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Autore: Krixi19    14/09/2014    3 recensioni
C’era un istante, al mattino. [...] In quell’istante non c’era dolore, non c’era sofferenza, non c’era agonia, non c’era Fred. Ma quel momento tutte le volte passava, e tutto le precipitava addosso, di nuovo, sempre uguale, sempre più pesante. Dolore, sofferenza, agonia, Fred.
[...] È questo il punto cruciale del dolore: chiede di essere sentito.

Credo ci siano diverse reazioni che una persona possa avere in seguito ad un lutto e diverse fasi di tale reazione; in questa oneshot ho tentato di raccontare la reazione di Angelina, e in parte anche di George, e alcune della fasi che (forse) i personaggi hanno attraversato. Con una visione forse piuttosto pessimista.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Angelina, Johnson, Fred, Weasley, George, e, Fred, Weasley, George, Weasley | Coppie: Angelina/George
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Playlist: Daughter – Youth (https://www.youtube.com/watch?v=VEpMj-tqixs).
All Thieves – Turn and turn again (https://www.youtube.com/watch?v=3M_vCxOiOeU).
The National – About Today (https://www.youtube.com/watch?v=Ef1nJWtkprU).





We used to be birds, but now we're monsters



Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l'oceano e sradicate il bosco;
perché ormai nulla può giovare.1




1. Fear                                                     


C’era un istante, al mattino. C’era un istante, in cui tutto era fermo, immobile, congelato. Non c’era niente, in quell’istante, solo il passaggio dal buio interno delle palpebre alla luce proiettata sul soffitto ingiallito. Era un misero attimo, e tutte le volte Angelina faceva in tempo a sperare che durasse in eterno. Perché in quell’istante non c’era dolore, non c’era sofferenza, non c’era agonia, non c’era Fred. Ma quel momento tutte le volte passava, e tutto le precipitava addosso, di nuovo, sempre uguale, sempre più pesante. Dolore, sofferenza, agonia, Fred.
Era così tutti i giorni, ma ciò nonostante era impossibile per lei farci l’abitudine. Avveniva tutto in fretta, prima che la parte consapevole del suo cervello potesse intervenire e salvarla dall’illusione di un torpore duraturo. Così, tutte le mattine si ritrovava smarrita, schiacciata da un dolore troppo grande.
Questa era la parte che tutti capivano, la parte che, nelle giornate buone, poteva anche riuscire a raccontare ad una di quelle persone che una volta erano sue amiche e che ora apparivano solo volti sbiaditi dal tempo. Ma c’era un’altra parte, un’altra verità. Quel piccolo istante la mattina la spaventava. Ogni volta che ricompariva il dolore, c’era una parte di lei, sotto la patina di apatia che la circondava, che provava sollievo. La verità era che la sofferenza era l’unica cosa che la teneva ancorata a lui, era l’unica cosa che le ricordava che era esistito davvero un tempo in cui si svegliava tra le sue braccia. La verità era che viveva nel terrore di svegliarsi un giorno e accorgersi che quell’istante di immobilità non finiva, per poi rendersi conto di non ricordare più il suo volto.

C’era stato un periodo in cui Angelina rifuggiva tutto ciò che le ricordava Fred. I ricordi erano talmente vividi, vivi, in lei che non poteva sopportare nient’altro. Così, finito il funerale, aveva apparentemente tirato una riga sulla sua vecchia vita: aveva smesso di frequentare i luoghi dove era stata con lui, aveva smesso di fare le cose che faceva con lui, aveva smesso di frequentare, beh, praticamente chiunque; la verità era che si era rintanata nel suo letto, a vivere nei ricordi.
Ma questi avevano poi cominciato a sbiadire, gettandola nel panico. Un giorno, per esempio, si era accorta per caso che non ricordava più che cosa le avesse detto Fred prima del loro terzo bacio. Il ricordo era vago, appena accennato; non solo, erano anche passati giorni dall’ultima volta in cui ci aveva pensato. Quella era stata una delle isterie peggiori che l’avessero mai colta fino a quel momento. Non poteva permettere che dimenticasse, non poteva permettere che lui scivolasse via da lei.
I ricordi erano tutto ciò che gli rimaneva di lui e lei viveva nel terrore di perdere anche quelli.




2. Pain                                                     


Si svegliò di soprassalto, le sue stesse urla che ancora le rimbombavano nelle orecchie, le lacrime che le rigavano il viso. Scalciò il lenzuolo, agitando le gambe: non poteva sopportare di essere abbracciata, nemmeno da un lenzuolo reso caldo dal sudore che lo impregnava. Si rannicchiò su sé stessa, come a voler occupare il minor posto possibile, i singhiozzi che la scuotevano.
Non ricordava più il suo viso.
Una volta era in grado di vederlo, visualizzarlo, come se fosse lì, a galleggiare di fronte a lei; ora era come sbiadito, e più cercava di metterlo a fuoco, più esso pareva dissolversi e scivolare via. Il problema era che non era stato nemmeno doloroso, non in sé e per sé: il dolore non era provocato dall’assenza dell’immagine, il dolore, di un tipo diverso, era provocato dal fatto che, evidentemente, volente o nolente, il tempo stava lentamente e lievemente lenendo le sue ferite e lei se n’era resa conto.
Era per questo che aveva ripreso a guardare le fotografie, aveva ripreso a frequentare i posti che frequentava con lui, aveva ripreso a fare, in solitudine però, le cose che faceva con lui, ricercando Fred e la consapevolezza della sua scomparsa in ogni dove, in ogni momento, in ogni passo, in ogni respiro; e soffrendo, soffrendo immensamente in questo vortice autodistruttivo dal quale non voleva uscire.
È questo quello che accade in certi casi: non vuoi che il dolore sparisca, perché il dolore è l’unica cosa che ti rimane di lui. E così ti fai male, sempre più a fondo, e non importa che tu stia trascinando nel baratro anche coloro che sono intorno a te. Anzi, importa, ma ciò non fa che acuire la sofferenza stessa, il che è necessario. È questo il punto cruciale del dolore: chiede di essere sentito.2

Perciò, quel giorno, decise di rientrare nel luogo in cui aveva giurato di non entrare più e nella vita della persona che aveva giurato non avrebbe più neanche guardato.




3. Collision                                               


La porta era aperta, nonostante fosse orario di chiusura. Il campanello che avvisava quando un cliente entrava nel negozio suonò quasi impercettibilmente, ma nelle orecchie di Angelina rimbombò come se fosse stato un tuono. Poteva già sentire un groppo salire in gola, l’eco di ricordi assopiti che si faceva strada in lei. Chiuse gli occhi un istante, quasi assaporandoli.
«Che cosa ci fai qui?» chiese lui con un tono stupito che mal celava una punta di aggressività.
Angelina guardò George qualche istante prima di rispondere, e le bastò quello. Le bastò uno sguardo per capire: c’era ancora in mezzo anche lui. Non le fece piacere, ma non riuscì a non pensare che fosse giusto. Era giusto che ci fossero ancora persone che soffrissero per Fred così come stavano facendo loro, non era giusto invece che il mondo proseguisse come se nulla fosse.
«Sono venuta per vedere te».
George sollevò un sopracciglio, in attesa, ma Angelina non proseguì.
«Mi era parso di capire» proseguì allora lui «che non avessi intenzione di avere più a che fare con me. L’hai reso piuttosto chiaro».
«Sì» ammise lei. «Ma questo era… prima».
George sbuffò. «Se hai intenzione di farmi un discorso sul fatto che la vita va avanti e che dovrei farlo anche io, e che…»
«No» lo interruppe lei. «Non penso nemmeno sia vero. Non sono venuta qui per te» aggiunse dopo qualche istante. «Sono venuta qui per me».
George non rispose. Era una conversazione densa, fatta di pause e di sguardi, ma nessuno dei due aveva fretta. Era come se vivessero ad un’altra velocità rispetto alle altre persone.
«Avevo bisogno di vederti» proseguì lei. «Cioè. Avevo bisogno di vedere lui».
George capì all’istante, Angelina poté percepirlo chiaramente; ma non la cacciò via, come si era un po’ aspettata: dopotutto lei si stava approfittando di lui. Ma forse anche lui aveva bisogno di approfittarsi di lei. O forse no, a lei non importava, non in quel momento in cui le sembrava di avere di fronte Fred. Un Fred diverso, non il suo Fred, il che non faceva però che sottolineare la sua assenza e renderla più amara, proprio ciò che lei aveva ricercato.
Lui puntò la bacchetta contro la porta e Angelina poté sentire il rumore del meccanismo che entrava in azione, chiudendola.
«Andiamo» disse George, accennando con la testa all’appartamento ai piani superiori.
«Perché lo fai?» chiese lei, aspettando un secondo prima di avviarsi.
George scosse le spalle mentre lei gli passava accanto superandolo, poi la seguì. «A volte mi fermo nel bel mezzo di una frase, aspettando che lui la completi» disse, atono, mentre salivano le scale. «Ogni volta che qualcosa che una volta avrei trovato divertente accade, il mio sguardo lo cerca».
Angelina non rispose, e cedette il passo per farlo passare avanti e permettergli di aprire la porta.
«Sai» proseguì lui, mentre maneggiava con il chiavistello. «Sono contento sia capitato a lui». Lei si sentì raggelare. «Non avrei mai voluto che lui andasse incontro a tutto questo» concluse George, entrando finalmente nell’appartamento.
Mentre gli odori che un tempo erano familiari la raggiunsero, Angelina sentì gli occhi inumidirsi. Era tanto che non piangeva.
Poi varcò l’ingresso e si chiuse la porta alle spalle.




4. Destruction                                              


Due persone che vivono un dolore simile, possono farsi forza a vicenda e riuscire finalmente ad andare avanti; trovano sollievo nel vedere una sofferenza condivisa. Ma ciò non accade se nessuna delle due ha intenzione di superare ciò che affligge loro. Si innesca un meccanismo quasi irreversibile, in cui l’uno trova sollievo nel dolore dell’altro e acuendo il proprio. Ci si chiede ‘come stai?’ solo per sentirsi rispondere male, perché una risposta diversa non sarebbe accettabile.
Era in questo che erano finiti George e Angelina, tentavano di distruggere loro stessi e l’uno con l’altro, incapaci di affrontare un dolore troppo grande in maniera sana. Così stavano assieme, raccontandosi ricordi in modo doloroso, vivendo nel passato e nel presente allo stesso tempo, senza volgere alcuno sguardo al futuro, rimproverandosi ogni qual volta nasceva un istante privo di tutte queste sensazioni.
Ogni tanto vi era qualche momento di chiarezza, qualche momento in cui entrambi capivano che tutto questo era insano, ma non sapevano come uscirne, né volevano farlo sebbene avessero quasi dimenticato i meccanismi inconsci che li avevano portati lì. Così, quando il momento passava, ricominciavano le litigate, i rimproveri, le accuse, solo per aumentare il dolore, l’unica cosa che ormai sentivano.

«Quand’è che è cominciato tutto questo?»
«Quando ‘noi’ è diventato ‘io’».




We used to be birds, but now we’re monsters3







1: Ultima strofa di “Blues in Memoria” di Wystan Hugh Auden
2: “That’s the thing about pain: it demands to be felt.” – Citazione da “The Fault in Our Stars” di John Green
3: Frase dal twitter ufficiale della band Of Monsters and Men – prima di chiamarsi così e prima di entrare nella band, la cantante, Nanna, aveva un progetto solista chiamato “Songbird”.



NdA:

La storia era stata concepita in maniera totalmente diversa e la prima parte è stata scritta mille anni or sono, poi è arrivato il blocco dello scrittore, dal quale sono uscita (forse) oggi, nel momento in cui sto scrivendo queste righe e ho concluso questa storia. Mi premeva dirlo.
Sinceramente non ne sono soddisfattissima in sé e per sé, ma almeno sono soddisfatta per essere riuscita finalmente a scrivere qualche cosa, anche se mi pare palese che io mi sia arrugginita.

Spero vi abbia lasciato qualcosa.

   
 
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