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Autore: L0g1c1ta    28/09/2014    3 recensioni
Dieci ragazzi e una professoressa.
Ognuno di loro ha una storia. Ognuno di loro ha un passato.
Passano insieme quattordici giorni di vacanze all'estero e insieme decidono di fare un rito per entrare nel Regno dell'Incubo, risvegliando l'Uomo Nero ed entrando nel suo mondo.
Mano a mano che esplorano il luogo si rendono conto che anche i Guardiani e altri spiriti si trovano costretti ad abitare in quest'isola ove sono ricercati dalla reale padrona del Regno: Macula Sanguinea.
Tra umani e spiriti si cuciranno rapporti d'amicizia o inimicizia.
Riusciranno a tornare a casa?
Riusciranno a sfuggire dalle mani della megera Macula Sanguinea?
Riusciranno a scampare alla morte?
Genere: Angst, Generale, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Cinque Guardiani, Nuovo personaggio, Pitch
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Mama, cosa sono?” mama si voltò e ci fece vedere, dentro un portagioie, un paio di orecchini e una collana.
“Diavoletti, venite qui!” anche Al si avvicinò alla mama. Anche lui era curioso. Lei prese in braccio Al, lo mise sulle sue ginocchia e gli fece indossare la collana. Poi toccò a me. Mi mise i due orecchini intrecciati e mi posò a terra. Eravamo felici del regalo.
“Wow!”
“Bello!”
“Vi piacciono, amori? Questi erano miei e di mio fratello. Erano anche della mia mamma e del mio nonno e del mio bisnonno e della mia trisnonna. Ora però sono vostri. Quando sarete grandi dovrete darli ai vostri figli e loro faranno la stessa cosa che ho fatto con voi, capito? Non dovete dargli a nessuno. È il nostro segreto!” ci piacevano tanto, soprattutto perché erano della mamma e della nonna e anche perché ci piacevano i segreti.
“Non dobbiamo dirlo nemmeno a papa?” chiese Al con un pollice in bocca.
“Nemmeno a lui. Non sa tenere i segreti”
“Chi non sa tenere i segreti?” ci girammo. Al si tolse il dito dalla bocca: papa.
“Qualcuno non sa tenere i segreti? Non so di cosa parli. Avete detto qualcosa voi due?” ci fece un occhiolino. Avevamo sorriso anche noi, complici.
“No! Nessuno segreto!” credo che papa stava recitando, perché iniziò a ridere. Il che è strano, sia prima che dopo che la mamma morisse.
“Va bene. Devo aver sentito male. Rachele, sai dove sono le carte che avevo stamattina? Sono molto importanti. Non le trovo, mi aiuti?” avevo deglutito. Sin da pequena avevo questa strana abitudine di rubacchiare le cose degli altri. Anche il boomerang di Calm l’ho preso per questa estupida abitudine… Mama ci guardò divertita. In confronto a papa era sempre stata divertente. Credo che abbiamo preso da lei. Papa se n’era andato nel suo ufficio e io sussurrai a mama:
“Mappa del tesoro dimenticato. Scatola dei giocattoli” avevamo questo modo di parlare: così nessuno capiva mai cosa stavamo dicendo.
“Un secondo, Pedro!” prima di seguirlo, ci aveva fatto segno di correre via. Papa sarebbe stato furioso fino al mattino dopo. Siamo scappati in giardino. C’erano altri bambini laggiù. Spesso giocavamo con i bimbi dei palazzi vicini. Quella volta c’era un grosso gruppo di ocho-nueve piccoletti. C’era anche il grande capo. Un gran pezzo di…
“Hey, Sanz! Portate le chiappe qui!” era il più grande di tutti nel giardino: tredici anni e un cervello grande quanto la sua pancia. Ah, si, era anche anoressico. Con le gambe alte come spilli e un collo lungo come una giraffa.
“Hey, Jirafa!” tutti lo chiamavamo così per il suo collo. Oggi col cavolo che lo chiami giraffa, altrimenti finisci all’ospedale con un coltello nel sedere. Il tipo si avvicinò con aria da strafottente.
“Sapete che giorno è oggi?”
“Erm…”
“Sabato! Oggi è il tuo turno” disse puntando il dito contro Al.
“No!”
“E invece si. Devi farlo anche tu!”
“Ma la mama…”
“Cosa?”
“…ecco…niente…” abbassò la testa sconfitto. Ogni sabato dovevamo fare la stessa stupidaggine grazie alla quale finivamo sempre con la testa contro il muro e con una bella sculacciata da papa.
“Bravi. Anzi, oggi sarò generoso con te: faccio partecipare anche tua sorella. Così non sarai solo e non avrai paura” Al annuì lentamente.
“Ma io non voglio!” non volevo prendermi anch’io le sue colpe. Qualsiasi cosa avesse in mente Jirafa.
“Oh, ma davvero? Vuoi finire nella fossa della tortura?”
“…no…” la fossa della tortura è un’altra cretinata inventata da Jirafa: è un grosso buco di un metro e mezzo scavato da lui, dove mette i bimbetti che non gli ubbidiscono. Si trovava in un punto dove il giardinetto si buttava nel verde e dove nessun adulto poteva ficcarci il naso. Il marmocchio che entrava dentro ci restava per tre ore o più, mentre urlava e strillava di farlo uscire, poi veniva riportato a casa e tante care cose.
“Ottimo. Oggi dovrete fare questo” si avvicinò a noi e ci sussurrò nell’orecchio cosa dovevamo fare. Tutti gli altri piccoletti si allontanarono: anche chi sentiva finiva nella fossa della tortura. Feci una faccia disgustata, lo stesso anche Al.
“Che schifo!” urlammo insieme.
“Beh, che vi aspettavate? Champagne, rose e belle bionde? Ecco qui il necessario”
Dopo un paio di litigi, pestoni, calci e morsi (da parte di Al), ci siamo arresi e siamo andati nella scalinata principale del giardinetto, dove di solito gli adulti passavano per andare verso il mercatino per comprare da mangiare. Ci siamo sdraiati lì, al sole, e ci siamo spalmati tonnellate di ketchup addosso. Abbiamo buttato i barattoli lontano e ci siamo messi a gridare.
Era sempre così con Jirafa: scherzi. Scherzi, scherzi e scherzi, quasi sempre di cattivo gusto e sempre alle persone più buone o per quelle che non c’entrano niente. Ogni settimana sceglieva chi doveva avere la sfortuna di partecipare. E ogni volta finiva con una punizione da parte dei genitori, dei pestaggi dai fratelli più grandi oppure una nota sul diario se passava accidentalmente un tuo maestro.
Il piano era facile: restare lì, facendo finta di essere brutalmente mutilati (avevamo fatto in modo che le braccia e le gambe non si vedessero) e aspettare la vittima. Facilissimo. Ecco perché io e Al non facciamo mai scherzi del genere. O almeno credo…
Madre de Dios! Al! Mini!” avevamo alzato gli occhi: mama. Era pallida, gli occhi spalancati, la mascella aperta e le mani davanti alla bocca. Eravamo sorpresi: perché era lì? Forse per comprare da mangiare? Certo, aveva una busta con dei peperoni sopra, quella che usava per andare a fare la spesa, ma perché era passata di lì in quel momento? Proprio in quel momento?
La prima cosa che avevo pensato, e che probabilmente aveva pensato anche Al, era la punizione. A mama piacciono gli scherzi, ma non quelli di cattivo gusto. Certo, sarebbe stato peggio se fosse passato papa: lui odia ogni tipo di scherzo. Ma almeno non saremmo stati dispiaciuti. Dopotutto, lui non è mai felice.
Avevamo lanciato uno sguardo verso Jirafa e la sua combriccola nascosta dietro ai palazzi. Malditi idioti. Ci guardavano mezzi storditi e mezzi paurosi, manco fosse capitata a loro una cosa del genere!
Eppure mama non disse nulla di più. I suoi occhi si erano come paralizzati sul ketchup e non si schiodavano da nient’altro. Poi divenne bianca, sia in viso che sugli occhi. La busta con i peperoni cadde a terra, asciutta, senza suono. Le gambe la fecero cadere in avanti, sulle scale. Ruzzolò fino alla fine della scalinata. La testa l’aveva sbattuta per ogni scalino e dal terzo in poi erano tutti macchiati di sangue. Il sangue della mia mama.
Avevamo urlato.
Non dovevamo fare lo scherzo del ketchup.
Chiedevamo aiuto.
Tutti erano andati via: avevano troppa paura della punizione.
Anche papa era arrivato.
Si era buttato in ginocchio vicino a mama.
Què he hecho?!”
“N-noi…i-io…”
Què he hecho?!”
Papa…non volevamo!”
“Bastardi, levatevi!” ci ha dato un pugno e siamo ruzzolati anche noi per la scalinata. Io sono caduta con la testa sulla busta con i peperoni. Ho pianto moltissimo. Anche Al. Non avevamo capito niente, ma forse era meglio così. Anche se poi ci avevano spiegato cosa significa ‘morte’ e cosa significa ‘bastardi’. È così: siamo dei bastardi. Noi due.
Questo mondo non fa per noi.
Questo mondo è troppo scuro e orribile per noi.
Ma questo cosa mai dovrebbe importare agli adulti?
Loro hanno creato questo mondo, perché distruggere ciò che è stato costruito per così tanto tempo? Perché distruggere qualcosa di così orribile, agli occhi di noi bambini o adolescenti, sbagliato?
Perché chiedere ad un adulto di divertirsi un po’?
Perché chiedere ad un ceco di giocare a nascondino?
 
 
 
 
 
 
 
“Whuao!” a momenti cadevo dalla mula. È ancora notte fonda. Mi sono addormentata? Per quanto tempo? E dove?
“…Mini, togli gli artigli dalla mia pancia…” Abbasso la testa: a momenti strappavo la pancia a Fabi. Diablos! Proprio su Fabi dovevo addormentarmi? Non sembra per niente felice di questo: mi guarda sempre cupa e un po’ arrabbiata.
Excusame! Non volevo…ecco…fare…” è meglio se tengo la bocca chiusa: sto dicendo un sacco di cretinate. Intanto aggiusto il vestito di Fabi. Mi piace tantissimo. Sembra una Alice nel Paese delle Meraviglie in versione angelo e con la treccia bionda. È dolcissima. Anche lo scialle la fa sembrare una bambina. Inoltre più che scialle sembra una copertina, tanto è grande.
“Per quanto ho dormito?” lei si rigira e guarda avanti. Mi giro anch’io e mi guardo attorno. Non vedo più la città, credo che l’abbiamo superata da un po’ di tempo. Ora siamo in una specie di bosco. Non si vede niente e ho un po’ paura, per essere sincera. Peccato che io non possa abbracciare qualcuno…
“Per tutto il giorno e quasi tutta la notte” dice alzando le spalle con nonchalance. Sono sorpresa. Ho dormito per così tanto tempo?
“Davvero?”
“…davvero…”
“E ho dormito su di te per così tanto tempo?”
“…” lo prendo per un si. Beh, in confronto a Fabi, io sono molto più grande e lei invece è così piccina. Credo che le abbia fatto male oppure credo di averle schiacciato le ossa per…venti ore…?
“Erm…ti è dispiaciuto?” si gira di nuovo verso di me. Forse non ha dormito. Ma è ovvio che non ha dormito. Altrimenti come diavolo saremmo arrivate fin qui da sole? Sicuramente la mula non conosce la strada e di sicuro non è così intelligente. Non risponde. Mi guarda ancora un po’ cupa.
“Per quanto tempo dormi di solito?” e questo cosa diablo c’entra?
“Mi addormento verso le tre o le quattro” mi guarda male. Ma lei non è mica la mia mama. Quindi non dovrebbe importarle molto.
“E quanto mangi di solito?” vuole farmi anche da dietologa?
“Cosa c’entra tutto questo?” sospira scoraggiata. Con Fabi non riesco mai a dire qualcosa. Credo che siamo troppo diverse noi due. Non riesco mai a capirla. Non so come faccia Gianni, ma io non riesco proprio a leggere cosa le passa per la testa. Chissà perché ho voluto venire con lei… Ah, già, mi stavo annoiando…
“Sei diventata un tacchino”
“Eh…?”
“Oppure un porcellino”
Què?”
“Kolja ti sta rimpinzando troppo di cibo. Credo che stia esagerando a prendersi cura di te” io sarei ingrassata?! E questa dove diablo è uscita fuori?! Questa non mi piace per niente.
“Invece tu sembri un insetto: sei così magra che ti potrei schiacciare come una formica!” ecco l’ho detto! Anche se, un po’ è vero. Mi preoccupa un po’ Fabi. È troppo magra. Anche prima di venire in questo mondo, isola, città…insomma, già prima era molto magra. Ora sembra quasi anoressica. Mi preoccupa un po’. Beh, io non sono sua madre: che pensi lei a ciò che mangia. Forse al ritorno devo dirlo a Sandy, sempre che mi possa ascoltare (forse è sordo muto, non lo so, non ho mai parlato con lui).
Sento una risata. Non credo sia di Fabi. In effetti, non l’ho mai sentita ridere. Ma non credo che venga da lei.
“L’hai sentito?” la risata continua. Ma non è che viene dalla mula…?
“Cosa?” no, dai. Una mula che ride. Sto impazzendo anch’io.
“No, niente. Sai, ora che mi ci fai pensare, ho una fame da lupi! Hai portato qualcosa di buono?” ritorna a guardare di fronte a sé.
“Veramente niente”
Niente?!”
“Niente”
“Ma…ma…nemmeno per te? Non hai portato nulla per te?” alza le spalle. Non ci credo. Appena ritorno da questa scampagnata dico a Sandy di farle mangiare almeno un pentolone di minestra al giorno. Non può fare così. Ora che ci penso…dove stiamo andando?
“Ma dove dobbiamo andare? In un paesino di campagna?” sospira. Si rigira.
“Veramente non volevo che venissi con me. Sarebbe stato meglio se saresti stata con Kolja e Calmoniglio. Loro due ti avrebbero trattata meglio” non ho capito.
“E perché non volevi che venissi con te? Ti sto antipatica?” questa la devo sentire per forza: almeno saprò cosa pensa di me, sempre se risponderà.
“Non ho detto questo. Volevo soltanto andare a prendere un regalo per te e poi portartelo dopo due giorni. Semplicissimo” un regalo? Fabi voleva farmi un regalo? Non esiste né in cielo né in terra che Fabi voglia fare un regalo a qualcuno. Specialmente a me, che non sono nemmeno sua amica. Cioè, non amica amica…
“Siamo arrivati” la mula continua a camminare. Riesco a vedere un paesino di fronte a noi. È un po’ bruttino, però. Ma che dobbiamo fare qui? Fabi scende. Faccio anch’io come lei. Si butta lo scialle sulla testa che le cade anche sulle spalle nude e su tutta la schiena. Ora non vedo nemmeno il suo viso. Sta per avviarsi senza di me. Io la guardo mentre si allontana.
“Vuoi venire o no? O devo chiamare anche la carrozza?” corro verso di lei e cominciamo a camminare per il paesino. È sporco e buio. Non c’è quasi nessuno per strada. Qualche volta vedo dei tizi con delle vanghe e altri attrezzi in mano. Credo che siano contadini. Finiamo di girare per il paese dopo un quarto d’ora circa. Fabi, però continua a camminare. Continua a girare a vuoto e io la seguo. Non so dove voglia andare a parare con questi giri, anche se sembra che stia cercando qualcosa. Gira gli occhi ovunque. Guarda in ogni vicolo e in ogni strada, ma la cosa che sta cercando è introvabile. Mi stufo dopo un po’. Credo che sia passata quasi mezz’ora. Forse è per questo che non voleva che venissi con lei.
Vedo una donna per strada. È un po’ più strana degli altri: sembra che sia concentrata. Guarda dritta di fronte a sé con le gambe aperte. Poi…fa pipì per strada. Rimango scioccata. Ma che…?
“Anche nei paesi meno sviluppati si fa così: le donne non portano le mutande” credo che Fabi abbia visto la mia espressione sbalordita, ecco perché mi ha risposto.
“Ma…non si vergogna che gli altri la vedano? È…disgustoso! Ma perché non porta le mutande?” lei alza le spalle. La tizia se n’è andata. Continuiamo a camminare per un’altra strada.
“No, è una donna medioevale. All’epoca portare le mutande era considerato una sfacciataggine. Più o meno come portare il rossetto nell’antica Grecia equivaleva ad essere una prostituta” non ci posso credere. Ma non penso nemmeno che se l’abbia inventate tutte queste cose.
“Sarà, ma secondo me non è normale” continua a camminare anche se comincia a rallentare il passo.
“Normale? Scusa, Carmen, ma per te ‘normale’ cosa significa?” Què?
“Normale è…qualcosa che vedi spesso e che…beh…ogni persona trova comune e quindi normale” non so come definirla per bene questa parola. Per me normale è normale. Punto e basta.
“Per te è normale che due persone per strada si bacino sulle guance per salutarsi?”
“Ecco…dipende. Si conoscono questi due?”
“No”
“Allora non è normale”
“Sai una cosa? In Italia lo è. Infatti molto spesso, soprattutto al Sud d’Italia, si usa come saluto il bacio alle guance, anche tra uomini” questo è interessante. Ma dove vorrà arrivare con questo discorso?
“Vedi, Mini, come hai detto tu, la normalità sarebbe una condizione abituale, qualcosa che segua le regole, per così dire. Ma mettiamo per esempio un paese. Se in questo paesino ogni persona commetterebbe un abuso contro dei bambini e nessuno direbbe niente, credi che diventerebbe normalità?”
“No, un abuso è sempre un abuso. Non può diventare normale!”
“Certo. Ma mettiamo il fatto che questi abusi accadano sempre, per un anno o di più, e nessuno direbbe niente. In questo caso diventerebbe normale. Anche le stesse vittime crederebbero che ciò che gli accada sia una cosa normale che si spera che passi in fretta. Ovviamente non è così, ma questo genere di cose accadono spesso, soprattutto se vivi dentro una piccola società dove esistono certe regole facilmente modificabili. Modificare le regole è molto semplice: basta avere degli stupidi, ovvero la maggior parte del gruppo, che ti ascoltino e che abbia intenzione di cambiare la loro condizione di vita o qualcosa nella loro società. Anche nella Germania Nazista è accaduta la stessa cosa e anche in questo mondo, per via di tutti questi ignoranti cittadini, è ormai diventato comune uccidere, violentare oppure importunare una ragazza con un coniglio. Ed è anche per questo che nessuno abbia deciso di protestare: perché, se qualcuno lo facesse, quella stessa persona finirebbe in un mare di guai anche perché il pezzo più grosso di società andrebbe contro quella persona e lui diventerebbe lo zimbello del gruppo. Nessuno vorrebbe uscire fuori dalla società e diventare un’asociale, giusto?” mi aveva lanciato uno sguardo insolito sia all’inizio che alla fine del discorso. Beh, questo spiega il perché nessuno per strada non abbia voluto aiutarmi quando quel tizio francese stava cercando di uccidermi. Però… La interrompo.
“Senti, questo è…molto interessante… Ma cosa c’entra con la tizia senza le mutandine?” credo di aver detto una cosa stupida, perché lei ora mi guarda un po’ arrabbiata. Sbuffa.
“Voglio dire che quello che hai visto è normale per quella tizia, perché lo fanno tutti in questo buco di paese” dice con un po’ di frustrazione nella voce. Bueno, ora ho capito. Però lei è ancora arrabbiata. Sbuffa ancora.
“Ok, non c’è bisogno di arrabbiarsi! Non tutti sono intelligenti come te…” lei mi guarda attentamente. Mi lancia un sorrisino un po’ scuro.
“Si…forse hai ragione…” rigira la testa di fronte a sé. Ora che ci penso…credo di essermi auto-offesa…Si, credo proprio di si… Rimango un po’ indietro. Mi sento offesa. Mi brontola la pancia. Fabi la sente. Intanto il suo sorriso è scomparso magicamente, così com’è arrivato.
“Sei fortunata: c’è una locanda qui” appena ho sentito la parola ‘locanda’, mi si sono drizzate le orecchie. Ho fame. Ho tantissima fame! Entriamo dentro.
Il posto è più pulito di come pensavo. I banconi di legno, le sedie, il pavimento, sembra tutto nuovo e comprato da poco oppure restaurato il giorno prima. C’è molta gente qui, ma quasi tutti uomini. Mi dà un po’ d’inquietudine questa cosa… Fabi si allontana da me e si siede ad un tavolo piccolo con due sedie. La seguo e mi siedo di fronte a lei. Appena ho appoggiato le chiappe sulla sedia è spuntato dal nulla un tizio un po’ basso e robusto che si piazza sul nostro tavolo con una grazia da dimenticare.
“Hey, voi due: non vogliamo contadine qua dentro”  què? Contadine? Ma a chi ha dato delle contadine?
“Alzate i tacchi e sparite da qui. O forse devo prendervi per i capelli?” fa una faccia brutta. Sembra quella di papa: vuole solo fare paura e non alzare le mani.
“Ci sono problemi?” Fabi lancia i suoi occhi freddi verso il tizio. Lui non cede, anche se ha preso un colpo quando ha visto la sua faccia.
“Non voglio trovare poveracci che, alla fine, dopo aver mangiato, dicono di non avere un centesimo per poter pagare la cena. Vi prego, signorine, faccio questo per la vostra serenità. Non è bene far sapere di non avere una moneta per pagarsi da mangiare…” ha esagerato. Secondo me questo vuole ritrovarsi con un segno rosso in faccia. La vicenda sta attirando le persone vicino al nostro tavolo. Perfecto…siamo la commedia del locale…che figura… Fabi alza un sopracciglio.
“Cortese da parte vostra pensare alla serenità di un paio di ragazze ma, prima di giudicare dai costumi, vi consiglio dichiarare alle interessate la somma riguardante la cena. In fondo, non credo che i vostri bocconcini le fate pagare a peso d’oro…” il tizio è morto. Rimane con un occhio un po’ più aperto dell’altro, la mascella spalancata e i capelli dritti. Mi sfugge una risata: Fabi vs Tizio Brutto. Fabi Wins! Il tizio fa calmare le mie risate con un colpo sul tavolo. Le persone qui vicino cominciano a ridere. C’è un vecchio alla mia destra che sembra sul punto di affogare nella sua stessa birra. Il tizio afferra Fabi per il braccio.
“Porta la gonnella fuori da qui, signori…” non fa in tempo a finire la frase che Fabi si libera dalla morsa e, non ho visto bene come, fa sbattere la testaccia del tipo contro il tavolo e lo immobilizza con un braccio dietro la schiena. Gli uomini qua vicino smettono di ridere e guardano interessati la vicenda. Al vecchietto sfugge uno ‘uh-uh!’.
“Altrimenti cosa, esattamente? Mi uccidi? Mi torturi? Cosa?” Fabi lo libera alla presa e lo sbatte vicino al vecchietto vicino a me. Il vecchio sobbalza. Il tizio è rosso dalla rabbia. Pensandoci bene, forse avrei dovuto iniziare da stasera la dieta…ora che mi guardo bene, in effetti, sono un po’ più rotonda di un mese prima.
“Giuro che ti faccio ammazzare, ingrata di una donna!” credo che sia arrabbiato da morire. Forse è meglio andarcene prima che qualcuno si faccia male per davvero…
“Ma sta zitto, Ambrogio! Lasciale mangiare qualcosa, soprattutto a questa che ha fermato le tue mani: è magra come una spiga secca. Pago io per loro due, anche per non farti lanciare bestemmie. Bada che abbiamo pagato per non sentire prediche questa sera” ha parlato il vecchio. Ora che lo guardo meglio, ha le guance un po’ rosse e, non beve, ingoia la birra a grandi sorsate. In confronto a tutti gli altri, credo che mi stia simpatico. Il tizio lo guarda, fissa per un po’ Fabi e gira i tacchi. Ringrazio con lo sguardo il vecchio.
“…la prossima chiamo le guardie…” mormora alla mia…erm…amica? Fabi fa finta di non aver sentito e lo guarda storto. Lei fa scendere il cappuccio. Anch’io faccio lo stesso col mio mantello. Ho trovato quest’abito in un piccolo spogliatoio e mi piace da morire! È semplice ma i ricami in oro sono articolati e interessanti, come i miei orecchini: è rosso, lungo fino a terra, con ricami d’oro, scollato, le maniche lunghe e con un mantello bordoeux con cappuccio. Fabi mi aveva detto che era un abito poco sfarzoso medioevale. Non fa niente: è pur sempre bellissimo.
“Allora, cosa vi porto?” spunta fuori una tipa molto robusta. Credo che sia la cameriera. Il vecchietto si fa avanti, dopo aver tirato un altro sorso di birra.
“No, Beatrice; ordino io per loro, visto che pago io…” bueno…non ci darà niente da mettere sotto i denti…perfecto…visto che paga lui… Tracanna un altro sorso.
“Allora, per la piccola una bella porzione di polpette con pinoli. Badate, però: un intero piatto; credo che non mangi da mesi. All’altra in rosso dacci un po’ di stufato; quello che fate voi coi funghi, intendete? Deve mangiare di meno; sono certo che questa stia mescolando troppi cibi nello stomaco” involontariamente mostro uno sguardo scioccato e un po’ offeso. Non ci credo. Anche lui si mette in testa che sono grassa! Ma perché tutto a me?! Fabi ha la faccia un po’ corrucciata. Credo che anche per lei essere definita anoressica, non sia stato un piacere. Ma meglio essere sottopeso che soprappeso. La donna sparisce dietro ad una porta e il vecchio, tutto contento per la sua buona azione, se ne ritorna al suo tavolo. Mi giro verso Fabi.
“Beh, ci è andata bene” abbozzo un sorriso. In effetti poteva andarci molto peggio. Potevano sbatterci fuori a calci, per esempio. Fabi è pensierosa. Credo sia qualcosa muy importante. E non credo che pensi alle parole del vecchio.
“Cosa c’è?” chiedo con tutta la voce dolce che posso. Non riesco ad essere gentile, ora che lei ha fatto girare tutta questa gentaccia che, se si guarda con più attenzione, ci stanno fissando un po’ male.
“Penso al tuo regalo, credevo che fosse qui” ancora con questo regalo? Sta andando un po’ troppo avanti con questa balla. Intanto la donna, con una velocità incredibile, ha portato qui i piatti e dell’acqua. Il vecchio si rigira con un grosso sorriso.
“Buon appetito, signorine!” Fabi ricambia con un cenno. Io no: sto fissando il mio piatto. Anche se lo stufato sembra buono, è in una ciotola troppo piccola. È un po’ più grande del mio pugno. Almeno è piena fino all’orlo… Fabi, invece, ha un piatto gigantesco con almeno una decina di polpettine. Mi sento male solo a guardarlo… Cominciamo a mangiare. Finisco quella sorta di zuppa in meno di un minuto. Intanto è arrivato sul palco un tizio vestito in bianco e con una maschera inespressiva, anche quella bianca. Tutti si girano verso di lui. Io devo ancora rendermi conto di quello che non sto mangiando. Fabi riesce a terminare una polpetta e mezza. Alza la testa.
“Mini, finiscile tu. Sembri morire di fame” non me lo faccio ripetere due volte: prendo il piatto e, senza troppa fretta, finisco tutte le polpette, anche la mezza mangiata di Fabi. Si sente musica di violino in sottofondo. Non l’avevo notato.
“Amico mio, senti qua. Questo è bravo”
“Gia, infatti, secondo me dovrebbe suonare in un posto migliore…”
“Sei matto? Meglio avere questo ragazzo nella nostra locanda! Immagina se andasse via”
“Gia, questa brodaglia non saprebbe di zuppa…”
Alzo la testa. La musica, in effetti, è molto bella. Non mi piace questo genere, ma, non so il perché, mi sembra terribilmente famigliare, tanto da piacermi. La melodia è dolce e ritmica. Sembra un misto di jazz con il violino, non so nemmeno come spiegarlo. Tutti gli uomini sono incantati di fronte a quel ragazzo vestito di bianco. Non si sente più nulla, nemmeno ci guardano. Tutti gli occhi sono puntati su quel tizio mascherato concentrato sul suo violino. Non so il perché, ma comincio a fissarlo anch’io, incantata. Mi piace la sua musica. Lui è giusto. Il suo violino è giusto. La sua musica è giusta.
Quasi non mi sono accorta che Fabi si era alzata dalla sedia e, come se le fosse stato impiantato un incantesimo, comincia ad avvicinarsi al palchetto.
“…Fabi, torna qui…!...ma che fai…?!” non mi ascolta. Mi sto preoccupando: non vorrà farci cacciare fuori? Ma non riesco nemmeno ad alzarmi dalla sedia. Se vuole essere buttata fuori a calci, che se ne vada solo lei. Rimane immobile di fronte, ma proprio di fronte, al tizio mascherato che, senza accorgersi di Fabi, continua a suonare. Qui finisce male… Ad un certo punto il ragazzo si accorge di lei e, anche se continua a suonare, la fissa interessato. Passa un po’ di tempo. Anche Fabi lo guarda intensamente.
“…ma che ci fa quella madonnina là vicino…?” diablos!
“…lo chiedi a me?...stai a guardare…” ecco, se ne sono accorti. Ora anche tutti gli altri uomini cominciano a fissare loro due che, come se fossero due piccioncini, si guardano negli occhi. Il musicista rallenta la musica, ma non credo che sia nel copione. Tutti lo notano. Vedo, poco lontano da me, il tizio brutto di prima e la donna che chiacchierano sottovoce indicando Fabi e il ragazzo con occhi di fuoco. Ok, è meglio fermare questa commedia romantica. Si, ma allo stesso tempo, non so come fare e cosa fare. La musica si ferma del tutto. Continuano a fissarsi. Tutti guardano quei due innamorati. Fabi fa uno sguardo seccato.
“Come? Ci siamo visti per due settimane e già dopo un mese non mi riconosci più?” il ragazzo fa cadere il violino per terra e si toglie la maschera.
Pequenia!”
Madre de Dios, Al!” questa volta sono stata io ad urlare.
Mi Dios, Mini!” Non m’importa se questi idioti mi guardano come se fossi rincretinita, non fa niente: è Al, Alejandro Sanz, di fronte a me. Corro verso di lui.
“Mini!” mi escono le lacrime dagli occhi.
“Al!” mi butto su di lui. Questa volta piango a fiumi. Lui mi prende al volo. È bello sentire la sua pelle sopra la mia. Mi è mancato tantissimo. Lui mi è mancato tantissimo.
“Mi sei mancato tantissimo!”
“Mini, non piangere o piango pure io!” in realtà sento gia la sua voce secca dall’emozione. Sento anch’io le sue lacrime sul mio collo.
“Non te ne andare mai più!”
“Non lo farò più, Mini, non sai cos’è successo…io…” lancio un urlo: qualcuno mi ha preso per le spalle e mi sta allontanando da lui. Vedo che anche qualcun altro sta portando via Al.
“Questo è troppo! Fuori da questo locale o chiamo le guardie!” Fabi fa un passo sopra al palco. Il tizio brutto dietro di me mi spinge su di lei e per poco non le cadevo sopra.
“Riprenditi questa sciagurata e ora fuori!” mi alzo indignata. Come mi ha chiamata quel bruto?! Mi sale la rabbia. Se non mi ridà Al, lo prendo a calci nei gioielli di famiglia, giuro! Anche Al sembra dello stesso parere. Si agita furioso con le lacrime di prima agli occhi.
Permìtame, animal!” si agita così tanto che, alla fine, riesce a liberarsi dal tizio dietro di lui con un calcio sul piede. Appena si libera mi raggiunge e si para di fronte a me mettendomi una mano d’avanti per impedirmi di raggiungerlo. E in effetti sono sul punto di assalirlo, quel maldito idiota. Tutti gli altri uomini fanno da spettatori: sono incuriositi per ciò che sta succedendo. Fabi schiocca la lingua, annoiata.
“Possiamo finirla con questi attacchi d’ira? Non credo che abbiano fatto chissà quale maleficio…” il tizio è furioso. Guardo per un attimo Al. Ha qualcosa di strano sul viso: ha un occhio rosso e un livido poco visibile sulla guancia destra. Mi sale ancora di più la collera.
“Non lo avrai mica picchiato?!” il tizio non mi degna di uno sguardo. Lo prendo automaticamente per un si.
Maldito…!” non finisco la frase che Fabi mi fa cenno di stare zitta. Non mi faccio comandare da lei. Sto per ricominciare ad insultarlo, ma anche Al mi fa lo stesso cenno. Mi guarda preoccupato. Mi calmo un po’. Ma non ho ancora finito con lui. Nemmeno io posso picchiare mio fratello.
“Prima di tutto, per quale motivo questo ragazzo vi sta facendo da musicista?” il tizio risponde subito.
“Stava girovagando a vuoto con una bambina da queste parti. Chiedeva dei soldi e l’ho accontentato. Però non potevo dargli da mangiare senza qualcosa in cambio. Gli ho fatto suonare il violino ed eccolo qui, nella mia locanda… La peggiore canaglia dell’isola!” Al fa una faccia sdegnata.
“Veramente ti ho fatto gratis tutto il lavoro. Non mi davi mezzo spicciolo nemmeno per comprare un vestito per Perla!” Perla?
“Ti pagavo benissimo. Dopotutto, ad un negro non devo dare molto…”
“A chi hai dato del negro?!” sono ancor più arrabbiata. Questo qui deve morire. Deve morire… Fabi incrocia le mani dietro la schiena. Il suo sguardo s’incupisce ancora di più.
“…colonie americane…inizio ‘700…emigrato italiano…” la sento sussurrare queste cose a nessuno in particolare. Credo stia pensando.
“Cosa?”
“A voi non piace il nero, mi pare” quello fa un fischio.
“A chi non piace…”
“E vi siete trovato un meticcio per strada e, ovviamente, lo avete accolto in casa vostra; visto che questa locanda la utilizzate anche come casa, data la vostra condizione… Mi sorprende la vostra intelligenza…” quello sembra sdegnato più di me. Meglio così. Brava, Fabi, così impara ad insultare noi Sanz.
“Hai deciso di fare la serpe in questo mondo? Scusa, ragazzina, ma se tu non hai momentaneamente dei soldi, chi chiami? Ovviamente coloro che ne chiedono pochi!” Al perde la pazienza.
“Io non chiedevo pochi soldi! Non volevi neanche lasciarmi dormire qua dentro, pezzente!” quello alza la testa con superiorità.
“Quindi ritorniamo alla questione del colore nero. È certo che voi lo detestate?” quello fa cenno di si a Fabi. Lo odio. Lo odio. Fabi annuisce tra sé e sé.
“Perfetto. Allora pulisciti le mani” dice con voce da serpente. Il tizio sembra confuso. Io e Al ci sgonfiamo, non del tutto, dalla rabbia e guardiamo Fabi con perplessità. Cosa intende dire?
“Cosa?”
“Le vostre mani sono sudice di nero, credo fuliggine, e avete appena affermato di detestare il nero. Non vedo perché dovreste averlo anche sulle mani” tutti gli uomini lanciano sguardi divertiti verso il tizio e verso i vicini di tavolo.
“Questo non c’entra niente”
“C’entra, eccome. Quindi posso facilmente ammettere che voi abbiate mentito”
“Cosa?!”
“Esattamente. Mi pare ovvio, non trovate?” poi si gira verso il ‘pubblico’. Il tizio è rosso dalla rabbia e dall’umiliazione, ma è allo stesso tempo scioccato da ciò che sta accadendo e sembra sul punto di voler strangolare Fabi. Non so cosa stia pensando Al, ma io mi sto godendo tutto ciò che sta accadendo.
“Gentili signori” disse alzando la voce “ora sapete per certo cosa sta accadendo dietro a questo sipario, qua dietro il palcoscenico. Ogni giorno, da probabilmente un mese, questo giovane ragazzo di quindici anni sta subendo maltrattamenti da parte del suo dirigente, qui vicino a me. È una vergogna per tutti noi, soprattutto per questo suddetto uomo. Chissà quali altri crimini ha commesso ad altri ragazzi o bambini, prima che facesse la sua comparsa in questo mondo. Chissà quante vite innocenti furono distrutte per un delitto che non riguarda questi poveri cristiani: la pelle nera…”
“Oh, ma sta zitta!” il tizio è, non rosso, nero dalla rabbia. Tiè, eccoti l’umiliazione. Sono felicissima per quello che sta dicendo Fabi, anche se non sembra molto contenta: è sempre indifferente e cupa. Il tizio se ne va dietro ad una porta. Gli uomini che ci fanno da pubblico sembrano divertirsi un mondo, mentre altri, quelli più in fondo alla locanda, sembrano interessati alla vicenda. Il tizio ritorna e mostra, buttando le mani di fronte al viso della mia amica, il suo grande sacrificio.
“Sei soddisfatta?”
“Non del tutto. Vedo ancora del nero in giro…proprio sopra la tua testa” ed è così: i capelli di questa bestia sono neri più delle mani sporche che Fabi gli ha costretto di lavare. Il tizio sembra confuso. Dopo aversi preso una ciocca di capelli e dopo averla messa di fronte all’occhio destro, capì.
“I miei capelli? Tu sei pazza, ragazzina!” Fabi lo guarda annoiata. Dietro di lei si sentono le voci degli altri uomini che, vista la comicità in questa scena, hanno deciso di vedere a che punto è intenzionata ad arrivare questa piccola furfante.
“Ambrogio, non rimangiarti la parola, bisogna togliere ogni traccia di nero!”
“Si, Ambrogio, vedo tanto nero!”
“Codardo, cosa sono un ciuffo di pelliccia sulla testa?”
“Mica ti cade la corona dal capo…”
“Che uomo meschino…”
“Spero che mio figlio non diventi come te” e giù le risate. Il tizio è quasi sul punto di suicidarsi, secondo me. Guardo un attimo Al: è felicissimo, si gode la scena più di me. Chissà quante volte ha desiderato questo momento!
“Beatrice, tagliami i capelli” dice girandosi verso la donna nascosta in un angolino vicino al palco. Quella, spaventata per la faccia di lui, indietreggia.
“Io…n-non…”
“Va bene, faccio da me!” detto questo prende un coltello da cucina dalle mani della donna e, in malo modo, comincia a rasarsi la testa. Fa un lavoro indecente: spesso taglia anche brandelli di pelle e anche…carne. Mi copro gli occhi, fa troppo schifo. Al si mette una mano sulla bocca. Fabi continua a fissare l’uomo con sguardo inespressivo, ma di fuoco. Sembra che i suoi occhi brillino di luce propria. Vedo un colore insolito: un misto di marrone e verde con delle macchie azzurrine. Non posso fare meno di notarlo.
Gli uomini, non vedendo bene il lavoro schifoso sulla testa del tizio, cominciano ad esultare e ad applaudire facendo fischi e alzando le mani. Fabi fissa Al per un secondo e gli fa cenno di guardare. Guardo anch’io con lui. Appena mi sono girata ho socchiuso le palpebre e mi sono messa le mani d’avanti alla faccia: la testa di lui, oltre ad essere rasata a zero, è anche ricoperta di sangue che scorre come acqua sul suo viso. Non so se essere disgustata oppure felice. Certo, sono felice che lui abbia scontato la pena ma, allo stesso tempo, non so se sia il caso di dire a Fabi di finirla. Gli uomini dietro di noi scoppiano a ridere. Il tizio ha la testa a penzoloni, cercando di nascondere il suo viso. Si mette in ginocchio e butta lontano il coltello insanguinato. Credo che gli giri la testa.
“…c’è dell’altro…?”
“Certamente” dice e comincia ad avvicinarsi lentamente a lui. Sembra molto più grande Fabi in questo momento. Gli prende la testa rasata e rossa con una mano e, con l’altra, gli indica un punto preciso del viso.
“Voglio che tu tolga questo nero dai tuoi occhi” io e Al ci guardiamo. Non abbiamo capito. Gli uomini dietro di noi alle prima file tacciono, gli altri, che non hanno sentito o hanno sentito male, stanno sgomitando per chiedere cosa ha chiesto Fabi. Il tizio spalanca gli occhi. È terrorizzato. Stiamo andando troppo oltre: credo di aver capito cosa vuole Fabi.
“…Fabi, basta…giriamo i tacchi e andiamo via…” chiede Al con un sussurro. Anch’io le faccio cenno verso la porta di entrata. Credo che abbiamo esagerato… Fabi si gira verso di noi lentamente. Ha sempre il suo solito sguardo, ma con qualcosa di diverso negli occhi, ma non so cos’è. Lei si rigira di nuovo verso il tizio pieno di sangue. Si sta formando una pozzanghera ai suoi piedi. Mi metto una mano d’avanti alla bocca, disgustata. Credo di aver visto dei brandelli di carne vicino ai suoi piedi.
“Ringrazia il ragazzo per non averti cavato gli occhi” dice e molla la testa del tizio che quasi la sbatte per terra. La mano sinistra di Fabi è bagnata di sangue, ma lei sembra non accorgersene. Comincia ad avviarsi verso l’uscita e anche noi la seguiamo, cercando di ignorare gli sguardi perplessi e delusi degli uomini. Vicino all’uscita vedo il vecchio di prima, ma senza rosso in faccia e senza boccale di birra che, in confronto agli altri, ci guarda quasi orgoglioso.
“Per me sei sempre comunque un negro…” Al si ferma. Si gira verso quel cane sul palco e lo fulmina con lo sguardo. Anch’io e Fabi ci fermiamo, ma io, in confronto a lei, mi volto.
“Cosa hai detto?” siamo tutti e due arrabbiati. Questa volta lo trituro io stessa. Infatti mi sto avviando verso il palco per dargli un sonoro e rumoroso calcio in faccia. Una mano molto forte mi pianta al terreno. Fabi mi supera e si avvia verso il tizio. Arriva al palco e lo raggiunge. Ad un certo punto fa un veloce scatto in avanti arrivandogli proprio in faccia e…quando ha preso quel coltello?
L’uomo cerca di prendere Fabi e si rialza, ma ormai è fatta. Lei gli conficca il coltellaccio nell’occhio. Mi paro gli occhi: è troppo disgustoso, anche se se lo merita. Al fa lo stesso. Non posso fare a meno di sbirciare. Tutti sono impietriti. Fabi riprende il coltello. Il tizio tira un grido molto acuto. Dopo averlo estratto macchiandosi il grembiule di sangue, Fabi conficca di nuovo la lama in un altro occhio che poi tira fuori di nuovo ma con più lentezza. Per finire gli dà un calcio poco potente al centro del petto che lo fa ruzzolare dietro le quinte. C’è sangue ovunque. Anche sulle braccia di Fabi, sulle maniche del vestito e sul palco. Si sentono piccoli gridi di dolore da là dietro. La donna Beatrice guarda la scena mormorando qualcosa come: oh, mio Dio…dove siamo capitati, dove siamo capitati…? Dovrei essere triste o infuriata con Fabi, ma non ci riesco. Penso che se lo meritava. Ma non mi spunta nessun sorriso come al solito. Lo stesso per Al: se lo meritava, ma non è qualcosa di cui ridere. Fabi, con uno straccio strappato dalle mani dell’impietrita Beatrice, mentre ripulisce il coltello, alza la voce.
“Bene, signori, credo che questa sia una buona lezione per tutti noi: anche se l’aspetto inganna, sotto la nostra pelle, dopotutto, siamo tutti uguali. Che lo teniate in mente. Tutto considerato, non siamo mica gentaglia medioevale che appicca gente ad un rogo soltanto perché credevano che fossero improbabili streghe, o sbaglio?” il vecchio ride di gusto e applaude felicissimo. Tutti gli altri sono pietrificati di fronte a Fabi e, forse, hanno anche paura di lei. Detto questo, Fabi rimette il coltello nella tasca del grembiule, scende dal palco e, con una insolita eleganza che non avevo mai notato in lei, si avvia verso l’uscita. Noi la seguiamo anche fuori dalla porta. Nonostante non ci vediamo da quasi un mese, non riesco a dire niente di bello ad Al, lo stesso per lui. Non riesco neanche a guardare Fabi dopo quello che è successo.
“…perfetto…vi ho anche traumatizzati…” Al alza lo sguardo.
“Fabì, secondo me hai fatto una cosa giusta. Non perché sono io, ma per quelle cose razziste. Dovrebbero farlo a tutti quelli che maltrattano le persone solo perché hanno la pelle diversa dalla loro” su questo anch’io annuisco. È giusto: siamo tutti uguali, non ci sono differenze fra di noi, neanche per il colore della pelle.
“Farò finta di crederti. Solo di una cosa mi pento”
“E di cosa?”
“Di aver sporcato il vestito” fermiamo i piedi e ci guardiamo negli occhi.


…io ed Al scoppiamo a ridere. Fabi fa un mezzo sorriso.
“Sono seria: sono disgustosa e piena di sangue!” è vero. Il suo vestito è quasi del tutto bianco, tranne per qualche macchiolina di sangue, ma il grembiule è bagnato di rosso. Al si avvicina a lei e, tra le risate, inizia a parlare.
Ven comigo. Andiamo vicino al fiume, ti aiuto a lavarti un po’”
 
 
 
 
 
Siamo vicini ad una baracca fatta di legno e lenzuola. Al è un po’ più avanti di me che aiuta Fabi a lavarsi le mani e le braccia nel fiume poco lontano da me. Io sono incredula. Cos’è questo posto? C’è anche un gigantesco materasso matrimoniale con toppe rosse e blu e un lenzuolo che sembra essere la cosa più pulita di questo postaccio.
“Ma, Al, tu vivi qui?” non lo vedo in faccia, ma so che è imbarazzato.
“Si, Mini…lo so: è una schifezza” i suoi capelli sono cresciuti molto in questo mese. Prima li aveva rasati a zero ai lati e con un corto ciuffo al centro della testa. Ora, invece, sono molto lunghi. Nel frattempo si era cambiato i vestiti: tolto il costume bianco, si è messo un paio di pantaloni di pelle scura, strane scarpe nere, un surcotto verde scuro (così Fabi lo ha chiamato) lungo fino al ginocchio e con maniche lunghe, però sembra di una taglia più grande e un mantello molto lungo e nero che Fabi ha chiamato ‘tabarro’. Beh, almeno quel mantello lo protegge dal freddo…
“Come ci sei finito qui?” Fabi si asciuga le mani sbattendole per aria: non c’è un asciugamano; anche se si è lavata le mani, il grembiule è sempre sporco. Al si mette a sedere sul materasso e ci fa cenno di seguirlo. Ci sediamo.
“È una historia muuuyyy lunga”
 
 
 
 
“…e così siamo scappati dall’ospedale. Poi, senza farci vedere, ci siamo buttati nella foresta. Poi abbiamo trovato questo posto. Noi due stavamo morendo di fame e sete e nessuno voleva aiutarci, tranne lui. Abbiamo accettato di suonare e ballare in quella baracca. Poi però, la settimana scorsa, mi sono stufato e mi ha trasformato la faccia così. Fin de la historia” sono un po’ perplessa da tutto quello che è successo e, soprattutto, mi sento male ad aver mandato Al da solo a cercare un kit dell’infermiere che in realtà non esisteva. Mi faccio ancora più schifo, soprattutto perché Al ha affrontato tutte queste cose da solo. Senza di me.
“Bene, possiamo iniziare le domande. Quella bambina, dov’è andata a cacciarsi?” chiede Fabi.
“Me lo sto chiedendo anch’io. Stasera quel cornudo l’ha minacciata e se n’è andata via piangendo”
Què? L’ha minacciata?” Al annuisce con convinzione. Sembra un po’ stanco.
“Già. Secondo lui non ballava bene”
“Ah…” restiamo in silenzio per un bel po’ di tempo. Al sospira. Esce anche a me un sospiro.
“Beh, io non ci torno più laggiù. Ho chiuso con queste cose” Fabi poggia gli occhi su di lui.
“Non sapevo che suonassi il violino” spunta sia a me che ad Al un sorriso. Ci lanciamo uno sguardo complice.
“Non solo quello, Fabi. Anche la chitarra, la batteria, il pianoforte, il flauto…” ho perso il conto di quanti strumenti sa suonare Al.
“So suonare qualsiasi strumento che mi metti in mano. Anche quelli più strani” dice con una nota d’orgoglio.
“Mi ricordo quella volta che siamo andati in Scozia…” Al si accende.
“Ah, si! Ero piccolo, però. Ma sono riuscito a suonare la cornamusa. Il tizio con la gonna, il proprietario dello strumento, aveva chiesto ai miei se fossi un bambino genio o uno scozzese!” scoppia una risata generale mia e di Al. Sono belli questi ricordi, ci serviva proprio uno di quelli. Fabi, invece, è sempre impassibile, ma un po’ più serena.
“Quindi hai l’orecchio musicale…è un dono rarissimo, lo sai? Potresti avere già un lavoro in tasca” Al scuote la testa.
“Non credo: papa non me lo permetterà mai. Vorrebbe che diventassi avvocato come lui, oppure un medico come mama…” annuisco a mia volta. Ragionare con papa sui lavori che faremo da grande è impossibile: ha già un piano per noi e non ha intenzione di distruggerlo. Anche se a me non interessano i suoi piani futuristici.
“E tu, quindi, ti fai frenare da tuo padre?” chiede con tono perplesso, falso ovviamente.
“Ma no! Mica mi faccio dire cosa voglio o non voglio fare. Ma, dimenticando tutto questo, non è facile sfondare nel mondo della musica” anche questo è vero. Ritorna il silenzio, anche se breve, ritorna.
“Comunque, a voi cos’è successo? Come avete fatto ad avere queste figate?” chiede indicando i nostri vestiti “questi sfondano di brutto, altro che questo sputo di stracci!” Fabi inizia a raccontare.
 
 
 
 
“…quindi puoi venire con noi e stare con i Guardiani al teatro. Ti piace l’idea?”
“Se mi piace? La amo!” non ci credo: ha preso tutta la notizia con piacere, inclusa quella di Calm e di Kolja. Non si è sorpreso per niente. C’è qualcosa che non va…
“Ma tu sapevi già tutto?” lui annuisce velocemente. Me l’aspettavo.
“Si, Perla mi ha raccontato tutto tipo…il mese scorso. Però non volevo crederle e avevo fatto finta di fidarmi. Credevo che stesse scherzando, cioè, è una bambina! Anche se più avanti, ho pensato che: dai, siamo in un posto portati qua da uno strano incantesimo, all’Inferno (che di Inferno non ha nulla), ho visto dei bambini che si trasformavano in fantasmi, diablos! Ormai non mi sorprende più nulla! E poi, chi mi dice che non sia vero che qua ci siano anche Babbo Natale e il Coniglio di Pasqua? E poi, penso ancora: e perché Perla non deve avere ragione? Sarà anche una bambina, ma ne sa più di me!” da come ha parlato di questa Perla, sembra una bambina molto paurosa e timida che non parla mai e che si spaventa per nulla. Non può eguagliarmi. Non può sostituirmi.
“Sentite, andiamo a cercarla. Non riesco a lasciarla qua da sola al buio. Non voglio che passi un altro mese da sola. Può venire con noi, al teatro?” chiede speranzoso a Fabi. Sembra quasi un bambino che chiede un dolce alla madre. Lei lo guarda con sufficienza.
“…dipende…”
Perfecto! Andiamo a cercarla!” dice, interrompendo Fabi e cominciando a camminare verso la mula che, non so proprio come, ci ha seguiti. Lo seguo anch’io a tutto gas. Fabi ci raggiunge con un po’ di ritardo. Mi siedo sulla mula. Al sembra indeciso. Fabi ci raggiunge.
Què succede?” chiedo ad Al.
“Non so…l’asino mi guarda male…” la mula fa uno sbuffo tanto inatteso quanto potente che becca proprio in faccia mio fratello. Scoppio a ridere e anche Al, dopo aversi tolto lo sputo di mula addosso.
“Ma che ha fatto?”
“Credo che si sia offesa. Non le piace farsi chiamare ‘asino’, credo che preferisca mula, oppure Yaja…” lo dice con una serietà quasi sconvolgente. Mi rimetto a ridere. Bello scherzo, Fabi.
“Non male come battuta, Fabi! Va bene, d’ora in avanti ti chiamerò Yaja!” detto questo dà una pacca sulla testa alla mula che, visto che si è offesa di nuovo, agita la testa e la sbatte contro la mano di Al. Mio fratello si rimette a ridere e gli sale sopra.
“A quanto pare dovrò andare a piedi…” mormora Fabi e, prendendo una ciocca di pelo della mula, la guida per andare avanti. Dopo un po’ Fabi apre la bocca.
“Dove credi sia andata?”
“Credo per il bosco: va spesso laggiù, forse poi capiamo dov’è andata di preciso”
“Uh…? Nel bosco? Una bambina che va in un bosco? Da sola? Spesso?” dico io. Al alza le spalle e annuisce, un po’ impacciato. Prendiamo la strada per il bosco e arriviamo laggiù in breve tempo. Dopo aver girovagato e preso un sentiero dopo l’altro siamo arrivati a questo punto: la strada si divide e forma due vie, entrambe buie ed inquietanti. In mezzo c’è un cartello: a destra c’è scritto “Island Capital” e a sinistra “Neglected Castle”. Quest’ultimo cartello sembra stia sul punto di cadere dal palo.
“Non m’ispirano nessuna delle due…” mormoro abbattuta. Trovare quella bambina sarà muy complicato. I miei occhi si spostano verso la sinistra. C’è qualcosa per terra, ma non riesco a vedere cosa. Al si catapulta giù e va a recuperare quella cosa. Ce la mostra: una collanina con una perla color confetto. Al ritorna sulla mula.
“Andiamo per di là” dice sicuro, indicando la sinistra.
Què significa?” mi mostra la collanina tenendola in mano come se fosse fragilissima.
“Questa è di Perla, credo che l’abbia persa mentre andava verso il castello. Dobbiamo andare laggiù” Quasi non mi sono accorta che Fabi aveva fatto ripartire la mula verso il Castello…non lo so. Che cacchio vuol dire Neglected? Forse è il nome del castello?
“Fa un po’ ridere: una bambina di nome Perla che porta una collanina con una perla. È divertente!” mi sorride. Mi piace il suo sorriso. È molto simile al mio soltanto che è molto meglio, secondo me.
“Già, ed è per questo che si chiama Perla” rimango un po’ perplessa.
“Cosa vuol dire: ‘è per questo che si chiama’?”
“Si, lei mi aveva detto che prima aveva un altro nome, ma poi ha dovuto cambiarlo per…non lo so… e così, benvenuta, Perla” rimango basita.
“Ha cambiato nome?” lui alza le spalle con nonchalance.
“Così ha detto. Un po’ non la capisco: dice cose strane, qualche volta si nasconde da me, le fa paura il sole, si nasconde sotto gli ombrelli neri…non è del tutto normale” vedo con la coda dell’occhio Fabi che si rigira lentamente. Rimango in silenzio. Quando si gira di nuovo ricomincio a parlare.
“…non dire più la parola normale
“…por chè…?” mi spunta un altro sorriso. Indico con gli occhi Fabi.
“…mi aveva fatto la ramanzina su cos’è normale ed è meglio se non ce la rifà di nuovo…”
“Vi sento, Sanz” sobbalziamo. Come diablos ha fatto a sentirci? A noi non piace che qualcuno ci chiami per cognome: è troppo…formale, distinto, non amichevole e da adulti.
Excusame!” gridiamo in coro.
“…niente male…” sussurra dopo un po’ tra sé. Alziamo automaticamente lo sguardo. A momenti avevo un colpo. Il castello è di fronte a noi.
Non sembra il castello incantato che di solito vedo nei film della Disney con Cenerentola and company. È…inquietante. Credo che Dracula abbia avuto una cosa simile a questa. Spunta sopra ad una collina, ma è talmente grande da sembrare la stessa collina. In lontananza non sembra nemmeno un castello: non è ‘unito’ come tutti i castelli che ho sempre visto; ci sono delle torri lungo la strada sparate lontane l’uno dall’altra, una più alta di quella di prima, ma collegate a sé con due piani di mattoni di roccia che, pian piano, raggiungono il vero e proprio castello ovvero la parte più in lontananza, cioè quel che sembra per davvero un castello. Man a mano che ci avviciniamo, noto che non è possibile superare quelle torri: da una parte c’è lo strapiombo con sotto l’acqua del fiume e dall’altra parte un intero campo di rovi alti quanto gli stessi piani di roccia che collegano le torri l’un all’altra. Ma anche se non ci fossero questi due problemi, non credo che si possa passare direttamente verso il “centro”. Dobbiamo per forza entrare dentro.
“Credo che dovremo entrare per la prima torre” dice Fabi, prendendo e mettendo dietro la schiena la spada. Deglutisco. Credo che ci vorrà un po’ per arrivare fin laggiù… E tutto per una nina persa nel bosco. Chi può dirlo se è laggiù? Forse non è passata nemmeno da questa parte.
“Controlliamo solo questa torre poi, se non c’è nessuno, usciamo e andiamo da qualche altra parte” dice Fabi guardando con attenzione il castello. Mi ha letta nel pensiero. Entriamo dentro lasciando la mula fuori. Saliamo le scale e ci ritroviamo in una gigantesca hall. È molto più bello che da fuori: tutto è lussuoso, ma non quel lusso che vedo nelle case dei vip in tv, ma in quel lusso antico che vedo nei film dell’Ottocento. Faccio dei passi avanti. Mi piace tantissimo. Ci sono due lampadari con le candele che spero che sia oro quello che vedo. Poi ci sono delle sedie molto grandi e delle panche gigantesche anch’esse in oro. E la libreria che tocca il soffitto ed è grande quanto una parete…
“Sanz!” mi fermo. Perché Fabi mi guarda in quel modo? Cos’ho fatto di sbagliato?
Què?” avevo preso un colpo: lei mi ha praticamente urlato addosso.
“Vieni qui. Prendimi la mano. Anche tu, Al” il modo in cui lo dice è molto diverso dallo sguardo indifferente di sempre. Sembra qualcosa di importante. Prendo la sua mano e anche Al fa lo stesso. Siamo confusi.
“Seguitemi. Ma non toccate il tappeto” guardiamo sotto di noi. Solo ora mi sono accorta che per terra c’è un tappeto grande quasi quanto la stanza. Ora stiamo camminando in fila indiana, senza toccare il tappeto rosso e rovinato. Arriviamo, camminando ai bordi della hall, dall’altra parte della stanza, dove c’è una grande porta ma non è lussuosa e bella come il resto della stanza.
“Tenete aperta la porta. Non chiudetela per nessuna ragione” lo dice con un tono talmente serioso che ubbidiamo.
“Bene. Ora potete vedere cosa succede quando non mi ascoltate. Che questo v’insegni ad ubbidirmi senza fare domande d’ora in avanti” ma che diablo dice? Ci fa segno di guardarla. Prende il bordo del tappeto rosso e lo scuote un po’.
Ai lati della stanza si formano degli spilli appuntiti di circa un metro di lunghezza. Con grande velocità la stanza sembra chiudersi su sé stessa. Fabi, prima che quella macchina distruttrice la triturasse, si tuffa su di noi e ci sbatte dentro la stanza. Sento il mio cuore battere a mille, solo ora mi sono accorta per davvero cos’è accaduto. Fabi sbatte la porta dietro di noi. Da dietro di essa si sente un potente tonfo, come se dei grossi massi si fossero scontrati l’un l’altro. Mi tremano le mani. Cosa diablo ci stava per accadere? Cosa sarebbe potuto accadere se non fosse stata con noi Fabi? Anche Al trema molto. Ci giriamo in sincronia tutti e due verso di lei. Fissiamo il muro dietro di noi: la porta è scomparsa. Anche Fabi lo nota, ma non sembra per niente sorpresa.
“C-come ha-ai f-fatto a-a cap-pirlo?!” chiede Al.
“Semplice: ogni oggetto nella stanza era di materiale prezioso, solo il tappeto era una carcassa morta” scuoto la testa scioccata. Non è possibile che l’abbia capito solo lei. Non è possibile.
“M-ma p-perché q-questo a-a n-noi?” lei alza le spalle.
“Probabilmente qualcuno vuole che la propria dimora non sia attaccata o visitata da nessuno. Questa trappola era piuttosto prevedibile, però” dice ricoprendosi la testa con lo scialle. Non è possibile. Potevamo morire!
“P-potevamo m-mor-rire!” si gira verso di noi, annoiata.
“Guarda, Alejandro, non ci sarei mai arrivata senza il tuo aiuto…” e sospira. Ancora non ci credo.
“Ma ora, come torniamo indietro?” chiedo spaventata. Non voglio morire. Non voglio… Volevo solo aiutare Al a cercare quella maldita Perla.
“Non ne sono sicura, ma credo che dovremo continuare” spalanchiamo gli occhi.
“Dobbiamo andare avanti?!” chiediamo insieme.
“Si”
“Ma come faremo?! Se ci sono trappole come queste, allora siamo già morti!” lei alza un sopracciglio.
“No, ragazzi miei, se non mi seguite ed ubbidite, allora siete morti. Ho notato che non riuscite a capire quale sia la differenza tra una trappola ed un tappeto. Credo che dovrò dirigere io il gruppo per una volta. Quindi, se vi ordino di scappare, dovrete scappare; se vi ordino di seguirmi, dovrete seguirmi; solo se vi ordino di morire, allora potrete morire” siamo sbigottiti. Forse è meglio lasciare il comando a Fabi. Se morirà, sarà colpa sua. Ma cosa cacchio sto pensando…? Se muore, allora siamo morti anche noi!
“Ma…perché tutto questo…?” sospira amareggiata.
“Non ve l’ho già spiegato? Qualcuno non gradisce la nostra compagnia in questo castello e ha deciso di utilizzare il metodo più semplice per buttarci via: uccidendoci. Ma ora seguitemi, credo che ci metteremo un po’ di tempo per arrivare fin al centro di questo posto…”
  
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