Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: VeganWanderingWolf    26/09/2014    0 recensioni
questa è la seconda storia della serie '4 di picche' - Vero che Danny si aspettava di poter rivedere qualcuno dei “colleghi” dei 4 di picche, ma forse non così presto e in una situazione tanto potenzialmente grave. Non solo. Dal suo passato rispunta una vecchia conoscenza che sa essere tutt’altro che innocua. E per finire, sembra che la sua vecchia conoscenza abbia individuato con precisione uno dei suoi punti deboli per eccellenza… e che sia ad un passo dall’affondarci le zanne…
Genere: Comico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie '4 di picche'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 2

(NELLA TANA DELL’ORSO)

 

Il ‘Bone’s’ era uno dei più vecchi bar di Castle MacHearty. Non era un locale che si potesse notare o che, se capitava di fermarcisi, invitava a trattenersi o si imprimeva nella memoria. Una sola grande stanza arredata con svogliata ispirazione per assomigliare ad un pub occupava interamente il piano terra, assieme ad una stanza più piccola con un tavolo da biliardo e qualche slot-machines, ad un’altra abbastanza grande da fungere da sgabuzzino e magazzino e ad un piccolo bagno per clienti e gestore. Quest’ultimo era da più di trent’anni Gus, un uomo di grande corporatura e dal carattere da orso, di pochissime e rarissime parole, lo sguardo corrucciato come se fosse intento in chissà quali riflessioni cupe, un’espressione poco avvezza a cambiare rispetto a quella di una faccia burbera, cinica e distante, e gli occhi che, quando si concentravano su qualcuno e su ciò che gli aveva detto, potevano diventare molto più espliciti di mille parole.

Gus non sembrava mai di umore nemmeno passabilmente buono. Come se avesse perennemente scritto in fronte ‘se proprio mi devi rivolgere parola, spero ci sia almeno un valido motivo’, dominava sempre il locale affondato in una sempiterna penombra – indipendentemente dal tempo atmosferico e dall’ora del giorno o della notte che c’era fuori – come se sorvegliasse la scena; la sua sorveglianza muta poteva essere tranquillamente ignorata da chiunque fosse un frequentatore abituale, così come poteva risultare stranamente fastidiosa e pressante per chi metteva piede lì dentro per la prima volta e sembrasse intenzionato a non farsi fretta nel consumare la sua ordinazione. A quanto sembrava, quello era il modo in cui Gus faceva presente ai suoi avventori se potevano considerarsi più o meno tollerati.

Il ‘Bone’s’ si trovava sulla strada principale che attraversava da parte a parte Castle MacHearty, ed era uno dei primi edifici su quella strada. Poteva anche essere considerato uno degli edifici della cittadina più vicino, dunque, alla collina in cui sorgeva la malandata casa vecchia, in orribile stile kitsch goticheggiante, che per qualche insano motivo secondo Gus, era per di più abitata. Gus non aveva particolari problemi col fatto che il suo bar sorgesse così relativamente vicino a quella casa. La sua filosofia a riguardo di quell’edificio era pressappoco quella che era bendisposto a rivolgere a quasi qualsiasi cosa esistesse al di fuori del suo bar: non lo toccava minimamente, non lo riguardava affatto, ed era bene che le cose rimanessero in quel modo.

Quella mattina estiva, tuttavia, quando il bar era affondato nella sua solita penombra un po’ fumosa, quasi completamente deserto eccetto che per Gus stesso e Pete, uno degli avventori di più lunga affezione, come al solito seduto tranquillamente al bancone in silenzio a sorseggiare con lenta tranquillità la sua birra, quasi non volesse nemmeno disturbare con la sua presenza, la stanza affondata nel silenzio perché Gus trovava che accendere la musica prima del pomeriggio fosse solo un elemento causante fastidio e potenzialmente mal di testa, e il caldo afoso della stagione era tenuto rigorosamente fuori dal locale più grazie alle finestre e alla porta chiuse che ai vecchi ventilatori che giravano pigramente sul soffitto… orbene, in tutto questo, Gus si ritrovò a dover alzare un sopracciglio, in un segno espressivo più che esagerato per lui, e che sicuramente poteva essere interpretato in un solo, esplicito commento: disapprovazione totale.

A causarla erano stati una serie di eventi che si erano appena svolti nell’arco di pochi istanti. Prima di tutto, la porta si era spalancata così forte da quasi sbattere contro la parete; e nessuno aveva mai osato negli anni entrare in quel modo nel bar di Gus senza trovarsi poi a ritenere che il meglio che potesse fare prima di incorrere in seri guai fosse uscire altrettanto rapidamente e, stavolta, senza sbattere la porta. In secondo luogo, quello che era entrato era uno sbarbatello, cioè un ragazzetto un po’ basso e piuttosto magro, e che dava ad intuire - da come si muoveva - totalmente privo di calma e compostezza nel misurare i suoi movimenti. In terzo luogo, questo ragazzetto si era fiondato al bancone, ci si era appoggiato con entrambe le braccia come se si aggrappasse disperatamente al bordo di una zattera dopo un disastroso naufragio, e si era sporto più che precipitosamente oltre il suddetto bancone, invadendo pericolosamente il territorio esclusivo di Gus da più di trent’anni. Per finire, quello che esclamò non era affatto un’ordinazione.

«Gus! Hai visto Danny, stamattina??»

Il fatto che il ragazzino, poi, lo chiamasse per nome con tanta confidenza assolutamente fuori luogo, poiché Gus non dava confidenza nemmeno ai suoi clienti di antichissima data nonché in generale a niente e nessuno a parte il suo bar, risultò come una terribile aggravante.

Cadde un pesante silenzio, in cui Pete si voltò a guardare il ragazzetto con gli occhi spalancati di sorpresa, indignazione, e un vago timore di quello che avrebbe potuto scatenarsi di lì a poco. Poi, Pete osò spiare di sottecchi Gus, con anticipazione e reverenziale comprensione. Come tutti gli uomini che raramente mostrano qualche emozione o partecipazione verso qualsiasi cosa, e che ancora più raramente parlano più del dovuto, ma che sono generosi di sguardi pesantemente significativi, Gus godeva automaticamente della reputazione di essere temibile quanto e tanto più raramente lo dimostrava apertamente. E Pete gli dedicò uno sguardo di assoluta comprensione: se da quel momento in poi avesse dovuto assistere ad una scena moderatamente e ordinatamente violenta, in cui Gus, ad esempio, avesse aggirato lentamente il bancone, e, senza perdere tempo con inutili parole, avesse semplicemente afferrato il ragazzetto per la collottola della maglia e il bordo posteriore dei pantaloni, lo avesse sollevato di peso, trasportato fino alla porta, e lo avesse fatto volare fuori, per poi tornare con calma dietro il bancone e riprendere a spolverare con placida calma il boccale che stava pulendo, Pete ci teneva a fargli sapere che lui non avrebbe avuto nulla in contrario, nulla da eccepire, assolutamente nulla da commentare. Sarebbe rimasto semplicemente in silenzio e si sarebbe immediatamente accompagnato al modo in cui Gus avrebbe fatto come se niente di tutto quello fosse appena successo.

Gus, invece, continuò a strofinare il boccale e a considerare il ragazzetto con il suo sguardo imperturbabile, appena tradito dal sopracciglio sollevato. Forse le cose sarebbero andate come Pete si immaginava, se non fosse stato per un dettaglio importante. Gus aveva intravisto, attraverso la finestra, il modo in cui quel ragazzo era arrivato. Lo aveva visto correre a perdifiato giù per la stradina che scendeva dalla collina dove si trovava quella stramba casa, quella a riguardo della quale non si riusciva a capire se chi l’aveva costruita era veramente così privo  di gusto da ritenerla un risultato ottimale, oppure se era così generosamente dotato di un eccellente senso dell’umorismo da aver voluto realizzarla per coronare con un’opera tangibile quello che ne pensava dello stile gotico, che non era certo qualcosa di complimentoso. Gus dunque, a differenza di Pete, il cui mondo si riduceva per la maggior parte a ciò che aveva nel bicchiere davanti a sé sul bancone, in qualche modo stavolta era stato preso contropiede: aveva avuto uno scorcio sul mondo esterno, e non era più in grado di considerare il ragazzetto semplicemente come qualcuno che aveva appena infranto ogni regola di rispettoso contegno richiesta in quel bar, dalla prima all’ultima, andando a turbare Gus e il suo mondo con la stolta irruenza di chi oserebbe lanciare una lattina appena svuotata addosso ad un orso inferocito. Un puro suicidio, insomma, e inconsapevolmente idiota per giunta.

Gus appoggiò lentamente il boccale e lo strofinaccio sul bancone, quindi, dopo un breve momento in cui sembrò aver maturato tra sé e sé una decisione a riguardo di come agire, alzò uno sguardo estremamente grave e significativo su Justin. Questi ne fu colpito in pieno, e di colpo sembrò realizzare cosa aveva fatto. Il che era notevole, considerando che si trattava di Justin. Ma lo sguardo di Gus nel pieno della sua potenza avrebbe potuto rendere consapevole persino un morto: dopotutto, era più che abituato ad avere a che fare con persone ubriache fradice, ovvero con una consapevolezza delle proprie azioni e parole ridotta ai minimi termini, praticamente all’osso.

Lentamente e attentamente, come se pensasse che ogni movimento troppo brusco avrebbe potuto risultargli fatale, e senza sottrarsi nemmeno per un momento al contatto visivo in cui lo teneva incatenato Gus, Justin si fece indietro, scendendo dalla sua posizione disperatamente aggrappata al bancone, riportando tutta la sua persona dalla parte giusta d’esso, ovvero dalla parte del cliente. Una volta uscito così, fortuitamente illeso, dalla sua pericolosa invasione delle spazio riservato a Gus, andò persino oltre, raddrizzando un po’ le spalle e lasciando le braccia penzolare lungo i fianchi un po’ meno disordinatamente del solito, quasi che, per la prima volta nella sua vita, si sentisse convinto dalla certezza che dare un’immagine di sé un po’ più dignitosa e composta potesse salvargli il collo.

A quel punto, Gus sembrò soddisfatto, perché finalmente smise di fissarlo con quello sguardo terribile, e, con tutta calma, abbassò di nuovo il suo viso, riprese in mano il boccale, e tornò a spolverarlo dedicando a questa banale azione tutta la sua attenzione. Pete comprese che la tempesta era passata, il ragazzetto era mezzo salvo; avrebbe potuto guadagnare facilmente l’altra metà della sua sopravvivenza se avesse preso la decisione che era logico acquisisse in quel momento: approfittare della benevolenza che Gus gli concedeva nell’ignorarlo completamente, come se niente fosse successo, e defilarsi dal bar il più silenziosamente possibile. Sparire insomma. Pete pensò che era meglio aiutarlo a modo suo, o forse semplicemente anche lui riteneva che l’atteggiamento di Gus fosse il migliore, perché anch’egli distolse ogni attenzione da Justin, e ricominciò a sorseggiare in silenzio la sua birra del mattino come se il ragazzo nemmeno esistesse.

Justin rimase perfettamente immobile e silenzioso per almeno cinque minuti, in cui non accadde nulla, a parte Pete che sorseggiava la birra al bancone e Gus che spolverava il boccale. Se avesse posseduto più fantasia, avrebbe potuto iniziare a dubitare del fatto che quella scena potesse essere reale: era troppo costruita, troppo un cliché, troppo ripetitiva e inutilmente banale. Ma dopotutto, quante volte la realtà è esattamente così? Tuttavia, Justin non possedeva le qualità prima di tutto intellettive necessarie per lasciarsi prendere da queste digressioni riflessive; in altre parole, meglio detto, era troppo mentalmente pigro per poter essere distratto da un eccesso di pensiero.

«Hem… Gus…?» tentò, con voce incerta, il tono leggermente troppo acuto rispetto al suo solito timbro di voce, e un che di tremante che lo rendeva quasi balbettante. Si sarebbe detto lo squittio di un topolino, quasi. Ma era incredibile cosa poteva fare in quel frangente. Pete iniziò a tossire rumorosamente, perché la birra gli era andata di traverso per la sorpresa di sentire che quel ragazzino osava ritentare rivolgersi a Gus dopo quello che aveva appena fatto. Gus in persona, invece, sbatté rumorosamente e pesantemente il boccale sul bancone, si sistemò con più violenza del necessario lo straccio con cui lo stava spolverando sulla spalla, incrociò saldamente le braccia contro il petto, e trapassò Justin da parte a parte con uno sguardo solo appena meno terribile del precedente.

Justin impallidì e sembrò che la sua persona si stesse ritirando, cercando di rimpicciolire come se desiderasse più di ogni altra cosa scomparire immediatamente alla vista, e il suo corpo cercasse di accontentarlo entro i suoi limiti. Gus lo notò, e di colpo sembrò che un lieve sentore di qualcosa di simile alla pietà gli solleticasse appena quella parte di lui appena soggetta alle emozioni.

«Cosa posso darti da bere?» disse allora Gus. Pete trasecolò e, appena calmatosi dall’attacco di tosse, riprese a tossire violentemente. Quello era il colmo, un evento incredibile. Nel criptico codice di condotta di Gus, offrire a qualcuno da bere significava mostrare il massimo di empatia – ed era veramente poca e rara, ovvero preziosa – che Gus poteva tirare fuori per qualsiasi essere umano.

Justin non sembrava meno stupito, perché lo stava fissando come se lo avesse appena sentito parlare in ostrogoto, e il suo viso mostrava altrettanta totale incomprensione e confusione.

Pete decise di venire in aiuto a Justin: iniziava a temere che le emozioni lì dentro raggiungessero un livello eccessivo, davvero innaturale e improbabile. Magari il bar sarebbe esploso da un momento all’altro, se già non si trovavano in un’altra dimensione. Oppure in realtà aveva bevuto troppo e aveva le traveggole, sospettò per un momento in cui lanciò una breve occhiata dubbiosa alla birra che stava bevendo. No, decise tra sé e sé, sicuramente quello che stava accadendo era anche troppo per una sbronza, nemmeno lui poteva bere così tanto da vedere scene talmente inaudite in quel bar. In ogni caso, pensò che se non avesse fatto qualcosa per rompere quella situazione di empasse, quel ragazzo avrebbe potuto non uscire vivo da lì.

Pete si schiarì la gola, per attirare cortesemente l’attenzione, e quando Justin osò sviare appena lo sguardo da Gus per lanciargli una veloce occhiata di sbieco, vide l’uomo alzare con calma il boccale di birra, accennando verso di lui. «La birra è ottima, qui.» disse semplicemente.

Justin rimase in attesa che l’uomo proseguisse, poi, lentamente, si rese conto che era invece l’altro che ora si aspettava qualcosa da lui, e capì così che sarebbe stato tutto lì quello che gli avrebbe detto e che sembrava così importante, a giudicare dalla corposità dell’aspettativa tesa con cui lo fissava. Poi, di colpo e inaspettatamente, capì.

«Una… una birra…» disse a fatica Justin, tornando a guardare direttamente Gus. Poi si schiarì la voce, grattando la sua gola disperatamente secca per il nervosismo, e riprovò con un tono un po’ meno squittente. «Credo che… Vorrei una birra. Grazie.» aggiunse, col tono di chi invece vorrebbe esprimere una preghiera per essere risparmiato dalla tortura o peggio.

Per qualche lunghissimo secondo, non accadde nulla. Semplicemente, Gus continuò a tenere inchiodato lo sguardo su Justin, in silenzio. Poi si mosse, facendo sussultare violentemente il ragazzo, prima che si rendesse conto che l’uomo stava semplicemente prendendo un boccale vuoto da uno dei ripiani alle sue spalle. «Birra in arrivo.» grugnì semplicemente, mentre riempiva il boccale dalla spina.

Justin spiò di nuovo verso l’uomo seduto al bancone, e vide che gli stava dedicando un breve sorriso più che mai smagliante, come se avessero appena evitato entrambi una morte orribile e ci fossero tutti gli ottimi motivi per essere estremamente sollevati. Justin smise di trattenere il respiro, ma poi un sonoro colpo violento glielo fece mozzare di nuovo in gola per lo spavento, prima che realizzasse che era stato semplicemente Gus che aveva appoggiato il pesante boccale ricolmo sul bancone davanti a lui.

Il ragazzo fissò per qualche istante il boccale pieno, come chiedendosi quale fosse la corretta mossa successiva da mettere in atto per procedere verso una zona sicura. Gus, infatti, lo stava ancora guardando, come in attesa di qualcosa: e Gus non dedicava mai a nessuno tanta attenzione, a meno che non ci fosse qualcosa di veramente storto nell’aria. Justin deglutì un pesante grumo di saliva, poi, muovendosi lentamente e in maniera decisamente circospetta e timorosa, fece un tentativo di riconciliazione nello stringere il boccale pieno, sollevarlo, portarselo alla bocca, e iniziare a bere la birra a lunghe e generose sorsate.

Nonostante la sua esperienza delle casistiche umane gli suggerisse che tenersi il più possibile al di fuori della faccenda fosse quanto di meglio poteva fare per la propria auto-preservazione, Pete non poté fare a meno di tenere gli occhi incollati sul ragazzetto; e la sua espressione iniziò a diventare più animata di quanto lo fosse mai stata negli ultimi quindici anni circa della sua vita, allorché lo vide – incredulo – bere l’intero boccale tutto d’un fiato. Se non l’avesse visto coi suoi occhi e glielo avessero raccontato, non ci avrebbe mai creduto. Ma il fatto di esserne stato testimone gli dava ora l’impareggiabile occasione di essere colui che si sarebbe accaparrato l’attenzione di tutti quando avrebbe raccontato quella storia vera e autentica agli amici, o meglio agli altri avventori del bar. Avrebbe dovuto ricorrere a tutto il suo bagaglio di giuramenti su cose e persone care e sulla sua stessa persona nel tentativo di farsi credere, in quell’atteggiamento che tutti quelli che si mettevano a raccontare una storia garantita per essere ‘più vera del vero’ in quel bar tendevano ad assumere, piuttosto clownesco a dire la verità, perché di solito si scioglieva loro la lingua solo dopo qualche bicchiere, e per via del fatto che le loro guance a quel punto erano colorite quasi quanto le loro espressioni perlopiù gergali, e nondimeno per gli abiti e i capelli scarmigliati un po’ dall’alcool e un po’ dalle movenze più o meno inconsapevoli che molti di questi racconta-storie improvvisati iniziavano a mettere in scena nel mimare le loro presunte testimonianze, per renderle più credibili e per intrattenere meglio chiunque li stesse degnando di attenzione.

Sì, Pete non aveva dubbi. Quella scena era da raccontare. Più di una volta anche. E certamente avrebbe tenuto banco al bar per almeno un mese, salvo che qualcosa di ancora più eclatante e incredibile fosse giunto alle orecchie di qualcuno dei frequentatori del bar, cosa che dubitava. Naturalmente, avrebbe dovuto raccontarla però fuori dal bar, magari davanti alla porta all’esterno, dove di solito si radunavano i gruppi di fumatori quando Gus li cacciava lì fuori con osservazioni placidamente minacciose sul fatto che ormai dentro ci fosse tanta nebbia che non riusciva a distinguere le etichette sulle bottiglie. Naturalmente, nessuno aveva mai osato obbiettare che il 99,9% di quelli del bar bevevano praticamente solo birra alla spina (che non aveva bottiglie etichettate), né che tenere il locale in una perenne penombra non fosse in ogni caso d’aiuto per distinguere alcunché lì dentro.

Justin si pulì la bocca con il dorso del polso, più precisamente sulla manica del maglione sdrucito che indossava, mentre con l’altro braccio riallungava il boccale appena svuotato sul bancone, sul quale lo appoggiò diligentemente.

«Davvero… ottima…» mormorò. Ne pareva così convinto che nessuno avrebbe potuto capire se lo pensava davvero, o se ne avesse realmente sentito il sapore, ma certamente nessuno avrebbe potuto scambiare il suo atteggiamento tanto ossequioso e timoroso per una provocazione, né la sua espressione quasi paralizzata dalla paura come un gesto di sfida.

Gus grugnì neutro, poi afferrò il boccale vuoto con una delle sue enormi mani e lo posò dentro il lavandino, per poi iniziare a sciacquarlo sotto l’acqua. Justin rimase a guardarlo come se stesse iniziando a concepire che sarebbe sopravvissuto dopotutto, ma anche con lo scoraggiamento di chi, di fronte a tanta inaspettata fortuna, non sa bene che pesci pigliare a quel punto.

Poi, di colpo, Gus parlò di nuovo, sebbene senza alzare nemmeno per sbaglio la testa dalle sue occupazioni di barista. «A proposito di Danny. Non l’ho ancora visto oggi.»

Dopo qualche lungo istante, Justin realizzò che sarebbe stato perlomeno cortese da parte sua azzardare una risposta. «Oh. Oh! Grazie! Grazie davvero! Hem, beh, magari potrei cercarlo più giù in città… anche se non so bene dove ma… in ogni caso, è una cosa urgente e così… Molto urgente a dire la verità. Una vera e propria emergenza. Questione di vita o di morte, proprio così.» Justin annuì vigorosamente, come a ricalcare la veridicità e l’importanza delle sue parole, anche se sarebbe bastata l’espressione di attonito terrore che iniziava ad accendersi nel suo sguardo, simile ad un oscuro timore, o a un presagio di morte se non certa perlomeno fin troppo probabile.

Ed era così intento a parlare a vanvera e velocemente, che non si rese conto di Pete che lo guardava a bocca aperta, incredulo e seriamente allarmato, né del fatto che Gus dava l’impressione di non essere affatto interessato ad ascoltarlo, né in generale che la sua parlantina rischiava di irritare di nuovo il temibile barista.

«Perché, sai, è arrivata una telefonata. Certo, Danny non ha un cellulare, ma è sempre stato così. Cioè, almeno da che lo conosco, da che viviamo nella stessa casa cioè. A dire la verità prima che venissimo ad abitare col Conte non c’era proprio nessun apparecchio di comunicazione in casa, a parte un vecchio telegrafo polveroso, ma credo che non sia attaccato alla linea. Non credo in ogni caso che se anche fosse attaccato ci sarebbe qualcuno a ricevere dall’altra parte. E quindi è stato Danny a convincere il conte a far installare una linea telefonica ed un telefono fisso. Per ricevere le chiamate dai clienti, no? E di solito io ricevo le chiamate per lui, quando è fuori, e segno tutto. Ma stavolta… oh… » e Justin rabbrividì tutto da capo a piedi «Stavolta non è un cliente. E non oso immaginare che cosa mi farà se non trovo subito Danny e lo porto al telefono, perché sono dovuto correre fin quaggiù a cercarlo, così mi ha detto di fare, che dovevo trovarlo immediatamente, e lui rimaneva ad aspettare al telefono. Capisce? È terribile cosa potrebbe succedere se non…»

«Danny non l’ho visto qui dentro, oggi.» lo interruppe di colpo Gus, in tono pesante come un macigno, che fece sussultare Pete e chiudere immediatamente la bocca – in senso quanto mai letterale – a Justin. «Ma l’ho visto scendere dal sentiero di casa vostra, stamattina, prima dell’orario di apertura. Se non sbaglio, credo di averlo visto proseguire lungo la via principale. Probabilmente, potresti trovarlo da qualche parte in città.»

Se Pete avesse potuto spalancare ulteriormente gli occhi, probabilmente avrebbe rischiato che gli uscissero dalla testa. Sembrava che Gus, il temibile orso proprietario e unico gestore dalla memoria dei tempi del ‘Bone’s’ di Castle MacHearty, stesse cercando di sbattere qualcuno fuori dal bar assecondandolo piuttosto che minacciandolo. Non si era mai visto prima nulla del genere. E Pete poteva capire perché. Nessuno, lì al ‘Bone’s’, ma anche più in generale in tutto Castle MacHearty, ci teneva a sapere che cosa succedeva dentro le mura di quella casa abbarbicata sulla collina; e bene che se ne stesse lì, ben lontana dal resto del centro abitato, abbastanza da ignorarla il più possibile.

Ognuno aveva i suoi buoni motivi per cercare di ignorare la sua esistenza e per desiderare pienamente di conservare la propria benedetta ignoranza su quella casa, i suoi abitanti e ciò che vi succedeva all’interno. Si poteva giustamente dire che gli abitanti di Castle MacHearty erano già fin troppo spaventati dalle loro improbabili fantasticazioni su quali mostruosità fuori-natura accadessero là dentro per poter essere curiosi di sapere quale fosse l’effettiva realtà. Realtà che probabilmente in effetti li avrebbe terrorizzati sul serio. Qualcosa come vedere il Conte, sospettato vampiro o pazzo pericoloso o potenziale serial-killer dalle manie perverse e occultiste, stendere i calzini appena lavati sullo stendino; o Justin, sospettato schiavo sessuale del Conte, nonché drogato e forse privato della propria volontà mediante qualche oscura tecnica paranormale, che giocava alla play-station o leggeva fumetti spaparanzato sul divano mentre rosicchiava qualche schifezza confezionata come papatine o barrette di cioccolato aromatizzato e sorseggiava bibite gassate e zuccherate; o Danny, che già solo per il suo aspetto punk era in grado di suscitare diversi dei peggiori sospetti di quelli tipicamente rintracciabili in ogni bibbia mentale del benpensante, che estraeva teglie roventi piene di biscotti dal forno con addosso un grembiule e un paio di guanti da cucina. Sì, decisamente sarebbero scappati urlando se avessero visto questo tipo di scene.

Perché i mostri visti nel contesto di una banale quotidianità di quel tipo erano qualcosa di inconcepibile. Per rassicurare tutti delle loro peggiori paure e dei più innominabili sospetti, non c’è niente di meglio che un mostro che si comporti come tale per assecondare il suo ruolo. E’ davvero difficile essere un mostro a tempo pieno, stressante come uno di quei lavori da ufficio, e molto peggio malpagato.

Justin riuscì a ricomporsi in qualche maniera, abbastanza rapidamente, mentre realizzava che Gus stava, a quanto sembrava, effettivamente cercando di essergli d’aiuto. Certo, sospettò a lungo che si trattasse di qualche trappola, ma muovendosi molto circospettosamente, e avendo cura di ringraziare profusamente per l’informazione, iniziò ad avvicinarsi alla porta del bar procedendo a ritroso, non osando voltare le spalle al bancone e tantomeno a Gus. Questi però, così come Pete, si limitò a fissarlo finché non fu uscito, richiudendo gentilmente la porta dietro di sé.

Il bar tornò immediatamente nel suo solito clima sempiterno di silenzio e calma semi-oscurità. Gus riprese a spolverare i boccali. Pete fissò molto a lungo il boccale vuoto e già sciacquato rimasto ad asciugare nel lavandino, cercando di capacitarsi del fatto che non aveva avuto un’allucinazione molto elaborata. A fargli sospettare che non si fosse trattato di una specie di improbabile sogno ad occhi aperti, più che la tangibile prova di quel boccale usato da Justin, era la sua esperienza, che gli diceva che lui non possedeva una fantasia talmente complessa e vivace da potergli dettare una scena talmente surreale. Alla fine, si limitò a chiedere un’altra birra a Gus, sperando che lo avrebbe aiutato a riprendersi da tutte quelle emozioni concentrate che gli erano appena passate sopra come una macchina che lo avesse investito. E Gus gliela servì, perfettamente imperturbabile.

 

Al di fuori del ‘Bone’s’, Justin si bloccò sul posto, raggelato. Solo in quel momento realizzò di non aver pagato la birra. Lentamente, come se temesse che da un momento all’altro un Gus infuriato si sarebbe lanciato fuori dal locale per inseguirlo, afferrarlo e ridurlo ad una poltiglia irriconoscibile di carne e ossa, si girò a fissare la porta del locale chiusa. Restò lì immobile sul posto per diversi lunghi minuti, come un coniglio ipnotizzato dai fari di un’auto sulla strada, incapace di muoversi nonostante stia per essere investito. Tuttavia, nulla avvenne. La porta rimase chiusa, impassibile e immobile. Alla fine, Justin osò riprendere a respirare più liberamente. Certo, l’idea che Gus potesse rendersi conto di quell’affronto più avanti non lo rassicurava affatto; ma al momento considerare di dover rientrare lì dentro la tana dell’orso era qualcosa di decisamente al di sopra del suo coraggio.

E poi, c’era qualcosa che al momento era capace di fargli ancora più paura di Gus, per quanto suonasse incredibile persino a lui. E quel qualcosa era il qualcuno che lo aveva mandato a cercare Danny con urgenza, e che forse stava ancora aspettando all’altro capo del telefono. Justin non osava provare a immaginare quanto tempo doveva essere già passato da quando era schizzato correndo dal telefono fuori di casa e giù per il sentiero che scendeva dalla collina. Ma sicuramente era già abbastanza da fargli sentire che il filo che sosteneva una spada di Damocle sopra la sua testa era già visibilmente assottigliato, e più che abbastanza da fargli pesare addosso ogni ulteriore secondo che passava, come un conto alla rovescia.

Girando su se stesso rapidamente, Justin tornò a girare le spalle al ‘Bone’s’, e di lì a poco stava di nuovo correndo lungo la strada principale di Castle MacHearty come un indemoniato che fugga da un esercito di barbari pronti a mozzargli la testa. Incurante delle occhiate di allarmata disapprovazione che gli lanciavano le persone lungo la strada, non faceva che voltare la testa in tutte le direzioni mentre correva, cercando ansiosamente e disperatamente la figura di Danny, come se fosse la sua unica speranza di salvezza.

 

Note dello scribacchiatore: ci ri-“vediamo” al prossimo capitolo!

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: VeganWanderingWolf