Il
re
Le luci non sono ancora accese.
Posso dire con certezza che è questo il momento che odio di più. Non si
sente niente se non un rumore sordo da qualche parte in fondo al cuore e il
respiro di chi ti sta intorno. Che poi, “chi mi sta intorno” starebbe a significare “altri tre individui prossimi a farsela sotto
dalla paura, esattamente come me”.
C’è solo un tendone rosso scuro a separarmi dal resto del mondo…
Ma è davvero definibile “il resto del mondo”? E
se la platea fosse vuota? Se, invece che applausi, ci
fossero fischi ad accogliermi? Ma no, non possono essere venuti qui per fischiarmi.
Su, Bill, rilassati.
E’ sempre così, lo sai, abituati, datti pace, insomma, qualsiasi cosa!, ma smettila. Immediatamente.
Eccolo! Si è aperto. Dio, è così lento che mi sento come se il tempo
fosse scandito da un enorme e rumoroso orologio piazzato direttamente sopra la
mia testa. Tic, tac, tic, tac, tic, tac.
Boato.
Non sono qui per fischiarmi.
Buffo, vero?, che il momento più bello in
assoluto arrivi subito dopo quello peggiore? Eppure è
così.
Una corsa fino al ciglio del palco. Scivolare, anzi no, volare,
sorridere, allargare le braccia come se potessi stringerli tutti
insieme. E fermarsi a pochi centimetri dal bordo,
quasi come a voler cadere giù. Loro mi accoglierebbero tra le loro
braccia, lo so, esattamente come vorrei fare io in questo momento.
Ma lo show è appena cominciato. Avrò modo di coccolarli a modo mio.
“Ciao Berlino!”
Volo di notte sulla marea
Inizia così un’altra odissea
Volo sfiorando
Le onde sotto di me
Sicuro perché
Mi chiamano il re
Di domande me ne hanno fatte tante, in un’intervista. Ma non mi hanno mai chiesto cosa si provi nel momento esatto
in cui ci si ferma e ci si rende conto che non basta uno sguardo per contenere
tutta quella moltitudine. Quella moltitudine che è lì solo
per te.
Risponderei che è come stare in equilibrio su una tavola da surf: un
po’ sei tu a dominare le onde, e un po’ sono loro a decidere per te. Ma è un’alternanza armonica, perfetta nella sua semplicità.
E portarsi il microfono alle labbra, indugiando un attimo sulle prime
parole da rivolgere al tuo pubblico prima che la
musica sovrasti le loro urla, cercando di rivolgersi a tutti loro messi
insieme, e poi cambiare idea, perché li si vuole ringraziane uno ad uno, anche
se tutto è appena cominciato.
Perché non ti deluderanno, e lo sai.
Risponderei che è come sentirti infinitamente piccolo e poi
infinitamente grande, infinitamente meschino e infinitamente potente.
E rendersi conto cosa significhi, dopo tutto
questo, sentirsi un re.
Risponderei che non so rispondere.
Poi ti rendi conto di non essere né grande né piccolo, né potente né
insignificante. E’ il resto del mondo a essere piccolo
e grande, potente e insignificante. Quel resto del mondo che
altro non è che l’insieme di tutte quelle persone strette sugli spalti e
davanti al palco. Loro sono piccoli se li guardi da lontano, sono grandi
se chiudi gli occhi e li senti chiamare il tuo nome. E ciò che è fuori dallo stadio non conta più. Può anche scoppiare una
guerra, per quel che ti riguarda.
Ma tanto, cosa importa? Sei
certo che, guerra o no, a quelle persone sarà rimasto un sorriso nel cuore.
E magari anche qualche timida, piccola nota.
Una guerra giusta o no
E comunque che ne so
Quando questa finirà
Sempre un’altra ci sarà
A volte ti vien voglia di alzare le braccia e
incitarli a gridare più forte.
Io lo faccio. E loro gridano.
Ed è un altro salto all’indietro per il tuo cuore, perché ti accorgi che
tutte quelle persone stanno aspettando solo un tuo gesto, il minimo segnale.
Pronti a coglierlo, felici di risponderti.
Altre volte ti viene da pensare che è una pazzia, perché tutte quelle
persone non dipendono da te.
Io mi do una botta sulla fronte e mi convinco che non sia del tutto
vero.
Non dipenderanno da me quando andranno a
dormire e si sveglieranno la mattina, quando mangeranno o faranno una
passeggiata in riva al mare. Ma non stiamo parlando di
quei momenti lì.
E’ adesso.
Adesso sì. Adesso dipendono da me.
E allora te ne freghi dei vestiti troppo pesanti o del sudore che ti fa
colare il trucco. Non ci vuole niente, ti sfili in giubbotto e lo lascia cadere
sul palco, ti passi un asciugamano sulla fronte e lo getti in mezzo al
pubblico.
Se penso che nella mia testa c’è qualcosa che non va, spero di rimanere
pazzo a vita. Perché questo istante vale appena un po’
di più.
E’ ora
E’ il mio turno
Manca un minuto ormai
Tremate perché
In cielo c’è il re
Ma questa notte di fine agosto chissà
Dentro di me qualcosa non va
Ci sono anche i concerti all’aperto, e forse è anche meglio.
D’accordo, c’è meno gente e magari quella maglietta a maniche corte non
è poi così calda. Però loro sono sempre lì, non
saranno cinquemila, ma ci sono. E si stringono, e
spingono, e agitano foulard, e urlano il tuo nome e sperano che quella canzone
sia proprio per loro.
Forse non sapranno mai che quel desiderio si è già avverato.
Vorresti dire grazie, ma non ce la fai. Ti giustifichi, dici
che con il gruppo hai provato un nuovo arrangiamento, ma a loro non importa: tu
sei tu. Sei fantastico, sei un idolo, sei perfetto.
Sei il re.
A volte il mio sguardo vola inconsapevolmente verso il cielo e io mi
ritrovo a contare le stelle mentre cerco di ricordarmi
la strofa successiva. Ho paura, penso che mi distrarrò, che verrò
rimbrottato, ma poi mi rendo conto che è impossibile. Perché
il mondo è tutto lì, in quella stella che cade, in quelle casse che suonano, in
quel microfono che diffonde la mia stessa voce.
Una stella cade giù
Come fosse colpita da una contraerei
Qui dall’alto la città
Sembra un grande luna park
Obiettivo in vista a ore sei
Sono pronto dai l’OK?
Poi si ha paura che, nel momento in cui tutto finisce, ci si possa sentire come se il cuore si fosse spezzato nel petto. Ma è come togliersi un dente o sostenere un esame: finché
non lo provi, non sai cosa significhi.
A un certo punto le luci si riaccendono e tu senti tutto quel calore che
pizzica e ti dà fastidio, la musica si affievolisce e per un attimo pensi che è
proprio così, è doloroso come dirsi addio.
Ma poi alzi lo sguardo e vedi cinquemila sorrisi tutti rivolti a te, sai
che loro non ti abbandoneranno, che torneranno da te appena possibile. Dipende
tutto da te, in fondo.
E allora vuoi dar loro il saluto che meritano.
Solo che ti sembra sempre inadeguato.
Quando porto le mani al microfono per l’ultima canzone, sento il cuore che
rallenta fin quasi ad ammutolire. Forse è vero, in quel momento cesso di vivere
per poi riprendere subito dopo. Ma è necessario, devo
carburare, devo raccogliere le energie per restituire il favore al mio
pubblico.
Ed è un grosso favore.
Ma poi virando vado via
Una guerra è una follia
Spengo il motore in silenzio così
Sento il mio cuore e i suoi battiti
Poi ci si sente proprio come all’inizio, come quando corri fino al
ciglio del palco e per un attimo ti sembra di essere sul punto di cadere giù. Anzi no, non ti sembra, lo speri.
L’ultima canzone ti dà la stessa identica sensazione, solo che non c’è
più l’adrenalina. Puoi cantare sulle note più graffianti,
le casse possono suonare fino ad esplodere, ma per te sarà sempre come una
ninna nanna.
Canti e canti e canti e il tempo si ferma.
Non li senti quasi più, ma loro sono sempre lì per te, urlano e ti
chiamano e cantano insieme a te. Chiudi gli occhi e il
mondo scompare. Per un brevissimo istante c’è solo il microfono in attesa di diffondere la tua voce.
Poi suona l’ultima nota.
Ed è di nuovo un boato.
Allarghi le braccia, ti inchini, saluti con la
mano, gridi un grazie anche se non sai se arriverà ad ogni angolo dello stadio.
Però ci speri, perché loro se lo sono meritato.
Ti sembra quasi di volare: non senti più il pavimento sotto i piedi,
non senti più il caldo, non ti danno noia le goccioline di sudore che solcano
il collo e la fronte. E’ solo un’altra caduta, un altro
giro di surf, un’altra onda, un’altra cavalcata.
Gira il mondo intorno a me
In un grande vortice
In caduta libera
Liberando l’anima
Alla fine le luci di spengono e tu ti ritrovi a chiederti cosa stai
lasciando.
Stai lasciando il palco, lo stadio, il microfono, gli amplificatori.
Stai lasciando anche il pubblico, in fondo, anche se non lo vuoi ammettere,
anche se non lo vorresti. Però
sai che il pubblico non lascerà te.
Gli volti le spalle solo quando il sipario si
è chiuso, perché ti sembrerebbe terribilmente ingiusto farlo quando hai ancora
tutti quegli occhi puntati addosso, quando ti sembra ancora di poter sentire
cinquemila cuori battere all’unisono. Sono proprio lì, ti
palpitano nelle orecchie.
Ma a un certo punto devi voltarti. E’
inevitabile.
Quando lascio il palcoscenico, sento qualcosa di strano. Come
se non potessi desiderare di meglio. Subito dopo mi dico
che ho torto, perché si può sempre desiderare di meglio.
Ma c’è quella figura alle tue spalle, quel fantasma che non ti
accompagnerà fino all’hotel a cinque stelle, ma che rimarrà lì, sospeso
nell’aria fino a quando non giungerà il momento di
tornare sul palco.
E allora ti senti infinitamente piccolo. Pensi che forse non sei mai stato veramente un re, che è stata solo un’illusione
momentanea.
Poi ti passi una mano sulla fronte e la senti bagnarsi del tuo stesso
sudore. Vedi i tuoi compagni stanchi quanto te, ma sorridenti ed entusiasti. Senti
le dita ancora calde e la voce leggermente roca, sai già che dovrai stare a riposo per almeno ventiquattro ore.
Solo così te ne rendi conto: quel re ti sta ancora aspettando.
E sapere che anche domani sera sarà lì, proprio in fondo al cuore… è la
certezza più bella del mondo.
Volo di notte
Lasciando dietro di me
Qualcuno che
Chiamavano il re.
(Raf, “Il re”)
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Salve.
Strano ma vero, non ho introduzioni
né premesse per questa one shot.
Avevo semplicemente voglia di scriverla.
Riemergo solo per puntualizzare
che, come ormai succede da mesi, nonostante i tentativi i
Tokio Hotel, anzi, nella fattispecie, Bill Kaulitz non mi appartiene ancora,
con questa storia non guadagno neanche una moneta bucata né intendo dare
rappresentazione veritiera del suo carattere.
Commenti bene accetti.