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Autore: Valpur    04/09/2014    3 recensioni
[Sequel di Two Steps from Hell]
Alina sospirò, inarcò la schiena e tese le braccia verso l’alto. Dita piccole e sporche di inchiostro, ora, ma mani ancora forti, poco più magre rispetto all’epoca delle sue avventure.
Quanto tempo era passato? Dieci anni? No, di più, almeno dodici. Senza un briciolo di nostalgia fece schioccare le nocche e si raddrizzò.

Cosa succede a un eroe quando il male è sconfitto?
Vive. Ma certe scintille non si spengono mai.
Genere: Azione, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Dovahkiin, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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“Ecco qui”, disse Malborn. Spinse sul bancone due bicchieri spaiati e pieni fino all’orlo, senza rovesciare una goccia.
Alina vide Vilkas agitarsi sullo sgabello, sul viso un’ombra della tensione che gli irrigidiva la spina dorsale. Le sarebbe venuto da ridere in un’altra occasione, a vederlo così fuori posto e rigido; nessuno della Gilda era stato meno che cortese con lui, ma era difficile ignorare una certa sopita ilarità. Non era il momento giusto, tuttavia, e le sembrava scorretto deriderlo quando aveva accettato di accompagnarla pur sapendo come si sarebbe sentito. Sospirò e prese il calice, ammiccando a Vilkas; dopo un attimo questi la imitò, seppellendo subito il naso oltre l’orlo. L’espressione nervosa si tramutò in sorpresa e, quando Alina assaggiò il vino, capì quale ne fosse la causa: quella roba era davvero eccezionale!
Schioccò le labbra e rialzò il viso.
“Malborn, ma è buonissimo! Da dove arriva?”.
L’elfo non smise di pulire il boccale e sollevò una spalla.
“Sarebbe stato un peccato non approfittare delle cantine di Elenwen. Finché non devo entrarci io, ovvio…”.
Alina rise nel bicchiere e si sforzò di non guardare la smorfia di Vilkas. Fu lui a porre fine alle chiacchiere.
“Stiamo cercando un bambino. Abbiamo battuto il tratto di fogne che porta qui, ma non lo abbiamo trovato”.
“Solo perché tu venivi a nasconderti qui non significa che siamo diventati una succursale dell’orfanotrofio”, ringhiò una voce dall’ombra. Alina si voltò e, a dispetto delle parole, quella voce le scaldò il cuore.
“No, ma so che sei una delle persone di cui mi fido, Delvin”.
Il ladro si staccò dalla parete cui era appoggiato e rise. Alina si alzò ad abbracciarlo, e persino Vilkas si alzò e gli tese la mano con una smorfia non troppo severa. Era già un inizio.
“Sentiamo, cosa stavi dicendo al nostro amico Malborn? Mi spiace che abbiate dovuto aspettare, ma il lavoro chiama”.
“Figurati”, lo liquidò Alina. “Il servizio è impeccabile”. L’elfo al bancone arrossì di piacere.
Delvin allungò una mano e incontrò un boccale riempito un istante prima.
“Parlavate di un bambino”, disse dopo una lunga sorsata. “Descrivimelo”.
“Pelle e ossa, lurido e con i capelli rossi. Dice di chiamarsi Gael”, rispose subito Vilkas, la maschera di riprovazione svanita di fronte all’urgenza di sapere.
Delvin si limitò a scuotere la testa calva, lucida sotto le torce.
“Non l’ho mai visto; da quando l’orfanotrofio ha una nuova gestione i ragazzini sono pochi e molto curati; la direttrice li fa adottare in fretta, quindi il ricambio è rapido, ma non ricordo di aver mai visto un moccioso coi capelli rossi. Escludendo Brynjolf, s’intende”.
Malborn sbuffò ma non smise di strofinare il bancone già lucido. Il viso di Vilkas si offuscò.
“Ma potreste controllare? L’ho recuperato dai canali e potrei aver malmenato uno dei mercanti che lo stava strapazzando”, ammise Alina a occhi bassi. La quieta risata di Delvin non la fermò. “Il fatto è che l’ho visto così piccolo, così disperato… e io so anche troppo bene quanto può essere sgradevole Riften quando non hai nessuno”.
“Già”, concordò Delvin. Fece per aggiungere qualcosa, poi corrugò le sopracciglia. “In effetti… cosa ci fa il Sangue di Drago a Riften? Affari, rappresentanza, devi baciare qualche neonato o benedire un paio di unioni?”.
“Qualcosa del genere”, disse Vilkas con una voce strana; una risata nascosta? “Si sposa”.
Alina strinse le labbra e riprese il bicchiere. La sorsata di vino non bastò a farle passare l’imbarazzo.
“Si sposa? E con chi?”, chiese Delvin. Quattro occhi si spostarono su Alina (e chissà se ce n’erano altri che sbirciavano dalle ombre); continuando a bere indicò Vilkas con un cenno del capo.
Gli istanti che seguirono furono un turbine di pacche sulle spalle, congratulazioni e parziale rivalutazione dei membri della Gilda da parte di Vilkas; Alina non poté ignorare come si controllava le tasche dopo essersi liberato dalla stretta di Delvin, ma doveva ammettere che quanto meno era stato discreto.
“Farò quel che posso, ragazzi”, disse Delvin, più serio. Qualcosa, nel modo in cui la voce gli si era fatta più ferma e profonda, fece capire ad Alina che li avrebbe aiutati sul serio. Il cuore le si alleggerì un po’: se c’erano segugi infallibili cui affidare una pista erano i membri della Gilda.
Quella sera Vilkas la fissò da sopra una cucchiaiata di stufato, in locanda. Attraverso la cortina di vapore fragrante Alina vide ombre agitarsi in fondo al verde dei suoi occhi. Inarcò un sopracciglio e posò il cucchiaio.
“Allora?” gli chiese. “Non hai quasi detto una parola da quando siamo usciti da… be’, dalle fogne. Che c’è, non vorrai farmi di nuovo la predica sulla condotta morale delle mie frequentazioni, vero?”.
“No, anche se sai benissimo cosa penso a riguardo…”.
“Visto che non perdi occasione di ribadirlo”.
Vilkas strinse le labbra ma ignorò l’interruzione.
“Quello che volevo dire è…”.
Si fermò e abbassò le spalle, l’irritazione svanita.
“Alina, bisogna andare a parlare con la direttrice dell’orfanotrofio. Pensavo che potrei andarci da solo”.
Alina aprì bocca per rispondere stizzita, poi vide l’espressione con cui Vilkas la guardava. C’era amore, quello sempre, e preoccupazione. Ma soprattutto la comprensione terribile di ciò che quel luogo significava per lei. Sentì un nodo stringerle la gola e afferrò il cucchiaio senza sollevarlo.
Erano passati oltre quindici anni e, senza dubbio, la persona che ora si occupava degli orfani possedeva uno spirito caritatevole e non certo la gretta malvagità di Grelod; tuttavia l’idea di aprire quella porta, rivedere la porta del ripostiglio dove la vecchia la rinchiudeva, la stanza dove si rannicchiava per dormire…
Un brivido le percorse la schiena e lasciò andare il cucchiaio. Attese che la sua voce tornasse salda, ma Vilkas la precedette. Allungò il braccio oltre il tavolo e le prese la mano.
“So che potresti farlo, che sei abbastanza forte da sopportare anche questo. Voglio solo che tu sappia che non è necessario e che ci sono io ad affrontare i tuoi mostri”.
Il proposito di non farsi tremare la voce si infranse, ma un ampio sorriso le sbocciò sul volto. Ricambiò la stretta e intrecciò le dita a quello lunghe e callose di Vilkas.
“Vilkas io… non… be’, grazie. Se-se… oh, insomma. Posso aspettarti qui”.
Quando fu uscito per intercettare la direttrice prima che andasse a dormire, però, si sentì sola e stupida, seduta sul letto nella loro stanza della locanda.
Lasciò dondolare i piedi oltre il bordo del materasso e fissò le spesse calze di lana. Quanto ci avrebbe messo? Probabilmente tutta sera, se c’erano scartoffie da esaminare o domande da fare. Vilkas le mancava, ma si rendeva perfettamente conto che il suo era un capriccio e non vera necessità.
Agitò le gambe per un attimo e guardò fuori dalla finestra ad abbaino; la notte era limpida e, per fortuna, priva di draghi.
Era ancora in tempo per raggiungerlo, si disse. Scese dal letto, si infilò gli stivali e il mantello e raggiunse la porta.
I vicoli di Riften erano silenziosi, deserti a parte un paio di guardie di ronda… e un’ombra sospetta ai margini del suo campo visivo. Alina sorrise tra sé, sospettando la scorta silenziosa della Gilda dei Ladri.
Più si avvicinava all’orfanotrofio, però, più quella decisione le sembrava stupida. Era inutile mentirsi, lei non voleva mettere piede in quel posto; cosa c’era per lei, lì? Brutti ricordi e angoscia, nulla che non avesse ormai accettato ma anche nulla che desiderasse rivangare. Si fermò di fronte a un alto muro coperto di rampicanti e distolse lo sguardo dalla struttura di legno dell’orfanotrofio.
Il tempio di Mara sembrava sparire nelle ombre del cortile, una sagoma quieta e discreta, invisibile se non per la porta socchiusa da cui filtrava una lama di luce dorata.
Un attimo dopo si trovò a salire gli scalini di pietra che portavano al tempio senza nemmeno sapere il perché.
L’aria densa del profumo di fiori e incenso le accarezzò la pelle mentre apriva la porta; la luce calda delle candele la ricoprì e portò via almeno in parte la confusione. Quando si sedette sulla panca più lontana dall’altare, però, le domande tornarono.
Era un luogo quieto ma non silenzioso, con lo scricchiolio delle travi del soffitto e lo sfrigolare della cera. Un piccione prese il volo da un davanzale con un gran fruscio di penne.
Alina appoggiò il mento alle mani sulla spalliera della panca di fronte e guardò l’altare.
Mara se ne stava in piedi in fondo alla navata; il volto di pietra era rivolto verso l’alto, pieno di compassione quasi dolorosa, le mani sollevate come in una preghiera… o come se stesse per abbracciare qualcuno.
Me?
Alina scosse la testa, irritata da quel pensiero. Si raddrizzò e incrociò le braccia.
Certo che hai scelto proprio una topaia di città per farti costruire il tempio. Perché qui? Hai idea di quanto sia orribile Riften? Di quanti bambini siano finiti annegati nel canale, con la gente che guardava da un’altra parte?
Si sentì ridicola, a parlare con un’icona di pietra muta e fredda, ma le parole continuarono ad affollarsi nella sua mente.
Perché quando ero io una bambina nessuno mi ha detto che potevo venire qui da te, a cercare consolazione? Ho avuto paura e sono stata sola tanto a lungo, e tu… tu sei solo una statua in un posto che puzza d’incenso. Una bugia.
La gola era così stretta che Alina dovette dare un colpo di tosse. Non aveva mai saputo di covare quel misterioso rancore verso una divinità che aveva serenamente ignorato per tutta la vita, ma ora era difficile fermarsi.
Quello che ho subito mi ha rovinata, lo sai, vero? Hai visto quanta fatica ho fatto per fidarmi di qualcuno, e non sarò mai una persona normale. Che io sia dannata, non penso nemmeno di poter avere figli, o sarebbe già successo a quest’ora!
A quello non aveva mai pensato, non in maniera consapevole, almeno. Ora quella certezza la colpì al ventre e le tolse il fiato. L’angoscia le piegò la testa; stava per coprirsi gli occhi con le mani quando un movimento le fece sbattere le ciglia.
Avrebbe giurato di aver visto il velo di pietra di Mara muoversi appena, come se la statua avesse inclinato la testa. Quando guardò meglio, però, tutto sembrava in ordine: doveva essere stato un gioco di luce.
Sospirò e chiuse gli occhi.
E in quel buio, con i suoni ovattati del tempio, scese inesorabile la comprensione.
Alina non sarebbe stata in grado di dire se fosse stata un’illuminazione divina, la voce stessa della dea o più semplicemente la sua mente che iniziava a capire, ma le cose iniziarono ad avere un senso.
Dove, se non a Riften, se non in mezzo a chi aveva più bisogno di compassione e tenerezza poteva scegliere la sua casa Mara? Nel buio delle palpebre chiuse si accese una candela, e la sua luce gialla sfiorava profili noti: il naso dritto di Vilkas, il sorriso di Farkas, i riccioli di Ria… uno dopo l’altro tutti coloro che amava venivano toccati da quel bagliore e ne sprigionavano a loro volta, fino a che l’oscurità fu punteggiata di stelle. C’era ancora tenebra, ma anche questa stava per diradarsi, mostrando…. Qualcosa.
Qualcuno?
Uno scricchiolio alla sua sinistra la fece trasalire; Alina si alzò a sedere e strinse le palpebre mentre quel velo di misticismo spariva.
La figura incappucciata non era più alta di lei, e a guardarla doveva pesare la metà. Scivolò lieve sulle tavole di legno del pavimento con una sottile candela bianca in mano. Senza degnare Alina di uno sguardo avvicinò lo stoppino a una fiammella e l’usò per accendere altre candele. Ora, con la stanza maggiormente illuminata, Alina la vide con chiarezza: una dunmer anziana, con il viso affilato e una fine ragnatela di rughe attorno ai grandi occhi scuri.
La sacerdotessa terminò il suo giro senza mai voltarsi verso di lei; quand’ebbe acceso quella che riteneva l’ultima candela, però, cominciò a parlare.
“In molti vengono a cercare la benedizione di Mara”, disse con voce dolce. “In pochi però sembrano averne così bisogno”.
L’elfa giunse le mani nelle ampie maniche e guardò Alina. Sorrideva appena e in fondo agli occhi c’era l’ombra di una grande, quieta tristezza.
Alina scosse la testa.
“Non so nemmeno perché sono qui”, disse. “In questo preciso momento, almeno; tra pochi giorni mi sposo, ma quello è già tutto deciso”.
La sacerdotessa la raggiunse e si sedette sulla sua stessa panca; stranamente quella vicinanza non era fastidiosa.
“Non sei certa dei sentimenti che provi per la persona che sposerai?”
“Oh no!” rispose in fretta Alina quasi ridendo. “No, anzi: se c’è una cosa di cui sono sicura è… è Vilkas. Siamo noi due. Però…”
Le parole le mancarono; annaspò per finire la frase, poi lasciò perdere e afflosciò le spalle.
Una fine mano nera le si posò sull’avambraccio.
“C’è amore, tra voi. Non ho poteri magici, mia cara, e non ho viaggiato molto nella mia vita; se però ho imparato qualcosa nel corso dei lunghi anni è che chi si ama trova una via. Sempre”.
Sì, ma una via per cosa? Non lo so. Sono arrabbiata e preoccupata, vorrei fare qualcosa per Gael e non sono neanche certa che sia puro altruismo…
“Credi che sia sbagliato fare il bene di qualcuno per cercare di rimediare a un dolore passato?”
“Piccola mia”, rispose piano la dunmer, “fare il bene non è mai sbagliato, se lo si fa con il cuore”.
La vecchia sacerdotessa le accarezzò la fronte e scostò una ciocca scura. Alina trattenne il fiato mentre una memoria remota le si agitava in fondo alla coscienza. Un’altra donna, un’altra vita, ma quello stesso gesto.
Chiuse gli occhi.
“Mara ascolta i suoi figli, e non è certo da lei offendersi se questi sono arrabbiati o sbagliano. Lei ci ama tutti, anche se in molti non cercano il suo conforto; le preghiere troveranno una risposta, basta avere il cuore pronto ad accoglierle”.
Si alzò e Alina si sentì di colpo più sola; guardò la dunmer con le lacrime in gola ma il cuore più calmo.
“Puoi restare quanto vuoi, figliola; ma ciò che cerchi è là fuori”.
Ciò detto chinò la testa grigia e, con un sorriso senza tempo, si andò a inginocchiare davanti alla statua.
Là fuori.
Alina si riscosse come da un lungo sonno; da quanto tempo era lì? Vilkas si sarebbe preoccupato se non l’avesse trovata al suo rientro.
Si alzò e indugiò un attimo tra le panche; doveva salutare la sacerdotessa? Sembrava così serena, raccolta in preghiera…
Alla fine sollevò una mano in un saluto che nessuno avrebbe visto e abbandonò il tempio.
L’aria della sera le sferzò il viso; per una volta non sembrava carica dei miasmi dei canali. Era umida e salmastra ma fresca. Ne trasse una lunga boccata e si stupì nel guardare l’orfanotrofio.
Sì, ora poteva andarci senza angoscia. Il breve dialogo con la sacerdotessa l’aveva calmata, e il pensiero di Vilkas pronto a stringerle la mano se qualcosa non fosse andato nel verso giusto bastava a darle la forza di affrontare l’impresa.
Non fece in tempo a raggiungere l’ultimo scalino. Il fruscio nell’ombra era troppo marcato per essere la misteriosa sentinella del ladri, troppo in basso e leggero per essere qualcuno in agguato.
Alina si guardò intorno; quando vide che non c’erano guardie nei paraggi si avvicinò in punta di piedi.
“Ehi”, disse sottovoce. “Chi sei?”
Non le rispose altro che un sospiro. Alina sfregò le dita e una debole fiammella le si accese sul palmo… e andò a illuminare un visetto scarno e lurido.
“Gael!” esclamò. Un po’ troppo forte: il bambino si ritrasse, come se volesse farsi inghiottire dalla parete.
“No, no, scusa”, si affrettò a tranquillizzarlo. Spense il fuoco e si accucciò. “Ecco, meglio?”.
Silenzio, ma non bastò a farla demordere. Se era venuto lì, col rischio di farsi scoprire, ci doveva essere un motivo.
“Senti, vieni con me: andiamo in un posto dove le guardie non ti cercheranno, d’accordo?”.
Non gli tese la mano e non lo aspettò, ma quando si fu appollaiata sull’angolo più maleodorante e buio del pontile sentì le assi muoversi sotto i passi del bambino.
Si sedettero fianco a fianco, con la schiena appoggiata a una chiatta.
“Mi stavi seguendo?”.
La macchia scura della testa di Gael annuì. Alina vide che si torceva le piccole mani in grembo, così lo lasciò stare un attimo.
“Me lo ha detto l’uomo nero”, pigolò.
“Chi?”.
Il nome non era proprio incoraggiante e Alina provò un brivido.
“Sì, anche se in realtà non era un uomo ma una donna. E aveva un vestito nero come le ombre, e la faccia coperta. Però gli occhi li vedevo”.
La tensione la abbandonò. Non era nemmeno una donna, a essere precisi, ma poteva capire come Karliah potesse risultare misteriosa, nella sua uniforme. Delvin doveva averne parlato con i suoi, ed ecco arrivata la risposta.
“La conosco, non ti farà del male”.
“Lo so che non mi farà niente, mi ha dato anche delle monete”, continuò il bambino tendendo le gambe secche in avanti. Alina non poteva vederlo, ma era sicura che fossero sporche e graffiate.
“Cosa ti ha detto questa signora?”.
“Che sei il Sangue di Drago. È vero?”.
“Sì. Mi dispiace se oggi ti siamo sembrati aggressivi, ma volevamo aiutarti”.
“Perché?”
Alina trasalì. Era una strana domanda, specialmente se posta con la voce sottile ma ferma di un bambino. Una voce stranamente adulta.
Gael grattò con l’unghia una delle travi e continuò a non guardarla.
“Da quando è morto il nonno e gli hanno portato via la casa nessuno ha mai provato ad aiutarmi. Mi hanno buttato in orfanotrofio ma io non ci voglio stare. Sono scappato”, concluse in tono ribelle.
“Non ti piaceva? Sono sicura che non ti trattassero male…”.
Il bambino fece spallucce.
“Nessuno mi trattava male. Ma non ero a casa e non ero neanche libero. Quello non era il posto per me”.
Le si strinse il cuore. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma si fermò in tempo. Forse l’avrebbe solo fatto innervosire, e lei non è che ne sapesse molto di bambini.
“Io là non ci torno”.
Lo disse con una tale convinzione, priva di enfasi, profonda e pesante come un macigno, che Alina fu certa che sarebbe morto piuttosto che metter piede di nuovo nell’orfanotrofio.
“Anche io sono cresciuta da sola”, si sentì dire.
“Oh? Sei orfana anche tu?”
Alina annuì una volta, poi proseguì.
“A quattro anni mi portarono qui a Riften, ma la direttrice era un mostro. Scappai, e credimi se ti dico che non fu facile sopravvivere alla vita di strada. Conosco la fame, il freddo e…”
E un sacco di cose orribili che non permetterò che ti accadano.
L’intensità di quel pensiero la fece vacillare. Si stava rendendo conto di qualcosa, ma che cosa fosse ancora non le era chiaro.
“Ora ce l’hai, una casa?”.
“Sì”, affermò sicura. “E una famiglia. I Compagni”.
Poteva vedere la luna riflettersi negli occhi sgranati di Gael.
“Davvero? A Whiterun?”.
“Già. Gael, senti… tu non tornerai in orfanotrofio, ma non puoi nemmeno restartene in strada, è pericoloso”.
Il ragazzino si irrigidì.
“Non voglio che degli adulti mi controllino i denti e mi scelgano. Non sono un cavallo!”, ringhiò.
Si alzò con un balzo e indietreggiò.
“Gael, ascoltami, ti prego”, cercò di fermarlo Alina. “Io sarò qui a Riften ancora per qualche giorno. Se avrai bisogno di qualsiasi cosa, se avrai fame, freddo… vieni da me. Se ti sentirai solo, io ci sarò. Se lo vorrai”.
Le parve di vedere il piccolo labbro inferiore tremare, ma fu solo un istante. Il bambino si voltò e camminò via.
Alina rimase a guardarlo ma non provò a raggiungerlo.
Quel bambino le faceva sanguinare il cuore, e ora si pentì di non aver provato ad abbracciarlo.



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Finisce l’estate e tornano gli aggiornamenti!
Mi era mancata questa storia, nata per gioco e per nostalgia. Devo ammettere che sono contenta di avere ancora qualche avventura da raccontare!
Quindi grazie a chiunque abbia letto fin qui e voglia passare ancora un po’ di tempo con Alina e il suo “branco” :)
Essendo il seguito di "Two Steps from Hell", ovviamente ne riprende alcuni dettagli: Riften cupa e pericolosa, Malborn alla Caraffa Logora...
E così ripartiamo con un capitolo con grandi riflessioni e un po’ di vecchie conoscenze.
Spero vi piaccia e… a presto (con puntualità, questa volta)!

Val
   
 
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