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Autore: Kingofpain    15/09/2014    0 recensioni
« Becky non è la solita ragazza che tutto già sanno cosa farà o cosa penserà. Becky farà cambiare totalmente la vita di Calum Hood, componente dei 5 Second of Summer. E lui cambierà lei. Ma molti sono gli ostacoli. Come i caratteri opposti, gente che li odia. Sarà difficile conviverci, ma loro possono farcela? Sono abbastanza forti? Poi c'è Alex, la sua migliore amica. Innamorata di un ragazzo, Luke Hemmings, diviso tra l'amore per lei e per il suo amico, Michael Clifford. Insomma. Una FF come le altre, ma con novità. Vi basta leggerla, seguirla, nient'altro. « Perché 29 giugno? » – Semplicemente perché da lì tutto cambiò. La vita di sei ragazzi, cambiò sponda, completamente.
Genere: Azione, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Calum Hood, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti
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2.


Alex mi aveva precisato che saremo andate il ventinove giugno, al San Siro. Saremo partire verso le dieci e lì eravamo per le due. I cancelli avrebbero aperto per le quattro, ma il concerto iniziava alle nove, quindi i 5Sos avrebbero aperto il concerto verso le otto, otto e mezza. Ero così elettrizzata all’idea di dover incontrarli, soprattutto perché finalmente avrei potuto vederli da vicino. Se erano belli tramite foto, figuriamoci dal vivo. Avevo pianto tante volte, con la speranza di vederli, anche se era la prima volta che facevano tappa in Italia. Avevano anche un loro tour, da come avevo letto, ma non ero convinta che mia madre mi ci avrebbe mandato, così non mi ero interessata più di tanto. Ora che avevo la possibilità, anche da fuori lo stadio ed anche solo poche canzoni, mi bastava quello. Da quando avevo degli idoli, la mia vita era solo migliorata. Io credevo che avere un idolo fosse un qualcosa di unica ed inspiegabile. Ti regalava emozioni che neanche tu credevi esistessero e a volte ti faceva stare bene con solo delle parole. Che solo dicendo un ehi poteva farti piangere. Che avresti pagato oro, pur di abbracciarli. Un idolo era dove un ragazzo, adulto, bambino, chiunque; prendeva esempio, o semplicemente lo seguiva perché sa farlo stare bene con delle voci. C’era chi si fingeva fans, solo per attirare l’attenzione, e ci riuscivano anche, ma poco interessa. L’importante era fregartene e amarlo a modo tuo, come mai nessuno aveva fatto. Grazie a loro avevo imparato ad amare, e mai me ne pentirò.

Era passata più o meno una settimana da quando Alex mi aveva dato la notizia e mia madre non mi parlava. Eh già, neanche un buongiorno. Era ancora offesa per non aver chiarito per bene la storia del concerto. Ma del resto, meglio così. Avevo sempre odiato parlare con lei, ora avevo un motivo per non farlo sul serio. George mi aveva assicurato che le sarebbe passata, doveva solo smaltire la notizia. A me poco interessava sia di lui che di lei. Voi vi starete chiedendo: ma lui ti farà andare al concerto! Okay, sì, ha un po’ di merito. Ma non molto. Non mi aveva mai sopportata. Lo avrà fatto per non avermi tra i piedi. Nel pomeriggio sarei dovuta andare a casa di A per parlare degli orari, e di tutto. George non c’era e nemmeno mia mamma, erano entrambi andati ad una fiera. Io non ne avevo voglia, non ci tenevo a vedere gente che non conoscevo ma che loro ti si buttava addosso dicendo: ma come è cresciuta! Sei proprio una signorina ora. Ma chi ti conosce, non sapevo nemmeno come si chiamassero. Appena erano andati via, io mi ero messa in salotto a guardare MTV music. Appena partì Don’t stop – 5 Secon of summer iniziai a saltare e ballare per tutto il salone con il volume alto. Era una fortuna vivere in una villa isolata. Così nessuno poteva lamentarsi del volume alto o altro. Però sentii il telefono squillare dopo tre squilli così corsi a prendere il telefono di casa e con l’altra mano abbassavo il volume.
«Pronto?» chiesi cortesemente. Era vero che ero una ribelle, stronza diciassettenne. Ma l’educazione al primo posto c’era sempre.
«Che brava ragazza, che rispondi così. B, a che ora passi?» la sua voce riconoscibile lontano mille chilometri, mi provocò una piccola risata mentre mi buttai sul divano a peso morto. In tv in quel momento iniziò una canzone di Lady Gaga, come ricordo vagamente.
«Visto? Mamma ha fatto un buon lavoro, con me, non con lei stessa» ridacchiai mentre spensi del tutto la televisione, e mi stesi lungo il divano bianco di pelle, poi mi ricordai che mia mamma aveva passato una notte con George lì, ed emisi un verso di disgusto, andando sulla poltrona singola.
«Divano macchiato?» mormorò divertita Alex, mentre io le feci il verso mettendo le gambe incrociate. Era la sorella maggiore che non avevo mai avuto, davvero. L’amavo di bene, era la mia fonte di divertimento, amore, ed altro. Con lei potevo essere me stessa senza paura che mi giudicasse, anche se a volte lo faceva, quando io sbagliavo. Me ne rendevo conto che mi voleva bene, che ci teneva. Era vera e sincera, e non potevo fare a meno di tenermela stretta.
«Cosa dovevi dirmi, A?» mormorai mentre presi una ciocca di capelli dalla coda, intrecciandola al dito e poi piegai la testa di lato guardando il vuoto. Lei fece una piccola risata e poi la sentii diventare seria, in un certo senso.
«Volevo sapere a che ora venivi, per regolarmi» disse ed ero sicura che aveva scrollato le spalle. Il mercoledì lei aveva il giorno libero, e così era rimasta a casa a dormire beata fino all’una del pomeriggio, come sempre. Viveva sola con il padre e lui non c’era mai, per via del lavoro. Sua madre era morta quando Alex aveva solo dieci anni, per un tumore. Non mi ricordavo dove. Ci pensai su alla sua domanda e guardai l’ora. Erano le tre e mezzo, e i due innamorati ancora non erano tornati. Avrei potuto lasciare un biglietto ed andare ora.
«Il tempo che mi lavo e mi vesto, sono lì da te» dissi frettolosa attaccandole il telefono in faccia. Era ormai normale tra di noi farlo. Prima di andare di sopra, corsi in cucina e presi un foglio di carta ed una penna scrivendo:

Piccioncini. Se tornate e non mi vedete, tranquilli, sono ancora viva. Sono da A, tornerò verso cena o dopo, non lo so. Manderò un messaggio a mamma, se mangio lì.   

Una volta scritto, lo attaccai sul tavolo e corsi di sopra.
Pioveva. Perfetto, direi. Mi ero messa dei pantaloncini, senza rendermi conto del tempo. Avevo tutte le gambe bagnate. Non so perché, però, avevo messo una maglia a maniche lunghe. Ero una tipa strana, lo so, ma in fondo a me piaceva e nessuno si lamentava, finché non esageravo; ma lì mi divertivo io. Arrivai in poco tempo da A, e bussai più volte per farmi aprire, dato il gelo. Stranamente di aprì David, il padre, crucciai la fronte sorridendogli poi gentilmente. Era un bravo padre, e io gli volevo molto bene. Io ed Alex ci conoscevamo da quando eravamo piccole, e così ero cresciuta con Dav.
«Ehi! Cosa ci fai qui? Non dovresti essere in Olanda, a fare il tuo lavoro» ridacchiai entrando mentre mi stiracchiavo e posavo l’ombrello nel suo apposito aggeggio. Lui annuì guardandomi mentre chiudeva la porta e si dirigeva verso la cucina, dove sentii la voce di Alex che gridava, chissà cosa.   

«Be’. In teoria sì, ma il mio capo è malato e non siamo potuti partire. Così ha rimandato a domani. Alex, non gridare e saluta Becky» la prima frase la disse gesticolando e guardandomi, la seconda spostò lo sguardo verso la mora che ridacchiò annuendo e corse verso di me abbracciandomi e sollevandomi quasi la pavimento.
«A, mi fai male!» dissi in uno strozzo. Mi stava stringendo troppo e sentii la testa scoppiarmi. Lei ridendo mi rimise a terra e mi guardò baciandomi la fronte, ed io la guancia. Dav prese la sua tazza di caffè e se ne andò in salotto, chiudendosi dentro. Era single, un buon lavoro, una figlia che lavorava. Cosa poteva avere di meglio? Forse una moglie che lo amava, o una compagna, ma forse stava meglio così. Indicai con il pollice il salotto, dando uno sguardo ad Alex, che subito capì e scrollo la testa. Entrambe salimmo in camera sua. Amavo la sua camera, era grandissima e bellissima. Bianca ed azzurra, simile alla mia, ma più ordinata. Il letto era posto al centro, con la spalliera contro il muro, ed aveva le lenzuola bianche. I muri erano quattro, due bianchi e due azzurri. Poi il resto erano tutti accessori. Una scrivania, libreria dove io le rubavo molti libri, un armadio ed altro. Si lanciò sul letto come se fosse un trampolino e si stiracchiò.
«Partiremo il vent’otto mattina, così ci esploreremo tutta Milano e la sera andremo in qualche pub. Chissà, forse li vedremo. Così il ventinove andremo intorno al San Siro, e alle quattro in punto saremo già lì, avanti a tutto. Poi chissà, forse ci regaleranno un biglietto o due. Mi raccomando.  So che soffri di claustrofobia, ma cerca di resistere» mi spiegò tutto per filo e per segno, come se fossi una bambina di cinque anni e la maestra spiegava quanto faceva due più due. All’ultima frase feci un lungo respiro, e annuii appena. Soffrivo di claustrofobia, di brutto, ma avrei potuto resistere.
«Prenderò le pillole, forse con quelle resisterò» mormorai un piccolo sorriso, finto. Lei lo capì, lo vidi dal suo sguardo, ma fece finta di nulla. L’amavo per questa. Comunque potevo resistere, se mi ci mettevo. Mancavano solo tre giorni, solo tre fottuti giorni e avrei potuto vedere i miei idoli.
«Il vent’otto vengo a prenderti per le dieci. Fatti trovare pronta, andremo in treno, per risparmiare. Arriveremo lì e dopo aver posato le valige nell’albergo, andremo in giro per Milano» continuò a spiegarmi sorridendo. Era così felice, forse più di me. Avrei dovuto farla andare da sola, con un biglietto. Forse ero egoista, così aprii la bocca per dire qualcosa, ma la sua mano si alzò bloccandomi in tempo.
«Non m’interessa. Voglio che tu sia con me. Anche se io avevo la possibilità di prendere un biglietto, voglio realizzare il mio sogno con te» mi precedette. Sì, la telepatia era un qualcosa che avevamo sempre avuto da quando eravamo piccole. Sospirai ed annuii. Se era quello che voleva non potevo che assecondarla.

Il resto del pomeriggio rimasi lì a fare varie cose. Prima ci mettemmo in contatto con alcune nostre amiche in lontananza, per vedere se andavano al concerto ed incontrarci. Poi iniziammo a ballare tutte le canzoni delle nostre playlist, gridando ed urlando come pazze; Dav dovette venire a richiamarci, per calmare le acque. Infine decisi di restare a cena da loro, dato che mi avevano invitato. Mentre mangiavo la squisita cotoletta che aveva preparato A, mia madre mi chiamò. Sbuffando presi il cellulare e feci gli occhi storti, provocando una risate ai due difronte a me.
«Mamma» dissi freddamente. Mi aspettavo una ramanzina, un urlata che non l’avevo avvisata per la cena. O altre sceneggiate del genere. Invece ciò che mi disse mi fece restare sbigottita.
«Ehi, Bec. Hai già cenato? Siamo tornati da poco ed ho visto ora il tuo bigliettino. Salutami Dav, Alex no» esclamò con calma. Le ultime due parole non mi sorpresero più di molto, ma le prime sì. Crucciai la fronte, rischiando quasi di strozzarmi con il boccone. A e Dav mi guardarono preoccupati ed io scossi la mano, per calmarli.
«Sto mangiando proprio ora. Non ti saluto né Dav né Alex, tranquilla. Appena finisco di cenare torno, mi accompagna Alex» dissi freddamente. Dav mi guardò con uno sguardo da rimprovero ed io scrollai le spalle. Era il tono che si meritava. Improvvisamente diventava dolce e s’interessava di me? La sentii sospirare, ed arricciai il naso stringendomi nelle spalle mentre i due di fronte a me mi guardavano, come se fossi un estraneo. Dopo aver parlato un altro poco con lei, avevo attaccato. A e Dav mi guardavano ancora sbigottiti, ma poi tornarono a cenare come se nulla fosse. Mi sentivo sempre al mio agio con loro, incredibile. Però l’ora di tornare a casa era arrivata ed Alex si era offerta di accompagnarmi fino sotto casa, ma rifiutai. Preferivo fare due passi a piedi, da sola. Così appena pronta salutai entrambi ed uscii per le strade di Venezia, buie. Era ormai sera ed io ero anche stanca, volevo solo dormire. Presi il mio cellulare e misi, dalla playlist, casuale. Avevo più di duecento canzoni sul cellulare, e non me ne pentivo per niente. Una volta messe le cuffiette, iniziai a camminare al ritmo di Summer – Calvin Harris. Non sapevo perché, ma amavo quella canzone. Mi dava una scarica di adrenalina che volevo avere ogni santo giorno, ma che avevo solo in quei tre minuti e quarantatré secondi, poi spariva tutto. Avanti mi si parò un muretto, il solito, e poggiai le mani su esso, slanciandomi con le gambe e lo passai con un saltello, sempre sotto il ritmo della musica. Pazzesco. Abbassai il viso verso il mio cellulare, dato che le canzoni a seguire non mi piacevano, e non mi resi conto che qualcuno mi era venuto letteralmente addosso.
«Ahia!» esclamai alzando lo sguardo. Non riuscii bene a vederlo in viso, ma qualcosa mi disse che lo conoscevo. Fuggì subito dal mio fianco, senza neanche chiedermi scusa.
«L’educazione!» gridai verso di lui, mentre scrollai la testa e sbuffai. Avevo già detto che questa città era odiosa? Sì, credo.
Devo esser arrivata a casa un po’ in ritardo, dato che tutto taceva. Appena entrata feci piano a non far sbattere la porta, e quando mi girai fui sorpresa di non vedere la borsa della palestra di George, dove di solito era sempre lì ed io ci inciampavo ogni volta. Scrollai le spalle ed andai nella mia stanza, stanca. Ero principalmente offesa da come quel ragazzo mi era venuto addosso, e da come i suoi occhi mi avevano creato un gelo dentro. Non lo avevo ancora riconosciuto, ma sapevo che lo avevo già visto. Occhi come quelli ti lasciano un’impronta bella grossa, perciò. Dimenticando poi quell’evento, mi misi a letto e mi addormentai profondamente.


* * *

Finalmente il giorno della partenza era arrivato, ed A si era fatta trovare alle nove in punto sotto casa mia, con un valigione enorme. Dovevamo stare lì solo tre giorni, cosa ci doveva fare con un valigione così grosso? Giusto! Tutti gli abiti da sera, nella discoteca dove solo lei sarebbe andata, io no. Mi ero preparata un semplice borsone con tre jeans, tre magliette e dell’intimo. Avevo scoperto che George e mia mamma avevano litigato di brutto, e così lui era andato dai suoi per una settimana. Un po’ mi dispiaceva lasciare mia mamma sola, ma volevo davvero vedere i miei idoli. Così, una volta che Alex aveva bussato, ero scesa e salutato mia mamma, che avevo notato piangeva. Feci finta di nulla ed uscii di casa andando ad abbracciare la mia migliore amica, che era elettrizzata al massimo. Ridacchiai accarezzandole la schiena e salutai Dav, che prese le nostre valige, mettendole in macchina. Alex si girò con un sorriso stampato in faccia, diverso dagli altri.
«Che succede?» mormorai, sorridendo anche io, ma con un sorriso di chi non sapeva che c’era una festa a sorpresa nel giorno del tuo non compleanno. Lei si dondolò sui piedi e poi mi prese la mano trascinandomi verso l’auto.
«Sai. Stamattina ho fatto un giro su Facebook, nelle page dei 5sos, e ho letto che i ragazzi erano un po’ in giro nel nord. Luke era a Torino, Mike ed Ash erano a Milano, ma nascosti. E Calum –si soffermò, per non gridare- era, non so se lo è ancora, qui a Venezia! Ti rendi conto? Ah, chissà se lo abbiamo visto!» mi spiegò per bene, mentre parlava come una ragazzina di tredici anni, in piena crisi ormonale. Sorrisi alle sue spiegazioni, mentre poi sbarrai gli occhi alla ultima. Calum era lì, cioè qui, a Venezia? Improvvisamente ebbi un flash di quegli occhi, e poi presi il cellulare, guardando una sua foto. Alex credette che io mi stessi per sentire male, dato che mi scosse appena. Io sorrisi, scrollando la testa.

«Tutto bene?»
«Meravigliosamente» la rincuorai annuendo, mentre le feci segno di entrare in auto. Ero davvero stata colpita da lui? Ma no, sicuramente no. Era qualcuno che gli somigliava.

‘’Non ti accorgerai mai di lui, perché non vuoi accorgertene. Ma quando realizzerai che è lui, allora sì che capirai che fortuna avevi’’
Avevo letto quella frase in un libro, e improvvisamente mi sentii travolta nella protagonista, ma basta. Che mi prendeva? Scossi la testa e feci un lungo respiro e gridai a pieni polmoni:
«MILANO! A E B STANNO ARRIVANDO, ASPETTACI!» 



SPAZIO AUTRICE.
Ehilà, eccomi con il secondo capitolo. Spero vi piaccia, un bacio.

  
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