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Autore: Madness in me    08/09/2014    2 recensioni
Una ragazza, un po' strana e complicata, con degli amici stravaganti.
La ragazza non crede nell'amore, non ci ha mai creduto eppure, in qualche modo, quel sentimento è riuscito a fregare anche lei.
Una storia che si intreccia tra amicizia, amore, paura, confusione e milioni di altri sentimenti che si svolgeranno all'interno di una trama di avventure stravaganti.
"She's a dwelling place for demons.
She's a cage for every unclean spirit, every filthy bird and makes us drink the poisoned wine to fornicating with our kings." -Avenged Sevenfold; Beast and the Harlot
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio, The Rev, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 3.
"So tell me dear, can you heart still break if it’s already stopped beating ?"

 

 

 

“Esci da quel fottuto bagno, Azriel, o vengo a prenderti per i capelli!” mi gridò Alice.
La faceva facile lei, in quel suo bel vestito rosso stava da dio, era bellissima, come sempre.
Mentre io ?
Io, nel mio vestitino striminzito nero, con la stupida scollatura a cuore, sembravo una specie di lumaca bitorzoluta, almeno ai miei occhi.
Inoltre non riuscivo a camminare con quegli stupidi tacchi alti e odiavo i capelli legati in quella fastidiosa coda alta.
“Non esco da qui in questo stato!” urlai, sbuffando poi.
“Azriel, piantala, cristo! Stai benissimo, quel vestito ti sta divinamente e ora muoviti! I ragazzi e le altre sono tutti giù, stiamo tutti aspettando te e Brian tra poco perde la pazienza dato che la macchina è in moto da quindici minuti.” Continuo Alice, dando una botta alla porta a cui ero appoggiata.
“Non voglio venire, lasciatemi qui!” gridai ancora.
“Io ti avevo avvertita!” gridò lei, poi la sentii allontanarsi dalla porta.
Non feci nemmeno in tempo a tirare un sospiro  di sollievo che sentii una chiave infilarsi dall’altro lato della porta per poi girare, la serratura scattare e infine Matt, sorridendo dispiaciuto, che mi caricava in spalla borbottando uno “scusa bimba, ma gli altri aspettano e Alice non sente ragioni.” Per poi gettarmi in macchina nel sedile posteriore vicino a Zacky che mi sorrideva.
Sbuffai mentre Alice saliva davanti vicino a Brian alla guida e mi lanciò un’occhiataccia “E guai a te se tieni quel fastidioso broncio tutta la sera, Az.” Concluse, mentre partivamo.
Ero impegnata a tirare convulsamente giù il bordo del mio stupido vestito quando sentii Zacky sussurrare “Ehi, bimba, calma.”
Mi voltai e lo trovai a sorridermi dolcemente e mi sentii improvvisamente stupida.
Mi sistemò una ciocca di capelli sfuggita dalla coda poi mi carezzò una guancia.
“Stai davvero benissimo, mai visto tanta bellezza.” Disse poi.
Sentii come se le guance volessero sciogliersi ma non glielo permettevo da così tanto tempo che ormai non arrossivo quasi più e mi limitai a sorridere e sussurrare un ringraziamento.
In fondo, era solo una bugia di cortesia, la sua.
Ci fermammo ad un semaforo e la macchina guidata da Matt ci affiancò, Matt tirò giù il finestrino ed iniziò a chiacchierare allegramente con Brian.
Ero impegnata a scrutare distrattamente il sorriso raggiante di Matt quando il mio occhio cadde sui sedili posteriori.
Leana e Rev erano aggrovigliati una con l’altro e più che baciarsi, si stavano letteralmente mangiando.
Quando Matt ripartì, io ero ancora fissa sul finestrino, incredula.
Poi scossi la testa.
Io stavo con Zacky.
A me non importava di Rev.
No.
Più o meno..
Sospirai scacciando quei pensieri e fui sollevata nel notare che Vee era impegnato a parlare con Brian e non mi aveva notata ma qualcun altro, in quella macchina, mi aveva notata, anche troppo.
Alice mi guardava dallo specchietto.
Gli occhi scuri quasi spalancati e una punta di dispiacere nella sua espressione.
Le sorrisi il più convincente possibile e sembrò rilassarsi, sebbene sapevo che in realtà non aveva creduto a quel sorriso nemmeno un istante.
Tornai a guardare fuori dal finestrino e mi accesi una sigaretta.
Raggiungemmo il locale in nemmeno venti minuti e appena scesi dalla macchina, tornai a preoccuparmi del vestito troppo corto per i miei gusti, senza far caso allo scorrere del tempo.
Nel pub quella sera c’era una piccola band emergente e una folla esorbitante si spargeva tra i tavoli, il bancone e lo spazio davanti al piccolo palco.
Nel giro di un’ora, tutti i ragazzi erano in qualche angolo con le rispettive fidanzate mentre solo Alice e Brian se ne stavano, raggianti e sicuramente ubriachi, davanti al palco, incitando i poveri malcapitati membri della band a suonare canzoni che a loro sembravano più adatte.
Io me ne stavo seduta al bancone, in un angolo, silenziosa.
Ero alla quinta birra e ormai il barista, Andrew –o forse Mark ? non ne ero proprio sicura-, si limitava a porgermi la successiva birra appena vedeva che la mia era finita.
Zacky ?
Oh beh, Zacky si era allontanato da me più o meno dieci minuti dopo che eravamo entrati nel pub.
Aveva incontrato una sua vecchia conoscenza, un compagno delle superiori, mi pareva di aver capito.
Un certo Arin.
Un ragazzo davvero carino, carnagione olivastra, due grandissimi occhi scuri e i capelli neri mossi, sparsi qua e la, secco come uno stecchino ma con un sorriso davvero dolce.
E così quel bambino mi aveva sfilato il ragazzo da sotto il naso e ora erano, da non sapevo quanto, seduti ad un tavolo a bere e ridere senza limiti.
Stappai la sesta birra lasciando, in automatico, i soldi sul bancone e presi a bere di nuovo.
Ero concentrata sui sorrisi di Brian e Alice quando mi sentii toccare un fianco e, sobbalzando, mi voltai.
Rev era in piedi dietro di me, il suo classico ghigno da stronzo ben piantato in faccia e gli occhi lucidi di chi aveva bevuto decisamente troppo.
Tornai subito a guardare il palco, decisa ad ignorarlo e lo sentii avvicinare le labbra al mio orecchio per poi sussurrare “E il tuo ragazzo.. dov’è ?”
Trattenni il fiato, stringendo la birra “Lasciami stare, James.”
“Non la vuoi un po’ di compagnia ? Non lo sai che non è bello per una piccola bambina indifesa starsene sola in un posto simile ?” continuava a sussurrare e sentii la sua mano scivolare lentamente sul mio fianco.
La reazione, scatenata da quel che ormai era esasperazione totale, arrivò spontanea.
Mi voltai di scatto e gli mollai uno schiaffo di quelli che si vedono nei film, quelli che lasciano le cinque dita stampate sulla pelle per qualche secondo.
Poi afferrai le sigarette e l’accendino dal bancone e balzai giù dallo sgabello, facendomi velocemente strada tra la folla che sembrava stesse per soffocarmi.
Non appena fui fuori dalla porta non ci pensai nemmeno, mi sfilai le scarpe lasciandole a terra e mi accesi, con la mano tremante, una sigaretta, schizzando via.
Ero a metà strada quando tutto ciò che avevo tenuto in quel momento, la mia maschera di noncuranza, mi crollò addosso schiacciandomi.
Mi ritrovai a camminare lentamente, in lacrime, tremando e faticando anche ad aspirare dalla sigaretta.
Sciolsi la coda che sembrava minacciare di strapparmi la pelle della testa da un momento all’altro e continuai a camminare.
“AZRIEL, PORCA PUTTANA FINALMENTE!” gridò la voce tanto familiare di Alice subito dopo il rumore di una frenata.
Mi voltai e non le diedi neanche il tempo di scendere dall’auto che mi gettai al suo collo, affondando il viso contro la sua spalla e singhiozzando, come una perfetta idiota.
“Cos’è successo ?! Ti hanno fatto del male ? Azriel, che succede ?” la voce di Gates, appena dietro Alice, arrivava flebile alle mie orecchie eppure sapevo che era li li per urlare.
Alice fece un gesto con la mano per poi trascinarmi fino alla macchina senza lasciarmi un istante, sedendosi ai piedi del sedile del passeggero e lasciando che mi stringessi tra le sue braccia, senza smettere di piangere.
“La giacca, Bri, per favore..” sussurrò piano Alice e dopo poco mi sentii avvolgere in quella che dedussi essere la giacca di Gates.
“E’ stato Rev ?” domandò Alice, dopo qualche minuto, quando riuscii a calmare il pianto isterico e mi limitai ad annuire, rimanendo stretta tra le sue braccia.
La sentii passare piano le dita tra i miei capelli e mi sentii più al sicuro.
Sentii Gates, dietro di me, sospirare e mi sentii in colpa.
Le cose tra lui e Rev, da quando c’ero io, non andavano poi così bene, anzi.
Erano andate via via peggiorando.
Quando fui abbastanza calma da smettere di tremare, mi accesi una sigaretta e, rimanendo tra le braccia di Alice iniziai a raccontare ciò che era successo dal momento in cui ero entrata in quel pub fino a quando ne ero uscita.
Alice, come suo solito, non parlò ma mi tenne sempre più stretta, come a volermi proteggere.
Gates si limitò ad imprecare ogni tanto.
Dopo un paio di sigarette mi lasciai caricare in macchina e mi feci accompagnare a casa.
Entrai e mi lasciai cadere sul divano a faccia in giù.
“Rimaniamo qui ?” Domandò Gates.
“No, vi prego..  non voglio rovinarvi ancor di più la serata. Tornate al pub e divertitevi. Dormo un po’, di certo non mi farà male.” Dissi, tentando di essere il più convincente possibile.
Sentivo lo sguardo di Alice trafiggermi la schiena ma non osai alzare la testa dal divano.
Se l’avessi fatto, lo sapevo, mi sarei lasciata andare di nuovo e li avrei costretti, come spesso succedeva, a rinunciare alla loro serata insieme per badare a me.
Così, dopo tre minuti buoni di silenzio sentii Al sospirare e avvicinarsi per baciarmi la testa e sussurrare “Va bene.. ma stasera io e Gates dormiamo qui. E niente obiezioni. Riposati un po’..”
Annuii piano poi li sentii allontanarsi, la porta si chiuse e sentii la macchina partire e allontanarsi.
Mi misi seduta, fissandomi i piedi.
Accesi l’ennesima sigaretta e rimasi con gli occhi sgranati, senza nemmeno battere le palpebre.
Mi sentivo di nuovo vuota.
E stupida, soprattutto.
Gli avevo permesso di nuovo di giocare con me.
Mi ero mostrata, come sempre, debole e in suo completo potere.
Ora lui se ne stava li, con tutti i miei amici e quella stupida puttana montata mentre io me ne stavo da sola, spenta e disperata.
Fu in quel momento che presi una decisione di quelle che si prendono solo quando la mente è annebbiata dall’alcol e dal cuore in frantumi.
Di quelle decisioni che, a pensarci a mente lucida, ti rendi subito conto essere stupide ed insensate.
Salii al piano di sopra spogliandomi lungo le scale e mi affrettai in camera, infilai jeans, maglietta, felpa e scarpe poi afferrai uno zaino.
Buttai nello zaino un paio di vestiti, il portafoglio, tutti i soldi che avevo da parte nascosti per la camera, il cellulare, le mie scorte di sigarette poi mi strinsi nella felpa e poggiai le chiavi sul tavolo a tener fermo un foglietto con scritto solo “Scusate.” Poi avevo afferrato le chiavi della macchina che raramente usavo ed ero uscita di casa, lasciando di proposito la porta accostata.
Salii in macchina e partiti senza nemmeno aspettare un secondo, senza mai guardarmi indietro.
Raggiunsi la stazione e balzai giù, mollando li la macchina con le chiavi ancora nel cruscotto, non mi importava.
Entrai e raggiunsi la biglietteria.
“Posso aiutarla ?” domandò la commessa, una giovane ragazza dai lunghi capelli scuri e mi sentii trafiggere quando, per un misero istante, mi parve di vedere Alice.
Scossi nervosa la testa per poi dire, con la voce appena tremante “Ho bisogno di un biglietto per l’aeroporto, per favore..”
La ragazza parve scrutarmi qualche istante, forse si chiedeva se fosse corretto dare il biglietto a quella che sembrava come un’adolescente appena scappata di casa ma, dopo qualche istante di esitazione, digitò qualcosa al pc, rimase in attesa e stampò il biglietto che mi porse con un mezzo sorriso.
Ringraziai, inespressiva, lasciai i soldi sul banco sotto la finestrella poi mi allontanai svelta, raggiungendo la banchina del mio treno e mi misi seduta a terra, accendendomi una sigaretta.
Passai più di venti minuti nel silenzio più totale, non c’era quasi un’anima in stazione, se non due ragazze che, evidentemente ubriache, ciondolavano qua e la cantando abbracciate e un barbone che, infreddolito, se ne stava arrotolato su una panchina, coperto da pagine di giornale sgualcite.
Sospirai e salii sul treno non appena le porte si aprirono, presi posto e mi portai le gambe al petto.
Quando il treno partì ricacciai dentro le lacrime e mi vietai, categoricamente, di guardare fuori dal finestrino.
Evidentemente mi addormentai perché quando sentii il cellulare squillare, mancavano ormai solo due fermate.
Risposi titubante.
“AZRIEL DOVE SEI ? TI PREGO NON FARE STRONZATE, DIMMI DOVE SEI E VENGO A PRENDERTI!” gridò Matt, dall’altra parte del telefono.
Sentii chiaramente Alice urlare furiosa in sottofondo e mi strinsi nelle spalle, sussurrando un debole “Scusate..” per poi attaccare la chiamata e spegnere il telefono, ricacciandolo in tasca insieme alle lacrime.
Non stava a loro, occuparsi di me.
Non si meritavano tanti problemi.
Meritavano solo di stare tranquilli e in pace, senza il peso della mia presenza sulle loro spalle.
Non ero affatto convinta della mia scelta ma non lo stavo facendo per me, lo facevo per loro.
Per permettere a Zacky di sorridere sempre raggiante come aveva fatto al pub con quel ragazzo, per lasciare che Alice e Brian si godessero le loro serate gioiose insieme, per far sì che Brian ritrovasse suo fratello e che Matt non fosse più obbligato a preoccuparsi della ragazzina incapace di muovere un passo da sola senza cadere, per lasciare libero Johnny dall’ansia di ritrovarmi senza vita in un cesso per aver ingerito pasticche a caso e, chissà, forse anche per liberare Jimmy dalla mia presenza che sembrava arrecargli tanto disturbo.
Raggiunsi l’aeroporto senza mai alzare il viso, continuando a fissare il pavimento senza neanche vederlo, feci il biglietto per New York senza quasi parlare poi mi rannicchiai in un angolo dell’aeroporto e rimasi li per cinque ore, infine mi alzai e raggiunsi il gate in rigoroso silenzio.
Salii sull’aereo e presi posto.
Fu solo quando vidi la mia amata California ridursi ad un mucchietto indistinto di lucine che mi permisi di lasciar uscire tutte quelle lacrime che avevo tanto duramente tenuto.
Poggiai la fronte al vetro e continuai a singhiozzare, in silenzio.
Se solo avessi alzato la testa da quel divano, se solo avessi puntato i miei occhi in quelli scuri di Alice, forse, ora sarei ancora nella mia piccola casa in California.
Probabilmente sarei stata stretta tra le braccia di mia sorella, con le sue dita leggere tra i miei capelli e la voce calda di Brian che raggiungeva le mie orecchie di tanto in tanto.
Probabilmente avrei sentito la calda risata di Matt che, bonariamente, derideva il povero JC che aveva fatto cadere tutto il caffè mentre Zacky suonava la sua amata chitarra e, perché no, forse avrei sentito anche il continuo e fastidioso sbuffare e sospirare di Jimmy.
Ma era tardi.
La nebbiolina dell’alcol aveva lasciato posto alla totale lucidità che si alternava con un martellante mal di testa e la mia finta sicurezza si era sbriciolata, come un bicchiere di vetro che cade al suolo dopo un volo di dieci metri e ora rimanevo io.
Azriel.
Quella vera.
La bambina spaventata e sola, tremante e debole, in lacrime, con in mano null’altro che un pugno di sentimenti che non mi erano serviti a nulla se non a stare sempre peggio, fino a ridurmi a ciò che ora rimaneva di me, un agglomerato di sentimenti aggrovigliati intorno alle mie fragili ossa.
E feci ciò che mi riusciva meglio, piangere.
Piansi tanto, troppo.
Fino a sfiancarmi ed addormentarmi.
Quando mi svegliai stavamo atterrando.
Gli occhi erano gonfi e pesanti e forse il cuore mi pesava ancora di più.
Scendere dall’aereo e uscire dall’aeroporto fu così meccanico che quasi non me ne accorsi e in men che non si dica, mi ritrovai per le strade dell’affollata e rumorosa New York, alla disperata ricerca di un fottuto taxi.
Quando ne trovai uno quasi sbracai a terra  un uomo sulla quarantina per entrarci e sputai svelta la via che dovevo raggiungere.
Poi mi lasciai andare sul sedile, fissando fuori senza però vedere nulla.
Avevo fatto quel percorso così tante volte da ricordarlo perfettamente a memoria, nonostante fossero passati anni dall’ultima volta.
Sì, ero nata li.
Nella stupida, rumorosa ed eccessivamente popolata New York.
Ero andata in California per una vacanza studio e li avevo conosciuto Alice, la mia via di salvezza, l’unica luce nel buio che era la mia vita.
Alice, figlia di una famiglia benestante, come la mia, non aveva vita facile, proprio come me.
Suo padre era un uomo d’affari che non si curava affatto di sua figlia e sua madre ? Sua madre non c’era mai stata.
Alice ricordava vagamente i suoi occhi scuri ma null’altro.
Lei si era tirata su da sola, era andata a scuola, aveva frequentato il conservatorio e li aveva incontrato i ragazzi.
Dopo due o tre anni, ero arrivata io.
Allora avevo cominciato a fare avanti e indietro, ogni volta che avevo una pausa da scuola, rubavo i soldi ai miei e prendevo l’aereo, raggiungendo la bella e soleggiata California per rifugiarmi tra le braccia di Alice.
Perché sì, Alice era il mio rifugio.
Da cosa ? Beh, da un padre sempre troppo occupato a gestire il suo giro di prostitute e da una madre troppo occupata a prostituirsi per ricordarsi della mia stupida, inutile e non voluta esistenza.
Mio padre gestiva uno dei più grandi giri di prostituzione di tuta New York, mia madre era una delle prostitute più conosciute.
Io ? Io ero solo un fottuto errore.
Ero stata la follia di un momento.
L’idea campata in aria di due poveri pazzi che non sapeva nemmeno badare a loro stessi ma avevano deciso di mettere al mondo un’altra vita, tanto per rovinarla un po’.
Ma una cosa positiva quei due l’avevano fatta, mi avevano lasciato libero accesso a tutti i loro soldi.
E, inoltre, mi avevano lasciato un’altra cosa, il piccolo appartamento in St. Mark Avenue, a Brooklyn.
Pagai il taxi e scesi, dirigendomi verso il piccolo palazzo rosso scuro di sei piani ed entrai, fermandomi alla portineria.
Per mia enorme sorpresa il vecchia Carlos era ancora li, i suoi buffi baffi neri ora brizzolati e la testa pelata e bitorzoluta, insomma, il classico messicano anziano, dal volto simpatico ma che non attirava null’altro che un semplice sorriso; di quelli che incontri per strada e sorridi pensando ‘che messicano simpatico’, pur non avendo nessuna conferma del suo essere messicano ma te lo senti, si vede, ce l’ha scritto sulla pelle.
“Salve, Signor Ortiz” dissi, piano, senza riuscire a trattenere un sorriso.
Carlos alzò il volto dal suo giornale, si sistemò gli occhialetti sul naso, ridusse agli occhi a due fessure per poi illuminarsi in un gigantesco sorriso, alzandosi lentamente dalla sua sedia e uscendo dalla sua piccola stanzetta per venire ad abbracciarmi, gridando, con quel suo buffo accento “Bondad de el cielo, la niña con el fuego tra i capelli!”
Alzai gli occhi al cielo divertita, ricambiando piano l’abbraccio di quell’uomo che per me era come un nonno.
“Sono felice di rivederti anch’io, Carlos.” Sussurrai, piano.
“Qual buon viento ? Ti mancava il tuo abuelo ?”
“Carlos, si dice nonno, a New york.” Sorrisi.
“Abuelo, nonno. Non cambia muy.” Borbottò, sorridendo e sciogliendo l’abbraccio, tenendomi per le spalle e guardandomi “Guardati.. altro che niña, sei diventata una mujer meravigliosa.” Concluse, sorridendo dolce come solo un nonno sa fare ed abbassai istintivamente lo sguardo.
Non amavo i complimenti per educazione ma lui era l’uomo che, anche più dei miei genitori, si era preso cura di me e non potevo permettermi di contraddirlo o mostrargli qualche smorfia contrariata così mi limitai a tenere quel sorriso forzato.
“Senti Carlo, vorrei salire a casa.. posso avere le chiavi ? Ho bisogno di riposare, il viaggio è stato lungo.. magari scendo più tardi a fare quattro chiacchiere, mh ?” domandai, gentile, sperando nel suo istinto da nonno e fu, stranamente, ascoltata.
“Ma certo, niña. Ecco, tieni.” Mi disse, raggiungendo goffamente la sua postazione, cercando qualcosa per poi porgermi la chiave del mio appartamento e rimanere a sorridermi, salutandomi con la mano mentre sparivo lungo le scale.
Non appena infilai la chiave nella toppa, lasciai cadere il finto sorriso e tornai alla mia inespressività.
Aprii lentamente la porta ed entrai nell’appartamento affrettandomi a richiudermi la porta alle spalle, lasciando cadere lo zaino e poggiando la schiena al legno, alzando lentamente lo sguardo.
Tutto proprio come lo ricordavo.
Il tavolino in legno con le due sedie scomodissime, camuffate da due cuscini rossi, il tutto poggiato al muro sotto la finestra quadrata, coperta da una tenda anch’essa rossa.
Voltando lo sguardo a destra, lo scomodo divano poggiato al mobile della cucina con davanti la TV e quella specie di cucina con un lavandino, mobili tutti graffiati dalle varie visite di Spettro, il gatto di Alice e i fornelli macchiati di tutte le volte che avevo quasi dato fuoco a tutto per provare a cucinare qualcosa.
A sinistra due porte, quella che portava al microscopico bagno con una piccola vasca, un water e un lavandino e poi quella della mia camera.
Passai davanti la libreria, sfiorandola silenziosa con le dita, permettendomi un mezzo sorriso e poi aprii la porta della mia stanza.
Esattamente come l’avevo lasciata.
I poster delle mie band preferite ancora attaccate alla parete sopra la scrivania ricolma di libri, voltai lo sguardo lasciandolo scivolare sull’enorme letto matrimoniale con le coperte rosse che tante volte avevo condiviso con Alice e sopra la parete, eccole.
Le foto.
Foto di me e Alice, foto di Alice con Spettro in braccio.
E ancora, foto dei ragazzi, Alice e i ragazzi, io, Alice e i ragazzi.
Le guardai, sospirando e ripromettendomi di strapparle il prima possibile poi tornai in sala e sospirai, fissando il pavimento.
Carlos, come suo solito doveva aver ripulito tutto svariate volte, ripetendosi “tornerà, prima o poi e se lo facesse, troverà pulito” e lo avrei ringraziato.
Lasciai il cellulare spento sul divano, mi accesi una sigaretta poi raggiunsi il bagno, guardandomi un istante allo specchio, disgustata, aprendo poi l’acqua della vasca e iniziando a spogliarmi, per poi scivolare nell’acqua tiepida fumando e chiudendo gli occhi.
Quel vuoto nello stomaco non si sarebbe riempito nemmeno con tutti i sorrisi più sinceri di Carlos.
Il mio mal di testa martellante non si sarebbe fermato neanche con tutti i bagni caldi del mondo.
Speravo solo di chiudere gli occhi e non riaprirli, ma sapevo non sarebbe successo.
Lasciai cadere ancora altre lacrime, pregando fossero le ultime che il mio corpo potesse contenere mentre sentii, o meglio immaginai di sentire, nella camera affianco, la contenuta ma bellissima risata di Alice e fu istintivo tirare su di scatto la testa e pigolare, disperata “Alice.. ?” ma fu quando, dopo svariati minuti, non ricevei risposta che ricordai.
Alice non c’era.
Alice non ci sarebbe stata.
Perché ? Perché era giusto così.
Ora forse era furiosa, magari stava spaccando tutto ciò che le capitava a tiro, mettendo sottosopra la mia camera e maledicendomi mentre Gates la osservava, affranto e in silenzio.
Matt al piano di sotto se ne stava inespressivo, stringendo a se il piccolo JC che piangeva mentre Zacky fissava la sua chitarra, spento.
Jimmy ? Jimmy probabilmente se ne stava con Leana, festeggiava, lui.
Aveva vinto.
Ma sarebbe passato tutto.
La tristezza sarebbe scemata fino a sparire, mi avrebbero dimenticata e sarebbero tornati tutti alla vita di ogni giorno, quella bella, felice.
Quella senza di me, la rossa dal cuore fermo e le speranze troppo grandi.
Chiusi di nuovo gli occhi e mi lasciai andare al sonno, perché forse almeno li avrei trovato tranquillità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eccomi. 
*Si nasconde dietro il divano* NON UCCIDETEMI.
Lo so, lo so, sono stata una maledetta ad averci messo tanto ma ho avuto seri problemi a scrivere.
Spero il capitolo sia piaciuto e spero continuerete a seguirmi.
Scusate ancora il ritardo.
Somuchlove,
Sah. 

  
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