci anni che non era come gli altri.
“Sei speciale”, le diceva la sua mamma.
Il suo primo giorno di scuola nessuno voleva sedersi vicino a lei.
Cecilia era un bambina diversa. Non aveva i codini biondi o quei lisci capelli bruni da barbie che avevano tutte le sue compagne di classe.
Cecilia in testa aveva una cascata di ricci rossi che le incorniciavano alla perfezione il volto paffutello, messo in risalto da due bellissimi occhi verdi.
“Come sei bella” le dicevano le maestre per consolarla.
Ma lei si sentiva solo diversa, non le importava di essere bella.
Passava le ore a fissarle, le guardava, quelle bambine, tutte con i loro bei vestiti, il loro grembiulino di un bianco candido sempre perfettamente abbottonato. Lei non lo aveva mai sopportato quel grembiule. Lo avrebbe strappato se sua madre le avesse dato il permesso.
Appena arrivata a scuola la mattina, la prima cosa che chiedeva era di poter togliere il grembiule
“Ho tanto caldo”, si giustificava.
Ma le maestre sembravano non capire il suo odio profondo per quel vestito, e la costringevano a tenerlo a dosso.
Al diavolo, l’unica cosa che veramente le  piaceva di quell’affare era poterlo togliere a fine giornata, era la prima cosa che faceva appena messo piede dentro casa. Lo sbottonava senza nessuna cura e lo lasciava li a terra, correndo a rifugiarsi nella sua cameretta, inseguita dalle grida della madre che la rimproveravano del continuo disordine che lasciava in giro per la casa.
La rimproverava sempre quando faceva così.
Perché Francesca, la mamma, quel grembiule lo lavava, lo stirava e faceva si che ogni mattina Cecilia lo trovasse pulito, appeso all’armadio, pronto da indossare.
La bambina ci aveva provato qualche volta a sporcarlo in modo che la madre sicuramente non sarebbe riuscita a smacchiarlo e lavarlo entro una giornata, ma il tentativo era miseramente fallito. Si beccò semplicemente una sgridata, una punizione, e un grembiule nuovo comprato il giorno stesso.
Lo odiava quel coso bianco.
Lo odiava con tutta se stessa.
Eppure averlo addosso era come se la confondesse. Non l’avrebbe mai ammesso, ma adorava e odiava allo stesso tempo quell’aria così..normale che le dava. Si sentiva uguale a tutte le altre, per quelle otto ore di scuola.
Tutte avevano quel maledetto grembiule addosso.
Voleva dire che era come loro, no?
E allora perché non la lasciavano mai giocare, perché nell’ ora di ginnastica quando facevano le squadre, ogni volta era sempre l’ultima bambina ad essere scelta?
Maledizione, ma  non lo vedevano?
Anche lei aveva il grembiule bianco e abbottonato.
Anche lei era come loro.

Col tempo, alla fine, aveva imparato a capire. Aveva capito che per loro avrebbe anche potuto indossare il grembiule più bello, più bianco, firmato dallo stilista più famoso.
Sarebbe sempre rimasta niente. Strana.
Se faceva male? All’inizio. Poi ci si era abituata.
Le ferite ci mettono un po’ a cicatrizzare, ma una volta richiuse, solo guardare il segno che hanno lasciato sulla propria pelle fa ricordare quanto male hanno fatto.
Il trucco è non pensarci.
Ed era quello che Cecilia cercava di fare tutti i giorni.
Tornava a casa da scuola, fingendo con la mamma che tutto fosse andato per il meglio, raccontando dei bei voti che aveva preso al compitino di turno e poi si chiudeva in camera, piangeva quei dieci minuti che ormai erano diventati una routine, e poi via, ricominciava tutto come prima.
“Davvero alle medie non si indossa più il grembiule maestra?”
I suoi occhi brillavano come quando a Natale si era  ritrovata tra le mani il set per i trucchi magici che tanto aveva desiderato.
Buffo, era strana anche in quello. Chi voleva le Barbie, chi una macchina radiocomandata, chi un vestito nuovo.
Lei qualcosa con cui incantare la gente.
Qualcosa che finalmente le avrebbe dato il potere di smuovere le persone. Tutti si sarebbero chiesti come aveva fatto a far sparire la pallina che fino ad un minuto prima si trovava sotto a quel bicchiere, o come con un semplice schiocco di dita era riuscita ad ammorbidire una corda rigida.
Avrebbe finalmente avuto tutte le attenzioni che si meritava.
Insomma, l’idea che dopo cinque anni passati ad odiare quel vestito, avrebbe potuto vivere le sue giornate a scuola senza quell’odioso grembiule addosso le aveva decisamente fatto tornare il sorriso.
Sarebbe stata se stessa, una volta tanto.
E tutti l’ avrebbero accettata per come era.

Arrivò il primo giorno di medie e  Cecilia non stava più nella pelle. Era la prima volta in vita sua che desiderava così tanto entrare in una scuola.
Basta prese in giro, a quel paese tutti quelli che l’ avevano trattata male.
Niente più sedere incollato alla sedia, spintoni o giornate passate seduta in un angolo del cortile, in disparte.
Niente di niente, la sua vita ricominciava da zero.
Ma ci volle nemmeno una settimanella al mondo per ricordarle qual era il suo posto.
Lei era quella diversa.
Quella con due paia di pantaloni presi alla bancarella, quella che “ha le capacità ma non si impegna”.
Cosa diavolo c’era che non andava in lei ? Perché non riusciva a piacere a nessuno?
E così anche le medie passarono, e Cecilia si ritrovava sempre più sola.
Aveva fatto di tutto.
Aveva chiesto alla sua mamma i soldi per dei vestiti più belli come compenso delle eccellenze a scuola, ma nemmeno quelli funzionavano.
Ogni volta che riusciva a comprare qualcosa che lei riteneva alla moda, o che aveva notato che avevano anche tutte le sue compagne di classe, varcava la soglia dell’aula di scuola tutta contenta.
Felicità che al solito, nei giorni migliori, durava una mezz’ora.
Le davano della copiona, le dicevano che quella moda ormai era passata e che “non è che se ti compri i vestiti belli allora diventi più bella”.
E se ne andavano via ridendo.
E lei come tutti i giorni, armata di pazienza, mandava giù il boccone amaro, condito da una gran quantità di lacrime che ormai si era stufata di versare.
Eppure, crescendo, non era diventata una brutta ragazza. Sì, aveva un po’ di lentiggini, ma il fisico si era fatto snello, le curve pronunciate per una ragazzina di terza media, e i capelli rossi e i grandi occhi verdi erano rimasti tali e quali.

Arrivò il fatidico giorno degli esami di terza media, prima gli scritti, poi gli orali, come da prassi.
I suoi voti a scuola erano sempre stati molto alti, e alla fine non era poi così tanto agitata.
Non avendo amici, per non sentirsi sola il pomeriggio si buttava sui libri, studiando anche più del necessario, fingendo tra se e se che fossero compiti realmente assegnati dalla professoressa.
Perciò quel giorno, una volta seduta a quel banchetto minuscolo per la prova di matematica, pensò di aver fatto talmente tanti esercizi in tutti quei pomeriggi passati da sola, che era difficile trovarne uno che non sapesse risolvere o che addirittura non avesse già svolto.
Come previsto, infatti, finì il compito con quasi un’ora di anticipo, e quando si stava per alzare e andare a consegnarlo, sentì la mano della ragazza seduta di fianco a lei che richiamava la sua attenzione
- Passami il compito -
Cecilia andò nel pallone. Non sapeva che fare.
Certo si, non le avrebbe mai rincontrate, la sua vita alle medie finiva lì e dopo quel giorno avrebbero smesso di darle il tormento.
Ma se una di loro se la fosse ritrovata in classe?
O se finito l’esame avessero iniziato ad andare in giro a dire che lei era un’ egoista, o altre cattiverie su di lei?
Non sapeva veramente cosa fare.
- Eddai ragazzina, passami quel compito – La tormentava l’altra.
Alla fine rispose.
Aveva deciso.
- No -
Si alzò, consegnò il suo compito alla professoressa, salutò e usci per l’ultima volta  da quell’aula.
Quel giorno Cecilia si era presa la sua prima piccola parte di rivincita.
Non riusciva a spiegarlo bene, ma da quel giorno iniziò a sentirsi più sicura di se, e anche più leggera.
Era come se in quel “no” fossero stati rinchiusi otto anni di frustrazione, di insulti, di solitudine, e che in un solo momento, con una parola semplicissima, fosse riuscita a liberarsene completamente.
Questo non vuol dire che fosse fiduciosa nel pensare al suo futuro al liceo, certo che no.
Con quello che in questi ultimi anni le aveva riservato la vita, le era stata completamente strappata via dalle mani anche la più piccola briciola di speranza.
Cecilia aveva scelto il liceo artistico.
Aveva tante di quelle cose dentro da buttar fuori che pensò bene che l’arte fosse la forma migliore per sfogare i propri pensieri.
Aveva provato a scrivere qualcosa, ma tutto finiva sempre in una mezza pagina di parole con l’inchiostro colato a causa delle lacrime.

L’estate era passata in fretta, tra un libro letto sotto la rassicurante ombra di un albero e una gita al mare con la sua adorata mamma.
Era il dieci settembre, il giorno prima del primo giorno di scuola e Cecilia era in preda al panico di fronte al suo armadio aperto.
Aveva tirato fuori i suoi jeans firmati e la magliettina di marca piena di sbrilluccichi con una strana stampa sopra che nemmeno riusciva a capire che cosa fosse.
Scarpe enormi da ginnastica sotto e via, avrebbe risolto il suo problema.
Sarebbe apparsa come una ragazza ricca, alla moda e sicura di se, eppure tutta questa scelta non la convinceva per niente.
Continuava a fissare il suo basco fucsia nell’armadio, e quei pantaloni tutti strappati e larghi, forse anche troppo, che a stento si reggevano su una stampella.
Valeva davvero la pena fingere di essere chi non era solo per essere accettata?

La mattina dopo Cecilia prese un bel respiro, rilesse di nuovo l’sms della madre
-Buona scuola amore, e non dimenticare mai che sei speciale –
e alla fine si decise a varcare la soglia della porta.
Cinque facce meravigliate si girarono su di lei, andandole incontro.
- Ommiodio questi pantaloni sono fantastici, e guarda il cappello fucsia, assolutamente delizioso -
Sorrise una delle ragazze del gruppo
- Magari avessi il tuo stile. Comunque, io sono Priscilla, lei è Rosa e quella lì giù è Angela, tu sei? -
Cecilia non poteva credere alle sue orecchie
- Cecilia-  riuscì solo a rispondere
- Che bel nome! E’ strano, come i nostri. Vieni, è rimasto un posto libero vicino ad Angela, se vuoi metterti lì -
Cecilia sorrise e annuì con dei rapidi movimenti della testa.
Stava sognando. Tutto questo non poteva essere.
La sera prima aveva buttato a terra quei vestiti da persona normale e aveva optato per quelli che tanto adorava
- O la va o la spacca - si era detta.
E a quanto pare era andata. Era andata alla grande.
Anni di sofferenze spariti in un secondo.
Seguì Priscilla in mezzo a file di cavalletti con tele bianche, pennelli e colori nei tubetti ancora chiusi, pronti per essere sparsi sulla tela.
- Ecco vieni, mettiti qua, la prof sta per arrivare -
Cecilia posò tutte le sue cose e attese l’ingresso della professoressa, che tardò di una decina di minuti.
Questa fece l’appello, posò il registro e si mise di fronte alla cattedra, con il sedere poggiato sul bordo.
- Bene ragazzi, buongiorno – salutò cordiale.
Aveva un’aria buffa  con quegli occhiali tondi, la sua statura minuta e i capelli quasi più lunghi di lei.
- Io sono la professoressa Micheli e con me dipingerete qualsiasi cosa -
Iniziò a camminare tra i ragazzi fino ad arrivare ad appoggiarsi contro il muro opposto a dove si trovava la cattedra.
- Ora vorrei che mi dipingeste quello che è per voi la vostra vita – si sistemò gli occhialetti sul naso
- Quello che fin’ora vi ha ispirate, o un oggetto importante, insomma, qualsiasi cosa vi ricordi di voi. Avete quaranta minuti da ora, buon lavoro -
Cecilia sapeva già cosa fare.
Prese i colori, li mise tutti sulla tavolozza e iniziò la sua creazione.
Mezz’ora dopo era tutto pronto, doveva solo asciugarsi.
Le facevano male le braccia e le mani per quanto velocemente aveva disegnato, ma alla fine era soddisfatta.
La professoressa vedendo che aveva terminato, si avvicinò a lei e osservò la sua opera.
- Interessante e piuttosto strano. Complimenti signorina…-
- Cecilia, mi chiamo Cecilia -
- Allora complimenti, Cecilia -
La donna le diede una gentile pacca sulla spalla e si mise a controllare i lavori degli altri ragazzi.
Cecilia continuava invece ad ammirare il suo.
Uno sfondo bianco e nero con un grembiulino dai mille colori disegnato sopra, e accanto una scritta:
-Have courage to be different - 
  
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