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Autore: Valka    05/09/2014    1 recensioni
First Larry ever! ♥
«Louis se ne stava sdraiato sul letto di Harry e osservava incuriosito le pillole per il sonno. Era abbastanza sicuro che sua zia, dopo la depressione post parto, avesse ingerito quantità industriali di quella roba. Chissà cosa avrebbe dovuto farci uno come Harry?
Pensò che avrebbe dovuto saperlo, perché la sera prima l'aveva baciato.
All'inizio era stata tutta una ripicca contro Eleanore, ma poi, vedendolo cosí indifeso era scattato qualcosa. Aveva saputo da Gemma che Harry era più piccolo di lui di un solo anno, ma ieri sera gli era sembrato un bambino, qualcosa da proteggere. Era l'unica cosa certa che ricordava; tutti quei baci che non avrebbero dovuto significare nulla avevano centrato proprio l'obiettivo di quello stupido gioco: confonderlo.»
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Un po' tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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notes: Okay premetto che il prologo è "leggermente" più corto e triste del resto della fic (almeno più corto e triste del primo capitolo). Spero comunque che non risulti noioso. Buona lettura e se volete... fatemi sapere che ne pensate ♥


Black crow. – prologo.
 

La sala d’attesa era vuota.
Sul tavolo nero al centro di essa, sostavano delle riviste vecchie e dall’aria consumata, buttate lì sopra alla bell’e meglio. Erano riviste che comunque venivano mosse di rado.
Sul tavolo, nemmeno un granello di polvere, come d’altro canto ovunque in quella micro saletta.
Un tempo poteva essere stato un posto accogliente, ma le tende che coprivano le enormi vetrate si erano ingiallite e avevano assunto l’aria consunta tipica degli oggetti a cui non si presta troppa attenzione.
Anche la luce di tanto in tanto tremolava e il riscaldamento – troppo basso per sembrare acceso – era pressoché inutile. Le mani del ragazzo stavano ghiacciando, le sentiva intorpidite nelle grandi tasche del giaccone.
Erano strette a pugno. Provò ad aprirne una, poi la richiuse, ma la fastidiosa sensazione fece sì che non provasse un’altra volta l’esperimento. Era al diciassettesimo piano, gli pareva di ricordare, e di tanto in tanto si udivano rumori dei clacson e della strada.
Tirò fuori le mani dalle tasche, le guardò. Erano bianche, bianchissime, come se l’estate non fosse mai esistita.  In alcuni punti erano più arrossate, e per il resto, semplicemente gelide.
Provò a poggiarle sulle guancie, ma anche quelle erano troppo fredde, perciò le infilò nuovamente in tasca.
Si chiese scioccamente se, buttando fuori l’aria dai polmoni, sarebbero uscite le solite nuvolette di condensa causate dal freddo. Ma non provò nemmeno, abbassando invece lo sguardo al pavimento.
Era uno di quei fastidiosi pavimenti a puntini.
Diverse sfumature di puntini grigi che si sovrapponevano e accostavano in maniera decisamente soffocante.
Scosse la testa. Avrebbe dovuto portarsi un libro, ma non c’era stato tempo materiale.
Era tanto che non poteva permettersi il lusso di leggere un libro: si era infatti buttato sui testi scolastici, nel tentativo disperato di distrarsi dal resto e leggere lo aiutava a ricordargli la sua condizione.
Proprio mentre pensava a questo, il suo sguardo venne catturato da una stampa veramente brutta.
Era un uomo sgraziato, grasso e dal naso che sembrava arrossato (nonostante fosse una banale stampa in bianco e nero); se ne stava piegato sulle ginocchia, con un irritante sorriso in volto ed accarezzava un cane in piedi sulle due zampe posteriori.
L’uomo al braccio aveva un ombrello, stretto in cima e decisamente sproporzionato in fondo.
Dietro di lui, solo colline e un sole con gli occhi chiusi che tramontava.  
Il cane era decisamente l’unica cosa che avrebbe salvato di quel quadro. Proprio in quel momento, la porta dello studio si spalancò, facendolo sobbalzare come se fosse stato colto durante una rapina. - Allora grazie. E… e a mercoledì! – la voce tremante dell’omuncolo che stava uscendo non gli lasciava presagire nulla di buono.
Con un sospiro si preparò. Una signora sulla quarantina fece capolino dalla stessa porta.
Aveva una nuvola di capelli neri raccolti attorno alla testa, e un sorriso innaturale per il genere di situazione.
Anche se, si disse il ragazzo, non vedeva perché non avrebbe dovuto sorridere.
Non era lei che stava andando dal dottore per pazzi. Lei ci lavorava, per il dottore per pazzi.
Gli venne in mente sua madre che gli diceva che non era un dottore per pazzi, che è normale prendere un appuntamento del genere e una sfilza incredibile di stronzate per farlo sentire okay col resto del mondo.
La cosa non gli restituì nemmeno un po’ di vigore, così si limitò a prendere aria nei polmoni, restituendo alla signora il tentativo di un sorriso gentile ma decisamente incerto.  - Signor… Harry Styles? – domandò la donna, consultando un foglio che doveva essere la lista degli appuntamenti.
- Sì. – rispose Harry, con un cenno della testa.
- Oh caro, mi spiace averla fatta aspettare qui al gelo. Questa è la sala d’attesa comune anche con gli altri dottori, sa… - disse, rimanendo ferma con la testa ma indicando con un’occhiataccia furtiva la porta che recitava il nome di un certo K. Emerson.
- Accomodati pure qui, il dottore la farà entrare tra qualche istante.  – assicurò poi, con più garbo.
L’altra stanza era completamente diversa.
Sembrava una di quelle sale che si trovano nei locali.  Era illuminata da una luce quasi arancione, e sopra ogni divanetto d’attesa vi erano affissi quei quadri che ormai si trovavano ovunque, ove vi erano raffigurate le città famose come New York, Londra, Parigi o Tokyo.
Insomma, un classico. - Siamo stati informati delle sue condizioni e il dottore mi ha pregato di dirle che non ha di che preoccuparsi. – Harry annuì, senza capire davvero.
Cosa avrebbe dovuto importare a lui che i suoi amici, i parenti o chi per loro sapessero dove stava andando? Ormai sapevano tutto.
La vita gli era completamente scivolata via dalle mani.
Suonò un qualche campanello, come quelli che si sentono spesso nelle hall degli hotel, e la segretaria scattò. - Il dottore è pronto a riceverla. – Insieme percorsero un corridoio lungo appena qualche metro. Poi lei, con un’ostentata cortesia, gli aprì la porta, rivolgendogli infine un sorriso, prima di richiudersela alle spalle. Il cambiamento più piacevole, dalla prima sala d’attesa a questa sala, era sicuramente il riscaldamento. Sentiva di poter di nuovo serrare le mani a pugno, e il sangue affluire alle guancie, forse arrossandogliele un po’ troppo. Nello studio c’era il parquet, un bel cambiamento dai pallini grigi.
Tutte le sedie erano in pelle nera, compresa chaise longue da psicologo. Non gli veniva in mente nessun altro nome per quella specie di poltrona oblunga. Probabilmente doveva esserci un termine specifico, ma di certo lui non ne era a conoscenza.
Infine una grande scrivania in mogano troneggiava sulla stanza. Sopra vi erano sparpagliati dei fogli, e vi era poggiato anche uno strano fermacarte a forma di conchiglia,  probabilmente di marmo.
Era brutto. - Buonasera – sorrise l’uomo dietro la scrivania. E Harry, che fino a quel momento si era aspettato di vedere qualcuno sulla sessantina con una marea di capelli canuti, rimase sorpreso. Piacevolmente sorpreso. L’uomo che aveva di fronte non dimostrava più di trent’anni.
Aveva la pelle pallida, tipica degli abitanti di Londra, e una zazzera di capelli castani gli fluttuava attorno al viso, morbida.  Anche gli occhi, verdi e nascosti da dei sottili occhiali da lettura, erano occhi intelligenti e gioviali. Harry sospirò, un sospiro di mero sollievo. - Buonasera – disse a sua volta, lasciandosi sfuggire un sorriso più rilassato, e accomodandosi su una delle seggiole in pelle.
- Allora iniziamo, vuole? –  Harry annuì, dunque l’uomo gli sorrise, cordiale.
- Allora, Harry, io sono il dottor Trevyn Harvey, e da oggi lei condurrà le sedute con me. Mio padre avrebbe dovuto averla come paziente, ma un’altra donna ha insistito per tornare sotto le sue cure e non aveva proprio più spazio. Certamente lui ha più esperienza di me, ma spero non se ne rammarichi troppo. –  Harry, in quella sorta di caldo tepore afrodisiaco, scosse la testa.
- Avrei giurato che fosse Londinese. – disse poi.
L’uomo rise. - Vengo dal Galles – specificò – come mai tanta convinzione? –
- Non saprei. La pelle, forse? – il sorriso si fece ancora più incerto sul volto di Harry, mentre lo psicologo ne sfoggiò uno tutto denti.
- Ascolti, per iniziare, dovrebbe sdraiarsi lì. Le sedute dureranno due ore, e poi sarà libero di scappare a gambe levate dallo studio, glielo prometto. – con un indice affusolato e ben curato, affatto come quello dall’unghia mangiucchiata di Louis, gli indicò la chaise longue.
Si morse il labbro, perché ci aveva pensato di nuovo. Louis.
Rapidamente – forse un po’ troppo - si accomodò sulla poltrona, rimanendo prima seduto per qualche istante e poi, notando che il dottore stava aspettando che si mettesse comodo, sdraiandosi.
- Si trova a suo agio? – Seduto in quella maniera, senza avere la più pallida idea di dove mettere le braccia, come sistemare le mani o se tenere gli occhi chiusi o meno, no, non si sentiva affatto a suo agio. Non sapeva neanche se prima avrebbe dovuto togliersi le scarpe.
Ma soprattutto non sapeva dov’era il dottore, perché tenendo la testa dritta di fronte a sé, non vedeva altro che la bella scrivania. Era sicuro che gli stesse accanto, ma non poteva osservarlo senza sentirsi ancora più a disagio.
No, non si trovava a suo agio.  -  Sì, è perfetto. –
- Benissimo. – ebbe l’impressione che il dottore stesse sorridendo ancora.
- Ora si rilassi. –
Harry chiuse gli occhi, ma non era nemmeno certo di come rilassarsi.
Pensò di essere a casa, la casa dei suoi, in quelle domeniche dove correva nella sala della colazione in mutande e Gemma lo implorava affinché si coprisse, e poi litigavano tutta la giornata.
In quel momento gli mancavano quelle litigate, gli mancavano quelle domeniche spensierate e gli mancava la sua casa.
La loro casa.
- Prefetto, bravissimo. Ora possiamo iniziare a parlare. Qual è stata la causa che l’ha spinta a frequentare queste sedute? –
Harry sospirò.
E poi, come se l’uomo fosse un pescatore in grado di estrargli le parole di bocca con un amo veramente poco allettante, cominciò a raccontargli tutto dal principio.

 
   
 
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