Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer
Segui la storia  |       
Autore: cliffordsjuliet    20/09/2014    6 recensioni
Ci sono storie che iniziano lentamente e si evolvono man mano.
E poi ce ne sono altre che, invece, iniziano solo finendo.
***
“Non dirò addio a nessuno, prima di andare via. Non saluterò i miei genitori, e nemmeno Jamie, né tantomeno Rebecca, l’unica amica che abbia mai avuto. Dire addio a qualcosa è il primo passo per imprimertelo dentro, e questa è proprio la cosa che voglio evitare.
Dimenticherò tutto.
Dimenticherò tutti.
Dimenticherò questo posto, Lui, e pure me. Che se mi scordo lui inevitabilmente scordo anche me stessa, che tanto non c’è differenza.
Siamo uguali da far schifo, Ashton, ma qualcosa di diverso lo abbiamo: io ricomincerò.
Tu no.

***
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=B29uqGz-sL4&feature=youtu.be
Genere: Mistero, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Nuovo personaggio
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic



Ashton non capiva un cazzo.
Sembrava che tutto quello che succedeva attorno a lui non gli appartenesse, che lui fosse fuori dal mondo. Quando avevo dieci anni avevo preso l’abitudine di andare a scuola da sola anche se i miei non volevano, che il posto era brutto e non era sicuro per una bambina come me. Ma io non avevo paura, quel posto per me era casa, quel quartiere che puzzava costantemente di immondizia e polvere, con quei quattro palazzi scalcinati e traballanti. Non mi sarei mai sentita al sicuro come mi sentivo lì. Quando arrivavo a scuola stavo sempre in un angolino per i fatti miei, gli altri bambini non mi volevano. Io sapevo cosa vedevano in me: uno sgorbietto magrolino che cucito addosso si portava l’odore di quei palazzi, quel posto da evitare. Ero sempre stata da sola: quell’anno, però, no. Mia madre decise che Ashton non poteva assolutamente permettersi di lasciare la scuola, così lo iscrisse alla mia stessa classe, in una scuola pubblica dove persino degli sfrattati, dei poveracci come noi potevano andare.
“Sei contenta, Beth? Ash sarà in classe con te!” mi disse mio padre una sera, mentre eravamo seduti tutti intorno al tavolo. A quelle parole io gli lanciai un’occhiataccia e misi il broncio, e spinsi via il mio piatto, che non volevo più mangiare. Mi si era chiuso anche lo stomaco. I miei genitori non capivano perché lo odiassi, loro stravedevano per quel bambino dall’aria così persa che a stento spiccicava parola se non con Jamie. Perché Ashton anche il fratello mi stava portando via, ovviamente. Ricordo ancora quel giorno in cui me lo ritrovai seduto affianco in classe, come se qualcuno gli avesse dato il permesso di farlo. Io ero arrivata prima, che con lui e Jamie non ci volevo stare. Da quando era diventato il “migliore amico” di Ashton neanche con lui avevo più voluto avere a che fare. Che stesse pure con Ashton, io non avevo bisogno di lui. Non avevo bisogno di nessuno. Quella mattina lui arrivò dieci minuti dopo di me, si avvicinò, e si sedette nel posto affianco al mio.
“Che vuoi da me?” abbaiai rabbiosa.
Mi guardò stupito. “Allora parli!” esclamò, con la sua irritante vocetta infantile.
“Non con te” specificai piatta.
“Adesso lo stai facendo” mi fece notare. Emisi un grugnito infastidito che assomigliava tanto al verso di un animale ferito, e stetti in silenzio. Non guardavo neanche nella sua direzione, avevo paura. Di cosa poi, rimase un mistero. Di un bambino alto un metro e un tappo di bottiglia, tutto ossa e pelle?
“Perché mi odi?” Mi voltai di scatto verso di lui. I bambini intorno a noi ci squadravano curiosi e diffidenti, stavano alla larga, ma in quel momento l’unica cosa che notai furono i suoi occhi. Erano verdi. Fu la prima volta che lo notai. Ed erano spalancati, erano tristi. Vedevo nei suoi occhi di bambino la stessa tristezza che sapevo riflessa nei miei. Non era giusto, pensai. Eravamo solo bambini. Non avremmo dovuto sapere cosa fosse la tristezza. Ora ci ripenso e capisco che gli altri bimbi ci stavano alla larga non per la nostra provenienza, ma per quel dolore che portavamo addosso, compreso nel pacchetto. Il dolore allontana le persone.
“Io non ti odio” mormorai, sotterrando per un momento l’ascia di guerra. In quel momento non lo sapevo ancora, ma in cuor mio avevo già cominciato a volergli bene, a vedere del buono in quel bambino che mi stava, piano piano, portando via tutto.


***


Rebecca la conobbi nell’estate dei miei dodici anni.
Frequentavo le scuole medie, era il primo giorno del secondo anno. Tra i banchi, nell’aula, formicolava l’odore della novità: la classe contava una bambina in più. Fu presentata a noi alunni dalla professoressa, e poi fu spedita a sedere accanto a me. Era l’unico posto che negli anni era rimasto libero, da quando Ashton non era più in classe con me.
Era strana, Rebecca.
Per i suoi dodici anni era bella, ordinata, non come me che avevo l’aria sempre un po’ trasandata e caotica. A me, l’aspetto esteriore rispecchiava il caos interiore. Ma quello che più mi colpì di Rebecca furono i suoi occhi: due stralci color verde bosco totalmente privi di amarezza. Ero sempre stata brava a leggere le persone, lo avevo imparato da piccola con i miei genitori. Rebecca era una persona che non conosceva il lato oscuro della medaglia. Lei veniva da fuori e ai quattro palazzi non ci aveva mai messo piede, ma conosceva quel quartiere. Lì c’erano i suoi nonni, ci disse. I genitori ci erano cresciuti, come noi, e se ne erano andati, come probabilmente avremo cercato di fare noi. Non aveva mai conosciuto il resto della sua famiglia. I suoi non le avrebbero mai permesso di avvicinarsi a quel posto.
Eppure, quando quel giorno varcai la soglia di casa, lei era con me. Ai genitori aveva raccontato che sarebbe andata a fare un giro con una compagna, senza specificare troppo.
“Mamma?” chiamai entrando nell’atrio e sfilandomi le scarpe da ginnastica incrostate di fango. Rebecca mi chiese se dovesse sfilarsi anche le sue, ma non ci fu bisogno. Indossava un paio di ballerine così immacolate che al confronto il pavimento di casa mia sembrava sudicio, nonostante la mania di mia madre per l’igiene.
“Oh Beth, ce ne hai messo di tempo eh!” sbottò una voce infastidita, seguita subito dopo dalla figura di Ashton che compariva dalla cucina. Si bloccò non appena notò la mia amica, che gli sorrideva timidamente con aria di scuse.
“È colpa mia” sussurrò intimidita. Ash scosse la testa imbambolato, e non disse niente. Avrei voluto picchiarlo, in quel momento. Probabilmente più tardi l’avrei fatto. Non poteva guardare così la prima amica che avevo, la prima persona con cui potevo sentirmi normale e non un rifiuto della società. Per me aveva sempre frasi aspre, occhiate infastidite e sospiri irritati. Cosa avevo io che non andava? Ero la sua migliore amica, meglio dire che ero l’unica che avesse. Che lì al quartiere nessuno lo voleva, un bastardo senza nome come Ashton. Lui giurava che compiuti i diciotto anni avrebbe cambiato il proprio cognome, ma i soldi per la causa non si sapeva da dove li avrebbe presi. Sognava, Ashton, accumulava desideri e speranze che presto l’avrebbero deluso. Io no. Io mi facevo bastare la realtà, anche se era scomoda e mi stava stretta. Io non sapevo vivere di illusioni.
Fu per quel motivo che, senza una parola, presi per mano Rebecca e la guidai nella stanzetta che condividevo con Jamie, lasciando Ashton lì all’ingresso, con l’espressione confusa che avrebbe portato con sé crescendo.  



 
“Oh, Beth?”
Mi rigirai nel letto, sbuffando. Ashton era rimasto a dormire da me ed ero costretta a condividere con lui la brandina, perché Jamie quando dormiva era impossibile, scalciava come un matto e spesso qualche calcio lo tirava anche a me, che stavo al letto di sopra.
“Che vuoi, Ash?” chiesi scocciata, con la voce impastata dal sonno.
“Ma Rebecca da dove è uscita?”
“Dall’uovo di Pasqua. Da dove vuoi che sia uscita, si è aggiunta alla mia classe. Perché? Ti interessa?” lo punzecchiai, girandomi per trovarmi faccia a faccia con lui.
Ashton mi diede una spinta che non mi smosse nemmeno, che altrimenti sarei caduta, e “Mamma mia se sei impossibile Beth! Volevo solo chiedere” si difese.
“Sì, ti interessa, guarda come reagisci! Be’, fattela passare. Rebecca è una mia amica” specificai. Non mi piaceva che Ashton si interessasse alle cose mie, ero possessiva. Gli volevo bene, ormai avevo imparato a convivere con quello strano sentimento, ma non ero pronta a condividere con lui anche Rebecca. Lei era l’anello di congiunzione che avevo con il mondo di fuori, uno stralcio sulla vita che avrei potuto avere nascendo in un posto diverso. Una vita in cui non devi preoccuparti di farti accompagnare ogni volta che metti piedi fuori dalla porta di casa, in cui nessuno fa storie se chiedi due euro per prendere un gelato con gli amici, in cui non devi vivere nel terrore che il tetto di casa ti crolli addosso, pericolante com’è. Era la mia eccezione, il mondo che vedevo tramite gli occhi di Rebecca, l’unica illusione che mi ero concessa. Non volevo che Ashton si appropriasse anche di questo.
“Oh, ma la smetti? A me non interessa proprio nessuno Beth. Certo che sei una palla. E comunque Rebecca non è tua. Lei è una persona, non un oggetto, forse è meglio che tu te lo metta in testa”.
E con quelle parole Ashton chiuse il discorso, voltandosi per darmi la schiena. Lui si addormentò poco dopo, io no. Rimasi per ore a fissare le sue spalle che si alzavano e abbassavano ritmicamente, riflettendo sulle sue parole. Io ero possessiva tanto con le mie cose quanto con le persone e in quel momento, rannicchiata in quel letto, non vedevo la differenza. Con una sensazione di inadeguatezza allo stomaco mi avvicinai di più al riccio, stringendomi contro la sua schiena. Lui si girò di scatto, arrivando a circondarmi con le sue braccia, per stringermi a sé. Ci addormentammo di nuovo insieme, così, stretti in due in un letto che a stento poteva contenere una persona, con i nostri odori che si mischiavano e i nostri confini che si confondevano.
Sarebbe sempre stato così, anche se sul momento non avrei potuto saperlo.
Con il tempo non saremmo cambiati.
Nessuno avrebbe saputo dire dove finivo io ed iniziava lui.







#Chiara's corner
Buongiorno people! Sono tornata piuttosto in fretta, dai. La verità è che nella mia testa Beth e Ash come personaggi sono già bell'e sviluppati, e anche Rebs è a buon punto! Quindi non so, li sto facendo incastrare in mille vicende e non ce la facevo a postare più tardi, davvero non ci riuscivo. Ma credo che cercherò di andare in maniera più... come dire, soft. Non vorrei che questa fic finisse presto come "Hold My Hand", ed io mi ritrovassi ad essere dispiaciuta per ciò.
Detto questo, ringrazio chi ha recensito/seguito/preferito. Grazie mille davvero! Mi fa un piacere immenso(:
Vi lascio con una foto di Rebecca, un bacio!
Chiara.xx


Image and video hosting by TinyPic

Wattpad: clairewriter
  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer / Vai alla pagina dell'autore: cliffordsjuliet