Ad te victor revertor
Come la tua carne
si faceva spazio nella mia, così questo ferro
lacedemone si è aperto un varco nel mio petto.
Non posso negare di aver atteso, nel più profondo del mio
io, questo momento.
Credevo facesse
più male, sai?
Credevo che questa
fitta potesse essere più dolorosa, ma, a quanto pare, mi sbagliavo: il mio vero
dolore io l’ho già
visto, l’ho già toccato, l’ho già baciato; il mio vero dolore aveva il tuo volto morente, i tuoi occhi neri chiusi per il
resto dell’eternità e già rivolti al nero Ade.
Il petto del mio vero dolore non si alzava più
velocemente come quand’egli mi possedeva, né, tantomeno, piano
come quando il sonno lo rilassava accanto a me, nel medesimo talamo, il petto
del mio vero dolore era immobile, immobile e vuoto, l’anima, terrorizzata,
ormai fuggita nel regno dal quale nessuno potrà
mai fare ritorno, ridotta a semplice ombra d’esistenza, confusa tra le
simili che lei stessa ha ucciso e quelle che per seguirla hanno ingoiato la
spada nemica sino all’elsa.
Il mio vero dolore aveva una pelle
così fredda da sembrare quella di un serpente e tutto quel sangue che le
sue vene avevano vomitato via s’accostava bene, con il suo cupo rosso,
alla sua carnagione d’ambra.
Il mio vero dolore non sa che finalmente
abbiamo vinto, che la sua Tebe, quella per la quale
ha dato la vita, ha piegato le resistenze dei lacedemoni
sino a schiacciarli sotto la propria potenza.
Sì, ora
posso andarmene, finalmente, dopo così tanto
tempo, posso tornare da te, ora ne sono certo: il sangue che sputo mi
mostrerà la via che mena alle tue labbra.
Subide
mihi, meus Pelopida; subide mihi meus verus
maeror: ad te victor revertor.
Sorridimi, mio Pelopida;
sorridimi, mio vero dolore: ritorno da te vincitore.
Note: Ci tenevo a sottolineare che l’ultima frase, quella in latino, non
è mai stata detta da Epaminonda e che è tutto frutto della mia mente
(anche perché Epaminonda, essendo tebano non avrebbe certo parlato in
latino, massimo in greco...) malata
e grandemente provata dalle versioni di latino, proprio dalle quali è
saltato fuori questo grandioso sclero.
Nella versione “Morte
di Epaminonda” di Cornelio Nepote
il generale tebano muore a causa della punta di un giavellotto che gli rimane
conficcata nel petto e che estrae solo dopo aver visto i suoi soldati vincere.
Non so se Epaminonda e Pelopdia avessero
davvero una relazione, temo di no, ma
erano sicuramente buoni amici.
Spero, nonostante
tutto, che vi sia piaciuta...
Grazie dell’attenzione,
vostra, Isi.