Capitolo
2
(NELLA
TANA DELL’ORSO)
Il ‘Bone’s’ era uno dei più vecchi bar di Castle
Mac’Hearty. Non era un
locale che si potesse notare o che, se capitava di fermarcisi, invitava a
trattenersi o si imprimeva nella memoria. Una sola grande stanza arredata con
svogliata ispirazione per assomigliare ad un pub occupava interamente il piano
terra, assieme ad una stanza più piccola con un tavolo da biliardo e qualche slot-machines, ad un’altra abbastanza grande da fungere da
sgabuzzino e magazzino e ad un piccolo bagno per clienti e gestore.
Quest’ultimo era da più di trent’anni Gus, un uomo di grande corporatura e dal
carattere da orso, di pochissime e rarissime parole, lo sguardo corrucciato
come se fosse intento in chissà quali riflessioni cupe, un’espressione poco
avvezza a cambiare rispetto a quella di una faccia burbera, cinica e distante,
e gli occhi che, quando si concentravano su qualcuno e su ciò che gli aveva
detto, potevano diventare molto più espliciti di mille parole.
Gus non sembrava
mai di umore nemmeno passabilmente buono. Come se avesse perennemente scritto
in fronte ‘se proprio mi devi rivolgere parola, spero ci sia almeno un valido motivo’, dominava sempre il locale affondato in una
sempiterna penombra – indipendentemente dal tempo atmosferico e dall’ora del
giorno o della notte che c’era fuori – come se sorvegliasse la scena; la sua
sorveglianza muta poteva essere tranquillamente ignorata da chiunque fosse un
frequentatore abituale, così come poteva risultare stranamente fastidiosa e
pressante per chi metteva piede lì dentro per la prima volta e sembrasse
intenzionato a non farsi fretta nel consumare la sua ordinazione. A quanto
sembrava, quello era il modo in cui Gus faceva presente ai suoi avventori se
potevano considerarsi più o meno tollerati.
Il ‘Bone’s’ si trovava sulla strada principale che attraversava
da parte a parte Castle Mac’Hearty, ed era uno dei primi edifici su quella strada.
Poteva anche essere considerato uno degli edifici della cittadina più vicino,
dunque, alla collina in cui sorgeva la malandata casa vecchia, in orribile
stile kitsch goticheggiante, che per qualche insano
motivo secondo Gus, era per di più abitata. Gus non aveva particolari problemi
col fatto che il suo bar sorgesse così relativamente vicino a quella casa. La
sua filosofia a riguardo di quell’edificio era pressappoco quella che era
bendisposto a rivolgere a quasi qualsiasi cosa esistesse al di fuori del suo
bar: non lo toccava minimamente, non lo riguardava affatto, ed era bene che le
cose rimanessero in quel modo.
Quella mattina
estiva, tuttavia, quando il bar era affondato nella sua solita penombra un po’
fumosa, quasi completamente deserto eccetto che per Gus stesso e Pete, uno degli avventori di più lunga affezione, come al
solito seduto tranquillamente al bancone in silenzio a sorseggiare con lenta
tranquillità la sua birra, quasi non volesse nemmeno disturbare con la sua
presenza, la stanza affondata nel silenzio perché Gus trovava che accendere la
musica prima del pomeriggio fosse solo un elemento causante fastidio e
potenzialmente mal di testa, e il caldo afoso della stagione era tenuto
rigorosamente fuori dal locale più grazie alle finestre e alla porta chiuse che
ai vecchi ventilatori che giravano pigramente sul soffitto…
orbene, in tutto questo, Gus si ritrovò a dover alzare un sopracciglio, in un
segno espressivo più che esagerato per lui, e che sicuramente poteva essere
interpretato in un solo, esplicito commento: disapprovazione totale.
A causarla erano
stati una serie di eventi che si erano appena svolti nell’arco di pochi
istanti. Prima di tutto, la porta si era spalancata così forte da quasi
sbattere contro la parete; e nessuno aveva mai osato negli anni entrare in quel
modo nel bar di Gus senza trovarsi poi a ritenere che il meglio che potesse
fare prima di incorrere in seri guai fosse uscire altrettanto rapidamente e,
stavolta, senza sbattere la porta. In secondo luogo, quello che era entrato era
uno sbarbatello, cioè un ragazzetto un po’ basso e piuttosto magro, e che dava
ad intuire - da come si muoveva - totalmente privo di calma e compostezza nel
misurare i suoi movimenti. In terzo luogo, questo ragazzetto si era fiondato al
bancone, ci si era appoggiato con entrambe le braccia come se si aggrappasse
disperatamente al bordo di una zattera dopo un disastroso naufragio, e si era
sporto più che precipitosamente oltre il suddetto bancone, invadendo
pericolosamente il territorio esclusivo di Gus da più di trent’anni. Per
finire, quello che esclamò non era affatto un’ordinazione.
«Gus! Hai visto
Danny, stamattina??»
Il fatto che il
ragazzino, poi, lo chiamasse per nome con tanta confidenza assolutamente fuori
luogo, poiché Gus non dava confidenza nemmeno ai suoi clienti di antichissima
data nonché in generale a niente e nessuno a parte il suo bar, risultò come una
terribile aggravante.
Cadde un pesante
silenzio, in cui Pete si voltò a guardare il
ragazzetto con gli occhi spalancati di sorpresa, indignazione, e un vago timore
di quello che avrebbe potuto scatenarsi di lì a poco. Poi, Pete
osò spiare di sottecchi Gus, con anticipazione e reverenziale comprensione.
Come tutti gli uomini che raramente mostrano qualche emozione o partecipazione
verso qualsiasi cosa, e che ancora più raramente parlano più del dovuto, ma che
sono generosi di sguardi pesantemente significativi, Gus godeva automaticamente
della reputazione di essere temibile quanto e tanto più raramente lo dimostrava
apertamente. E Pete gli dedicò uno sguardo di
assoluta comprensione: se da quel momento in poi avesse dovuto assistere ad una
scena moderatamente e ordinatamente violenta, in cui Gus, ad esempio, avesse
aggirato lentamente il bancone, e, senza perdere tempo con inutili parole,
avesse semplicemente afferrato il ragazzetto per la collottola della maglia e
il bordo posteriore dei pantaloni, lo avesse sollevato di peso, trasportato
fino alla porta, e lo avesse fatto volare fuori, per poi tornare con calma
dietro il bancone e riprendere a spolverare con placida calma il boccale che
stava pulendo, Pete ci teneva a fargli sapere che lui
non avrebbe avuto nulla in contrario, nulla da eccepire, assolutamente nulla da
commentare. Sarebbe rimasto semplicemente in silenzio e si sarebbe
immediatamente accompagnato al modo in cui Gus avrebbe fatto come se niente di
tutto quello fosse appena successo.
Gus, invece,
continuò a strofinare il boccale e a considerare il ragazzetto con il suo
sguardo imperturbabile, appena tradito dal sopracciglio sollevato. Forse le
cose sarebbero andate come Pete si immaginava, se non
fosse stato per un dettaglio importante. Gus aveva intravisto, attraverso la
finestra, il modo in cui quel ragazzo era arrivato. Lo aveva visto correre a
perdifiato giù per la stradina che scendeva dalla collina dove si trovava
quella stramba casa, quella a riguardo della quale non si riusciva a capire se
chi l’aveva costruita era veramente così privo
di gusto da ritenerla un risultato ottimale, oppure se era così
generosamente dotato di un eccellente senso dell’umorismo da aver voluto
realizzarla per coronare con un’opera tangibile quello che ne pensava dello
stile gotico, che non era certo qualcosa di complimentoso. Gus dunque, a
differenza di Pete, il cui mondo si riduceva per la
maggior parte a ciò che aveva nel bicchiere davanti a sé sul bancone, in
qualche modo stavolta era stato preso contropiede: aveva avuto uno scorcio sul
mondo esterno, e non era più in grado di considerare il ragazzetto
semplicemente come qualcuno che aveva appena infranto ogni regola di rispettoso
contegno richiesta in quel bar, dalla prima all’ultima, andando a turbare Gus e
il suo mondo con la stolta irruenza di chi oserebbe lanciare una lattina appena
svuotata addosso ad un orso inferocito. Un puro suicidio, insomma, e
inconsapevolmente idiota per giunta.
Gus appoggiò
lentamente il boccale e lo strofinaccio sul bancone, quindi, dopo un breve
momento in cui sembrò aver maturato tra sé e sé una decisione a riguardo di
come agire, alzò uno sguardo estremamente grave e significativo su Justin.
Questi ne fu colpito in pieno, e di colpo sembrò realizzare cosa aveva fatto.
Il che era notevole, considerando che si trattava di Justin. Ma lo sguardo di
Gus nel pieno della sua potenza avrebbe potuto rendere consapevole persino un
morto: dopotutto, era più che abituato ad avere a che fare con persone ubriache
fradice, ovvero con una consapevolezza delle proprie azioni e parole ridotta ai
minimi termini, praticamente all’osso.
Lentamente e
attentamente, come se pensasse che ogni movimento troppo brusco avrebbe potuto
risultargli fatale, e senza sottrarsi nemmeno per un momento al contatto visivo
in cui lo teneva incatenato Gus, Justin si fece indietro, scendendo dalla sua
posizione disperatamente aggrappata al bancone, riportando tutta la sua persona
dalla parte giusta d’esso, ovvero dalla parte del cliente. Una volta uscito
così, fortuitamente illeso, dalla sua pericolosa invasione delle spazio
riservato a Gus, andò persino oltre, raddrizzando un po’ le spalle e lasciando
le braccia penzolare lungo i fianchi un po’ meno disordinatamente del solito,
quasi che, per la prima volta nella sua vita, si sentisse convinto dalla
certezza che dare un’immagine di sé un po’ più dignitosa e composta potesse
salvargli il collo.
A quel punto,
Gus sembrò soddisfatto, perché finalmente smise di fissarlo con quello sguardo
terribile, e, con tutta calma, abbassò di nuovo il suo viso, riprese in mano il
boccale, e tornò a spolverarlo dedicando a questa banale azione tutta la sua
attenzione. Pete comprese che la tempesta era
passata, il ragazzetto era mezzo salvo; avrebbe potuto guadagnare facilmente
l’altra metà della sua sopravvivenza se avesse preso la decisione che era
logico acquisisse in quel momento: approfittare della benevolenza che Gus gli
concedeva nell’ignorarlo completamente, come se niente fosse successo, e
defilarsi dal bar il più silenziosamente possibile. Sparire insomma. Pete pensò che era meglio aiutarlo a modo suo, o forse
semplicemente anche lui riteneva che l’atteggiamento di Gus fosse il migliore,
perché anch’egli distolse ogni attenzione da Justin, e ricominciò a sorseggiare
in silenzio la sua birra del mattino come se il ragazzo nemmeno esistesse.
Justin rimase
perfettamente immobile e silenzioso per almeno cinque minuti, in cui non
accadde nulla, a parte Pete che sorseggiava la birra
al bancone e Gus che spolverava il boccale. Se avesse posseduto più fantasia,
avrebbe potuto iniziare a dubitare del fatto che quella scena potesse essere
reale: era troppo costruita, troppo un cliché, troppo ripetitiva e inutilmente
banale. Ma dopotutto, quante volte la realtà è esattamente così? Tuttavia,
Justin non possedeva le qualità prima di tutto intellettive necessarie per
lasciarsi prendere da queste digressioni riflessive; in altre parole, meglio
detto, era troppo mentalmente pigro per poter essere distratto da un eccesso di
pensiero.
«Hem… Gus…?» tentò, con voce
incerta, il tono leggermente troppo acuto rispetto al suo solito timbro di
voce, e un che di tremante che lo rendeva quasi balbettante. Si sarebbe detto
lo squittio di un topolino, quasi. Ma era incredibile cosa poteva fare in quel
frangente. Pete iniziò a tossire rumorosamente,
perché la birra gli era andata di traverso per la sorpresa di sentire che quel
ragazzino osava ritentare rivolgersi a Gus dopo quello che aveva appena fatto.
Gus in persona, invece, sbatté rumorosamente e pesantemente il boccale sul
bancone, si sistemò con più violenza del necessario lo straccio con cui lo
stava spolverando sulla spalla, incrociò saldamente le braccia contro il petto,
e trapassò Justin da parte a parte con uno sguardo solo appena meno terribile
del precedente.
Justin impallidì
e sembrò che la sua persona si stesse ritirando, cercando di rimpicciolire come
se desiderasse più di ogni altra cosa scomparire immediatamente alla vista, e
il suo corpo cercasse di accontentarlo entro i suoi limiti. Gus lo notò, e di
colpo sembrò che un lieve sentore di qualcosa di simile alla pietà gli
solleticasse appena quella parte di lui appena soggetta alle emozioni.
«Cosa posso
darti da bere?» disse allora Gus. Pete trasecolò e,
appena calmatosi dall’attacco di tosse, riprese a tossire violentemente. Quello
era il colmo, un evento incredibile. Nel criptico codice di condotta di Gus,
offrire a qualcuno da bere significava mostrare il massimo di empatia – ed era
veramente poca e rara, ovvero preziosa – che Gus poteva tirare fuori per
qualsiasi essere umano.
Justin non
sembrava meno stupito, perché lo stava fissando come se lo avesse appena
sentito parlare in ostrogoto, e il suo viso mostrava altrettanta totale
incomprensione e confusione.
Pete decise di
venire in aiuto a Justin: iniziava a temere che le emozioni lì dentro
raggiungessero un livello eccessivo, davvero innaturale e improbabile. Magari
il bar sarebbe esploso da un momento all’altro, se già non si trovavano in
un’altra dimensione. Oppure in realtà aveva bevuto troppo e aveva le
traveggole, sospettò per un momento in cui lanciò una breve occhiata dubbiosa
alla birra che stava bevendo. No, decise tra sé e sé, sicuramente quello che
stava accadendo era anche troppo per una sbronza, nemmeno lui poteva bere così
tanto da vedere scene talmente inaudite in quel bar. In ogni caso, pensò che se
non avesse fatto qualcosa per rompere quella situazione di empasse, quel
ragazzo avrebbe potuto non uscire vivo da lì.
Pete si schiarì la
gola, per attirare cortesemente l’attenzione, e quando Justin osò sviare appena
lo sguardo da Gus per lanciargli una veloce occhiata di sbieco, vide l’uomo
alzare con calma il boccale di birra, accennando verso di lui. «La birra è
ottima, qui.» disse semplicemente.
Justin rimase in
attesa che l’uomo proseguisse, poi, lentamente, si rese conto che era invece
l’altro che ora si aspettava qualcosa da lui, e capì così che sarebbe stato
tutto lì quello che gli avrebbe detto e che sembrava così importante, a
giudicare dalla corposità dell’aspettativa tesa con cui lo fissava. Poi, di
colpo e inaspettatamente, capì.
«Una… una birra…» disse a fatica
Justin, tornando a guardare direttamente Gus. Poi si schiarì la voce, grattando
la sua gola disperatamente secca per il nervosismo, e riprovò con un tono un
po’ meno squittente. «Credo che… Vorrei una birra.
Grazie.» aggiunse, col tono di chi invece vorrebbe esprimere una preghiera per
essere risparmiato dalla tortura o peggio.
Per qualche
lunghissimo secondo, non accadde nulla. Semplicemente, Gus continuò a tenere
inchiodato lo sguardo su Justin, in silenzio. Poi si mosse, facendo sussultare
violentemente il ragazzo, prima che si rendesse conto che l’uomo stava
semplicemente prendendo un boccale vuoto da uno dei ripiani alle sue spalle. «Birra
in arrivo.» grugnì semplicemente, mentre riempiva il boccale dalla spina.
Justin spiò di
nuovo verso l’uomo seduto al bancone, e vide che gli stava dedicando un breve
sorriso più che mai smagliante, come se avessero appena evitato entrambi una
morte orribile e ci fossero tutti gli ottimi motivi per essere estremamente
sollevati. Justin smise di trattenere il respiro, ma poi un sonoro colpo
violento glielo fece mozzare di nuovo in gola per lo spavento, prima che realizzasse
che era stato semplicemente Gus che aveva appoggiato il pesante boccale ricolmo
sul bancone davanti a lui.
Il ragazzo fissò
per qualche istante il boccale pieno, come chiedendosi quale fosse la corretta
mossa successiva da mettere in atto per procedere verso una zona sicura. Gus,
infatti, lo stava ancora guardando, come in attesa di qualcosa: e Gus non
dedicava mai a nessuno tanta attenzione, a meno che non ci fosse qualcosa di
veramente storto nell’aria. Justin deglutì un pesante grumo di saliva, poi,
muovendosi lentamente e in maniera decisamente circospetta e timorosa, fece un
tentativo di riconciliazione nello stringere il boccale pieno, sollevarlo,
portarselo alla bocca, e iniziare a bere la birra a lunghe e generose sorsate.
Nonostante la
sua esperienza delle casistiche umane gli suggerisse che tenersi il più
possibile al di fuori della faccenda fosse quanto di meglio poteva fare per la
propria auto-preservazione, Pete non poté fare a meno
di tenere gli occhi incollati sul ragazzetto; e la sua espressione iniziò a
diventare più animata di quanto lo fosse mai stata negli ultimi quindici anni
circa della sua vita, allorché lo vide – incredulo – bere l’intero boccale
tutto d’un fiato. Se non l’avesse visto coi suoi occhi e glielo avessero
raccontato, non ci avrebbe mai creduto. Ma il fatto di esserne stato testimone
gli dava ora l’impareggiabile occasione di essere colui che si sarebbe
accaparrato l’attenzione di tutti quando avrebbe raccontato quella storia vera
e autentica agli amici, o meglio agli altri avventori del bar. Avrebbe dovuto
ricorrere a tutto il suo bagaglio di giuramenti su cose e persone care e sulla
sua stessa persona nel tentativo di farsi credere, in quell’atteggiamento che
tutti quelli che si mettevano a raccontare una storia garantita per essere ‘più
vera del vero’ in quel bar tendevano ad assumere, piuttosto clownesco a dire la
verità, perché di solito si scioglieva loro la lingua solo dopo qualche
bicchiere, e per via del fatto che le loro guance a quel punto erano colorite
quasi quanto le loro espressioni perlopiù gergali, e nondimeno per gli abiti e
i capelli scarmigliati un po’ dall’alcool e un po’ dalle movenze più o meno
inconsapevoli che molti di questi racconta-storie
improvvisati iniziavano a mettere in scena nel mimare le loro presunte
testimonianze, per renderle più credibili e per intrattenere meglio chiunque li
stesse degnando di attenzione.
Sì, Pete non aveva dubbi. Quella scena era da raccontare. Più
di una volta anche. E certamente avrebbe tenuto banco al bar per almeno un
mese, salvo che qualcosa di ancora più eclatante e incredibile fosse giunto
alle orecchie di qualcuno dei frequentatori del bar, cosa che dubitava.
Naturalmente, avrebbe dovuto raccontarla però fuori dal bar, magari davanti
alla porta all’esterno, dove di solito si radunavano i gruppi di fumatori
quando Gus li cacciava lì fuori con osservazioni placidamente minacciose sul
fatto che ormai dentro ci fosse tanta nebbia che non riusciva a distinguere le
etichette sulle bottiglie. Naturalmente, nessuno aveva mai osato obbiettare che
il 99,9% di quelli del bar bevevano praticamente solo birra alla spina (che non
aveva bottiglie etichettate), né che tenere il locale in una perenne penombra
non fosse in ogni caso d’aiuto per distinguere alcunché lì dentro.
Justin si pulì
la bocca con il dorso del polso, più precisamente sulla manica del maglione
sdrucito che indossava, mentre con l’altro braccio riallungava il boccale
appena svuotato sul bancone, sul quale lo appoggiò diligentemente.
«Davvero… ottima…» mormorò. Ne
pareva così convinto che nessuno avrebbe potuto capire se lo pensava davvero, o
se ne avesse realmente sentito il sapore, ma certamente nessuno avrebbe potuto
scambiare il suo atteggiamento tanto ossequioso e timoroso per una
provocazione, né la sua espressione quasi paralizzata dalla paura come un gesto
di sfida.
Gus grugnì neutro,
poi afferrò il boccale vuoto con una delle sue enormi mani e lo posò dentro il
lavandino, per poi iniziare a sciacquarlo sotto l’acqua. Justin rimase a
guardarlo come se stesse iniziando a concepire che sarebbe sopravvissuto
dopotutto, ma anche con lo scoraggiamento di chi, di fronte a tanta inaspettata
fortuna, non sa bene che pesci pigliare a quel punto.
Poi, di colpo,
Gus parlò di nuovo, sebbene senza alzare nemmeno per sbaglio la testa dalle sue
occupazioni di barista. «A proposito di Danny. Non l’ho ancora visto oggi.»
Dopo qualche
lungo istante, Justin realizzò che sarebbe stato perlomeno cortese da parte sua
azzardare una risposta. «Oh. Oh! Grazie! Grazie davvero! Hem,
beh, magari potrei cercarlo più giù in città… anche
se non so bene dove ma… in ogni caso, è una cosa
urgente e così… Molto urgente a dire la verità. Una
vera e propria emergenza. Questione di vita o di morte, proprio così.» Justin
annuì vigorosamente, come a ricalcare la veridicità e l’importanza delle sue
parole, anche se sarebbe bastata l’espressione di attonito terrore che iniziava
ad accendersi nel suo sguardo, simile ad un oscuro timore, o a un presagio di
morte se non certa perlomeno fin troppo probabile.
Ed era così
intento a parlare a vanvera e velocemente, che non si rese conto di Pete che lo guardava a bocca aperta, incredulo e seriamente
allarmato, né del fatto che Gus dava l’impressione di non essere affatto
interessato ad ascoltarlo, né in generale che la sua parlantina rischiava di
irritare di nuovo il temibile barista.
«Perché, sai, è
arrivata una telefonata. Certo, Danny non ha un cellulare, ma è sempre stato
così. Cioè, almeno da che lo conosco, da che viviamo nella stessa casa cioè. A
dire la verità prima che venissimo ad abitare col Conte non c’era proprio
nessun apparecchio di comunicazione in casa, a parte un vecchio telegrafo
polveroso, ma credo che non sia attaccato alla linea. Non credo in ogni caso
che se anche fosse attaccato ci sarebbe qualcuno a ricevere dall’altra parte. E
quindi è stato Danny a convincere il conte a far installare una linea
telefonica ed un telefono fisso. Per ricevere le chiamate dai clienti, no? E di
solito io ricevo le chiamate per lui, quando è fuori, e segno tutto. Ma stavolta… oh… » e Justin
rabbrividì tutto da capo a piedi «Stavolta non è un cliente. E non oso
immaginare che cosa mi farà se non trovo subito Danny e lo porto al telefono,
perché sono dovuto correre fin quaggiù a cercarlo, così mi ha detto di fare,
che dovevo trovarlo immediatamente, e lui rimaneva ad aspettare al telefono.
Capisce? È terribile cosa potrebbe succedere se non…»
«Danny non l’ho
visto qui dentro, oggi.» lo interruppe di colpo Gus, in tono pesante come un
macigno, che fece sussultare Pete e chiudere
immediatamente la bocca – in senso quanto mai letterale – a Justin. «Ma l’ho
visto scendere dal sentiero di casa vostra, stamattina, prima dell’orario di
apertura. Se non sbaglio, credo di averlo visto proseguire lungo la via
principale. Probabilmente, potresti trovarlo da qualche parte in città.»
Se Pete avesse potuto spalancare ulteriormente gli occhi,
probabilmente avrebbe rischiato che gli uscissero dalla testa. Sembrava che
Gus, il temibile orso proprietario e unico gestore dalla memoria dei tempi del
‘Bone’s’ di Castle Mac’Hearty, stesse cercando di
sbattere qualcuno fuori dal bar assecondandolo piuttosto che minacciandolo. Non
si era mai visto prima nulla del genere. E Pete
poteva capire perché. Nessuno, lì al ‘Bone’s’, ma
anche più in generale in tutto Castle Mac’Hearty, ci teneva a sapere
che cosa succedeva dentro le mura di quella casa abbarbicata sulla collina; e
bene che se ne stesse lì, ben lontana dal resto del centro abitato, abbastanza
da ignorarla il più possibile.
Ognuno aveva i
suoi buoni motivi per cercare di ignorare la sua esistenza e per desiderare
pienamente di conservare la propria benedetta ignoranza su quella casa, i suoi
abitanti e ciò che vi succedeva all’interno. Si poteva giustamente dire che gli
abitanti di Castle Mac’Hearty erano già fin troppo spaventati dalle loro
improbabili fantasticazioni su quali mostruosità
fuori-natura accadessero là dentro per poter essere curiosi di sapere quale
fosse l’effettiva realtà. Realtà che probabilmente in effetti li avrebbe
terrorizzati sul serio. Qualcosa come vedere il Conte, sospettato vampiro o pazzo
pericoloso o potenziale serial-killer dalle manie perverse e occultiste,
stendere i calzini appena lavati sullo stendino; o
Justin, sospettato schiavo sessuale del Conte, nonché drogato e forse privato
della propria volontà mediante qualche oscura tecnica paranormale, che giocava
alla play-station o leggeva fumetti spaparanzato sul divano mentre rosicchiava
qualche schifezza confezionata come papatine o
barrette di cioccolato aromatizzato e sorseggiava bibite gassate e zuccherate;
o Danny, che già solo per il suo aspetto punk era in grado di suscitare diversi
dei peggiori sospetti di quelli tipicamente rintracciabili in ogni bibbia
mentale del benpensante, che estraeva teglie roventi piene di biscotti dal
forno con addosso un grembiule e un paio di guanti da cucina. Sì, decisamente
sarebbero scappati urlando se avessero visto questo tipo di scene.
Perché i mostri
visti nel contesto di una banale quotidianità di quel tipo erano qualcosa di
inconcepibile. Per rassicurare tutti delle loro peggiori paure e dei più
innominabili sospetti, non c’è niente di meglio che un mostro che si comporti
come tale per assecondare il suo ruolo. E’ davvero difficile essere un mostro a
tempo pieno, stressante come uno di quei lavori da ufficio, e molto peggio
malpagato.
Justin riuscì a
ricomporsi in qualche maniera, abbastanza rapidamente, mentre realizzava che
Gus stava, a quanto sembrava, effettivamente cercando di essergli d’aiuto.
Certo, sospettò a lungo che si trattasse di qualche trappola, ma muovendosi
molto circospettosamente, e avendo cura di
ringraziare profusamente per l’informazione, iniziò ad avvicinarsi alla porta
del bar procedendo a ritroso, non osando voltare le spalle al bancone e
tantomeno a Gus. Questi però, così come Pete, si
limitò a fissarlo finché non fu uscito, richiudendo gentilmente la porta dietro
di sé.
Il bar tornò
immediatamente nel suo solito clima sempiterno di silenzio e calma
semi-oscurità. Gus riprese a spolverare i boccali. Pete
fissò molto a lungo il boccale vuoto e già sciacquato rimasto ad asciugare nel
lavandino, cercando di capacitarsi del fatto che non aveva avuto
un’allucinazione molto elaborata. A fargli sospettare che non si fosse trattato
di una specie di improbabile sogno ad occhi aperti, più che la tangibile prova
di quel boccale usato da Justin, era la sua esperienza, che gli diceva che lui
non possedeva una fantasia talmente complessa e vivace da potergli dettare una
scena talmente surreale. Alla fine, si limitò a chiedere un’altra birra a Gus,
sperando che lo avrebbe aiutato a riprendersi da tutte quelle emozioni
concentrate che gli erano appena passate sopra come una macchina che lo avesse
investito. E Gus gliela servì, perfettamente imperturbabile.
Al di fuori del
‘Bone’s’, Justin si bloccò sul posto, raggelato. Solo
in quel momento realizzò di non aver pagato la birra. Lentamente, come se
temesse che da un momento all’altro un Gus infuriato si sarebbe lanciato fuori
dal locale per inseguirlo, afferrarlo e ridurlo ad una poltiglia
irriconoscibile di carne e ossa, si girò a fissare la porta del locale chiusa.
Restò lì immobile sul posto per diversi lunghi minuti, come un coniglio
ipnotizzato dai fari di un’auto sulla strada, incapace di muoversi nonostante
stia per essere investito. Tuttavia, nulla avvenne. La porta rimase chiusa,
impassibile e immobile. Alla fine, Justin osò riprendere a respirare più
liberamente. Certo, l’idea che Gus potesse rendersi conto di quell’affronto più
avanti non lo rassicurava affatto; ma al momento considerare di dover rientrare
lì dentro la tana dell’orso era qualcosa di decisamente al di sopra del suo
coraggio.
E poi, c’era
qualcosa che al momento era capace di fargli ancora più paura di Gus, per
quanto suonasse incredibile persino a lui. E quel qualcosa era il qualcuno che
lo aveva mandato a cercare Danny con urgenza, e che forse stava ancora
aspettando all’altro capo del telefono. Justin non osava provare a immaginare
quanto tempo doveva essere già passato da quando era schizzato correndo dal
telefono fuori di casa e giù per il sentiero che scendeva dalla collina. Ma
sicuramente era già abbastanza da fargli sentire che il filo che sosteneva una
spada di Damocle sopra la sua testa era già visibilmente assottigliato, e più
che abbastanza da fargli pesare addosso ogni ulteriore secondo che passava,
come un conto alla rovescia.
Girando su se
stesso rapidamente, Justin tornò a girare le spalle al ‘Bone’s’,
e di lì a poco stava di nuovo correndo lungo la strada principale di Castle Mac’Hearty
come un indemoniato che fugga da un esercito di barbari pronti a mozzargli la
testa. Incurante delle occhiate di allarmata disapprovazione che gli lanciavano
le persone lungo la strada, non faceva che voltare la testa in tutte le
direzioni mentre correva, cercando ansiosamente e disperatamente la figura di
Danny, come se fosse la sua unica speranza di salvezza.
Note dello scribacchiatore:
ci ri-“vediamo” al prossimo capitolo!