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Autore: Aries K    05/10/2014    2 recensioni
Quando la giovane Emily Collins mette piede nel collegio più cupo e spaventoso di Londra non sa che la sua vita sta per cadere in un mondo oscuro fatto di sangue e creature che credeva vivere solo nei suoi incubi. Quando pensa che la sua esistenza non possa cadere più in basso di così incontra William Delacour, figlio della temibile preside Jennifer Delacour. William -così enigmatico e onnipresente in quel convitto esclusivamente femminile- nasconde un segreto che sembra coinvolgere anche la giovane. I due non potranno che avvicinarvi anche se, non molto lontano da loro, qualcuno cova una centenaria vendetta che sembra non volersi compiere...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quarto Capitolo







Salii le scale deserte tirate a lucido più veloce della luce, con ancora il suo sguardo che m’inseguiva. Solo quando fui di fronte alla porta della mia stanza mi chinai per riprendere fiato, sostenendomi contro la parete.
Un’ombra si mosse dietro di me, facendomi trasalire. Mi voltai e vidi Nicole.
-“Sei qui!”, esultò, allargando le braccia al cielo, per poi farle ricadere sui fianchi.
-“Jamie non ti ha detto dove ero andata?”
La sua espressione precedette qualsiasi tipo di risposta.
-“Sicuro! Ma la campanella è suonata da un bel po’ e tu ancora non ti eri fatta vedere in giro, quindi ho ritenuto opportuno venirti a cercare. Per tua fortuna, la preside è ancora fuori.”
-“Oh. Bene, allora. Qualcuno si è accorto della mia assenza?”, le domandai aprendo lentamente la porta. Lei scosse la folta chioma tirando in su il pollice, segno che l’avevo fatta franca.
Mi lasciai andare ad un sospiro di sollievo.
E poi la giornata fu un susseguirsi di studio, ripassi e pettegolezzi. Non raccontai molto a Jamie e Nicole, a parte che William se ne sarebbe andato e che quindi, qualsiasi supposizione circa il suo interessamento per me era vana poiché lui non mi lasciò ad intendere un bel niente. Non che me l’aspettassi. Probabilmente, il dover portare una ragazza a colazione fuori faceva parte di una scommessa sancita con il suo gruppo di amici in Francia. La missione.
Scossi il capo decisa a non pensare più a quanto bene mi fossi sentita, alle sensazioni che mio malgrado avevo provato e che non si sarebbero potute più ripetere.
Al termine di quella Domenica che si rivelò più apatica di un giorno infrasettimanale mi accomodai meccanicamente sulla sedia del mio tavolo. Non so perché ma quella sera i miei mesti pensieri s’indirizzarono anche al tavolo delle ragazze dell’ultimo anno. C’erano una netta differenza tra quelle del primo –ancora spontanee, azzarderei dire sorridenti- e quelle dell’ultimo anno –impostante, più bianche del normale e maledettamente serie. Mi ricordarono un ammucchiamento di bamboline da cariòn, private di qualsiasi forma di emozione, solo se azionate avrebbero potuto trasmettere qualcosa. E nel collegio, a lungo andare, si poteva solo trasmettere la sottomissione. Mi domandai con un pizzico d’angoscia se col passare degli anni avrei perso le mie buone speranze diventando così triste e impostata, come se qualcuno mi avesse strappato dalla pelle l’adolescenza e le belle cose che continuavano ad esistere fuori di qui.
A differenza dei nostri miseri pasti, il lungo tavolo degli insegnanti era imbandito di vere leccornie, le quali non potrei elencarvi senza svenire nel ricordare quanto il mio stomaco patisse in quei momenti. La sua concezione del distaccarsi dal piacere effimero del cibo, in modo da poter controllare la nostra volontà senza divenire schiave era un concetto che non riuscivo per niente a far mio.
Tutta quell’accozzaglia non facevano che rallentare i miei pensieri; il lato positivo di questo era che ero giunta all’ultima sofferta polpetta e non essermene accorta.
Così come non mi ero resa conto che Nicole stava imprecando velocemente e sottovoce.
-“Non posso crederci”, disse poi, sporgendosi oltre me per rivolgersi a Jamie. Mi voltai verso quest’ultima che mirava un tavolino distante dal nostro, verso quello dei professori. Seguii il suo sguardo ma tutto ciò che vidi furono altre teste girate verso quel punto.
-“Che sta succedendo?”, chiesi, nel momento in cui scorsi la testa riccia della Galdys attraversare la stanza.
-“Agnese Ginobili è nei guai”, mi spiegò Jamie.
-“E perché?”
Agnese era più piccola di me di un anno, frequentavamo le lezioni di musica e mentre io mi limitavo a nascondere il mio talento per il pianoforte (nessuno ad eccezione di William sapeva questo) lei ci deliziava alla chitarra, la sua più grande passione. Ed era davvero brava.
-“L’hanno beccata mentre passava di nascosto parte del suo piatto.”
Riuscii ad indietreggiare con la sedia fino a vedere la scena immonda che stava per verificarsi.
La Galdys aveva raggiunto il tavolo, bellicosa, e stava chiedendo spiegazioni sia ad Agnese che alla vicina, la quale, impietrita, boccheggiava anziché rispondere. Come se non bastasse, con la coda dell’occhio vidi la Delacour alzarsi e raggiungere le due, affiancandosi alla Galdys. La loro differenza di statura mi fece abbozzare un sorriso… sorriso che morì subito.
Perché successe l’inverosimile.
Solo alla vista di ciò a cui stavo assistendo mi venne un conato di vomito. Alcune teste si voltarono, tornando a trincerarsi dietro l’indifferenza, altre erano bloccate a guardare con una maschera di rifiuto sul volto. La preside infilzò una delle polpette che Agnese aveva passato sottobanco alla compagna e gliela avvicinò senza scrupolo alla bocca, ordinando di mangiarla. Per rincarare la dose, la Galdys non stette con le mani in mano e andò a reggere la testa della ragazza.
-“E che diamine! Non posso guardare”, esclamò Jamie voltandosi, le orecchie rosse di collera e gli occhi lucidi.
-“Mangia! Signorina Ginobili non è forse vero che rifiutare il cibo è peccato?”
-“La prego”, singhiozzò Agnese,-“ho mal di pancia. Non ci riesco, per favore. Mi dispiace tanto…” Non fece nemmeno in tempo a terminare la sua supplica che la Delacour le aveva avanzato, ancora, la forchetta contro le labbra. Quando Agnese fu vittima di un conato di vomito, reggendosi ai bordi del tavolo facendosi venire le nocche delle mani bianche, io non stetti più ferma e mi alzai. Nella sala si sentì il fiato di alcune ragazze mozzarsi.
-“Emily, dove pensi di andare?”, domandò Nicole guardandosi intorno con occhi sgranati. Jamie alzò lo sguardo verso di me, e persino Camille parve volermi dire di mettermi seduta e non fare la sciocca. -“Non si può far subire tutto questo. Non lo vedete che è inumano?”, dissi a voce fin troppo alta, ma la Delacour e la Galdys –sostenute dal silenzio degli altri insegnanti al tavolo, che preferivano osservarsi le mani intrecciate sul tavolo anziché porre fine a quella scena- erano troppo occupate per accorgersi della mia voce fuori dal coro.
-“Non puoi fare nulla, Superman! Siediti!”, continuò Nicole. Scossi la testa e feci per avanzare verso le due, ma una mano mi afferrò per il lembo della divisa.
-“Per l’amor del cielo e di cosa mi è più caro al mondo, Emily, siediti immediatamente!” Gli occhi di Jamie lampeggiavano di paura e pietà, e mi strattonò per riportarmi seduta fino a farmi picchiare sulla sua mano e quindi liberare dalla presa ferrea che stava esercitando sulla mia gonna.
Non avevo niente da perdere. Se non altro, forse, sarei riuscita a far smettere il supplizio di Agnese spostando l’ira della preside su di me.
-“Lasciatela stare”, esordii alle loro spalle.
La Galdys sobbalzò si voltò subito guardandomi meravigliata con quegli occhi sporgenti e scuri. La Delacour, probabilmente riconoscendo la mia voce, si girò molto lentamente. Nel momento in cui i nostri occhi s’incrociarono non si scompose di pezzo; tutt’altro, sembrava perversamente compiaciuta di trovarmi lì. Deglutii, constatando la perdita di salivazione. In quel frangente udii parecchi commenti sussurrati: tutte mi davano della pazza.
-“E tu, signorina Collins, cosa vuoi? Fila al tuo posto prima che…”
La Delacour fece scattare in alto un mano per zittire la collega. Quella, dal canto suo, strinse le labbra fino a farle quasi scomparire dalla faccia.
-“C’è qualcosa che vorresti dire in merito a questo atto di irriconoscenza e peccato?”
-“Vorrei che lasciaste stare perché Agnese sta visibilmente male e non penso che la sua psiche –come quella di tutte noi- possa essere giovata di fronte ad un simile…siamo qui perché la vita ci ha scioccate abbastanza, questo non è il trattamento giusto per farci disciplinare. Vi prego, vi sta implorando: lasciatela stare”, dissi tutto d’un fiato, e man mano che il discorso terminava la mia voce si affievoliva come gli ultimi istanti della fiamma d’una candela.
La preside e la professoressa si scambiarono uno sguardo indecifrabile, mentre io mi permisi di guardarmi intorno: tutte, e dico tutte, erano a bocca aperta. Miss Delacour fece un passo in avanti e solo dopo aver fissato a lungo i suoi occhi di ghiaccio capii che, molto probabilmente, avevo appena commesso una follia. Vi erano volte in cui faticavo a comprendere cosa mi passasse per la testa, ma quando mi ci soffermare a riflettere era sempre troppo tardi. Come adesso, in cui non desideravo altro che cucirmi la bocca e scappare va.
-“Collins, Collins, Collins.” Ripeté il mio cognome per ben tre volte, girandomi in tondo. Io ero ferma, senza muovermi e ansimavo nel seguirla con gli occhi. La mia sfacciataggine svanì di punto in bianco, giusto il tempo per farmi pentire per aver anche solo pensato di poter fare la differenza.
-“Il mio istinto mi aveva avvertivo facendomi sospettare che saresti stata un problema. Una, come dire, ribelle.” E all’ultima parola alzò impercettibilmente le nerissime sopracciglia. Non commentai, mi limitai ad attendere il resto della sua filippica, senza guardarla veramente. Cosa che non potetti continuare a fare, una volta posizionatasi di fronte a me.
Ci guardammo.
-“Devo ammettere che la tua determinazione e testardaggine mi affascinano, in un certo senso. Specialmente se queste due caratteristiche possano portare l’individuo a un fine positivo e giusto. Ma si dia il caso che tu –le tue amiche, le tue compagne- non sappiate cosa sia giusto e cosa no, quale sia il giusto comportamento e quale no. Ed è per questo che ci sono io a capo di questo rispettabile istituto. Mi rincuora, lo ammetto, ma fin quando il tuo comportamento non sarà incline alla mia linea di insegnamento, per me sarà sempre indigesto. E per tanto sarà mio compito intervenire su questo per modellarlo.”
Restai in silenzio, le mani strette a pugno. La pressione degli sguardi che mi circondavano mi facevano mancare l’aria, tutte in attesa di una mia reazione. Studiai il viso della Delacour che, non ci crederete, sembrava ospitare un viso bonario. Ma sapevo -quanto ero sicura di chiamarmi Emily- che quello era uno sguardo ingannevolmente gentile. I suoi occhi, invece, sembravano avere delle chiazze rosse. Strinsi le palpebre scuotendo il capo per non farmi soggiogare definitivamente dal panico.
-“Ho un’idea per la nostra eroina”, spezzò il silenzio dopo un po’, rivolgendosi alla Galdys. Notai che quest’ultima, prima di farsi rivedere risoluta dalla sua superiora, mi stava guardando con rimprovero e dispiacere.
Jennifer Delacour prese in mano il piatto della vicina di Agnese e nell’altra recuperò la forchetta. Nonostante la mia testa impappinata dal terrore capii al volo cosa stesse per fare. Cosa stesse per propormi. -“Perché non lavi via l’affronto mangiando tu? Il coraggio deve venir comunque premiato, visto che tieni tanto alla nostra piccola e disobbediente Agnese.”
Lasciai cadere lo sguardo sulla ragazzina, riconoscendomi, nei suoi occhi, come la sua unica speranza. E quel viso così gonfio di pianto non mi fece pensare nemmeno per un secondo di tornare sui miei passi. Ero in ballo ed era ovvio, tanto valeva cercare di oppormi.
-“No. No, non lo mangio.”
-“COSA?!”, gridò la Delacour, facendomi sobbalzare sul posto.
-“TE LO STO ORDINANDO, COLLINS!” Avanzò verso di me con passo improvvisamente furioso, segno che l’offesa per il mio affronto era solo latente e ben calibrata. Ora, esplosa.
Indietreggiai istintivamente, fin quando la sua mano non andò ad afferrarmi per la nuca.
-“Perché fare subire tutto questo?”, sibilai, con la minaccia di piangere nella voce. Caccia indietro le lacrime, con tutte le forze che avevo. Io non piangevo mai. O meglio, dalla morte dei miei genitori avevo sigillato con me stessa la promessa di non piangere, di non crollare dinanzi alle avversità che la vita mi avrebbe inevitabilmente proposto.
-“Mangia”, ripeté, senza staccarmi gli occhi di dosso e guidando forzatamente la mia nuca. Strinsi le labbra quando queste sfiorarono la carne oramai gelida.
-“Santo cielo, Emily, fallo!”, urlò una voce alle mie spalle. Era Jamie.
-“E va bene. Va bene”, mi arresi,-“ma faccio da sola.”
La Delacour liberò riluttante la mia testa e mi passò il piatto.
Ma cosa mi è saltato in testa?, mi chiesi, ancora un volta. Chi ero io per poter cambiare regole istituite ancor prima della mia nascita? Idiota. Ero un’emerita idiota. Perlomeno William non era in quella sala ad assistere alla mia pubblica umiliazione; un brandello di dignità l’avrei conservato con l’unica persona che non avrei più rivisto in quel posto. Per poco non mi sbrodolai per ridere dinanzi quello sciocco pensiero.
Masticai con calma la prima fetta di polpetta rimanendo con gli occhi abbassati. Prima di infilzarne la metà sembrò trascorrere un’ora buona; le mie mani tremanti sudavano freddo e per questo mi cadde la forchetta a terra per ben due volte, senza avere nemmeno la possibilità di pulirla con un tovagliolo.
Senza ulteriori indugi masticai l’ultimo boccone, freddo e polposo. Deglutii. Avevo terminato. La Delacour mi tolse il piatto dalle mani e ricominciò ad urlarmi contro, parole che mi rifiutai categoricamente di ascoltare, tanto ero intontita. Un conato si fece largo nel mio stomaco e mi ritrovai piegata su me stessa.
-“Fila immediatamente in camera tua e non azzardarti mai più a mettere in discussione il mio insegnamento!”, fu il suo ultimo ordine.
Uscii di fretta e furia dalla sala con la mano a coprirmi la bocca, ancora piegata in una smorfia di disgusto, sentendo ai fianchi strusciare le mani di Jamie che volevano confortarmi.
Non so cos’altro mi passò per l’anticamera del cervello ma non andai in camera come mi era stato ordinato. Il mio corpo reclamava aria, se fredda, meglio. Fu come tornare a respirare dopo una lunga apnea, quando uscii dalla portafinestra, ciondolando fino a raggiungere il muro per sostenere il mio cammino, al fine di trovare un posticino nascosto, giusto per acquietarmi.
Superai un intricato intreccio di alberi ricoperti di muschio raggiungendo una parte del collegio in cui non mi ero mai inoltrata, e che era avvolto in un silenzio assordante. Lanciando una fugace occhiata alla vegetazione che si estendeva al mio fianco, che sembrava dovesse arrivare a coprire ettari e ettari di terra fino alla fine del mondo, sentii un moto di adrenalina scorrermi nelle vene. Era strano quell’effetto, ma non mi ci volle molto ad immaginare che, oltre quei cespugli, nascosti tra le ombre del fitto bosco, ci fossero migliaia di occhi intenti a seguire i miei passi scoordinati. Un mondo a parte, indipendente dal collegio e da Londra stessa. Rabbrividii ancora, voltando l’angolo per poi ritrovarmi sotto le finestre dell’alloggio di quelle dell’ultimo anno. Mi accasciai sull’erba reclinando il capo verso l’alto, perdendo lo sguardo nella vastità del cielo puntellato di tante piccole e luminose stelle. Rimasi a contemplare quel manto scuro fin quando non mi accorsi di una luce proiettata poco più in là, dietro un altro svincolo.
Mi alzai di scatto. Schiacciata contro il muro aggirai l’angolo che mi divideva dalla fonte di luce… che si rivelò essere una sorta di piccola cappella. Arbusti verdi e scintillanti grazie al riflesso della luna coprivano la cappella in una sorta di abbraccio, come a proteggerla dagli agenti esterni. Un cancello con sbarre arrugginito che, ad occhio e croce, doveva arrivarmi più o meno all’altezza dei fianchi, era socchiuso. All’interno, si percepiva chiaramente la presenza di qualcuno. In punta di piedi mi avvicinai all’entrata e, prendendo fiato, mi sporsi per sbirciare: la prima cosa che vidi fu il bianco accecante delle pareti, il quale mi fece strizzare gli occhi prima di continuare la mia immobile perlustrazione; un altare con sopra un centrino giallastro che un tempo doveva essere stato del medesimo colore del muro e poi, solo in un secondo tempo mi accorsi di una persona china su uno dei tre banchi di legno.
William.
E si stava alzando.
Colta da un’ondata di agitazione mi tirai indietro trattenendo il fiato, ma quando mi predisposti alla corsa, un ramoscello robusto e appuntito fuoriuscente dal cespuglietto che contornava la cappella, m’impedì il movimento impigliandosi alla gonna. Come accidenti era successo? Afferrai il lembo della divisa cercando di sprigionarla, non facendo altro che ingarbugliarmi di più e insospettire William, dal momento che creai una serie di rumori e calpestii.
-“Ehy!”, chiamò William dall’interno, proprio nell’istante in cui strappai parte della gonna, rovinando, poi, a terra.
Il cancelletto si aprì e lui comparve lì, rischiarato da quella luce artificiale come se fosse una figura mistica. Si guardò intorno e poi, girandosi, incontrò il mio sguardo.
Sapete?, non sembrava poi tanto sorpreso di vedermi.
-“Che ci fai tu qui?”
Alzai gli occhi al cielo. Cosa sembrava che facessi?
-“Sto prendendo il sole”, borbottai con i gomiti sprofondati nel terreno melmoso,-“sono inciampata.”
William tossì portandosi un pugno alla bocca per soffocare una risata.
-“Questo lo avevo dedotto. Nel senso, cosa ci fai qui. Fuori. Nel giardino. Del collegio…”
-“Okay, okay ho afferrato il concetto!”, lo interruppi,-“mi sono cacciata nei guai e sono uscita a prendere una boccata d’aria.”
Si lasciò andare ad un sospiro, come se gli avessi appena detto una cosa ovvia. Beh, d’altra parte era abituato ad assistermi in situazioni al limite.
Mi allungò la sua mano e io l’accettai, tirandomi su di slancio.
-“Vuoi conoscere un segreto, Emily? Se ti comporti in modo in cui ci si aspetta da un’alunna e quindi rispettando le regole, potresti continuare la tua permanenza senza cacciarti ogni secondo nei guai.”
-“Ho già ricevuto una filippica, grazie tante.”
Andai a posare lo sguardo sulla cappella, dunque cambiai argomento.
-“Che cosa stavi facendo lì dentro?”
Sorrise, avvicinandomisi come se dovesse confessarmi un segreto.
-“Mi rilassa venire qui e spogliare me stesso da tutti i dubbi e i pensieri che mi rivestono. C’è silenzio, c’è quiete e non ti nascondo che ultimamente ho molto su cui riflettere.” La sua voce divenne un sussurro dolce e pacato, eppure le sue parole –così enfatizzate- sembravano voler essere connesse con me. Non la smetteva di guardarmi negli occhi, e, al momento, non ricordavo di aver tenuto un contatto visivo tanto lungo con lui. -“Sei un tipo religioso”, commentai, poco originale.
Lui si strinse nelle spalle indirizzando l’attenzione alla piccola croce dorata posta sulla punta della capella.
-“E cosa c’è dentro quello scatolone lì dentro?”, domandai ancora, vedendo da dove mi trovavo adesso, un cartone con dentro qualcosa che non riuscivo a comprendere. Solo quando William ridacchiò mi resi conto del tono petulante e logorroico che avevo assunto.
-“Cose di Simus”, spiegò andando ad afferrare la scatola,-“ecco. Sono delle cianfrusaglie che devo gettare per lui fuori da qui. Perché come sai, ho finito il mio lavoro. Diciamo, è il mio ultimo incarico”, concluse, scrutando i vecchi oggetti di Simus; arricciando il naso tornò ad osservarmi. Avevo l’impressione che toccava a me ribattere riguardo il suo imminente abbandono.
Di nuovo la strana e irritante sensazione di malessere nel solo pensarci.
Come ero arrivata a dovergli dire di nuovo addio? Non che l’avevo fatto nei migliori dei modi durante la mattinata.
Col morale a terra, risposi:
-“Me lo ricordo.”
-“Forse è ora che io vada”, bisbigliò, probabilmente più a se stesso che a me. Lasciai il mio sguardo vagare sul terreno, dove i nostri piedi erano lontani ma parelleli.
-“Allora, ci salutiamo di nuovo e per l’ultima volta. Mmm, più o meno… prima mi hai lasciato sulla soglia della porta”, ricordò. Gli sorrisi timidamente, guardando le sue scarpe calpestare al breve distanza tra noi. Alzando lo sguardo, lo trovai vicinissimo. Intanto, la sua mano aveva preso la mia. Ebbi un fremito per il suo tocco freddo.
-“Stammi bene, Emily. Ti prego di non metterti in altri guai e di rispettare le regole. E’ la cosa migliore”, si raccomandò. Feci una smorfia.
-“Questo… questo non posso promettertelo. Devo trovare un hobby, e infrangere le regole sembra sia diventato il mio passatempo preferito”, risi con amarezza.
William s’incupì, socchiudendo gli occhi.
-“Emily”, scandì, infatti, il mio nome.
-“Va bene. D’accordo. Cercherò di rispettare le regole e di fare la buona durante le prove per i canti, Lunedì, giusto per iniziare.”
-“In chiesa? Ma non era stato…”
-“Cancellato? No. Spostato, sì.”
A quel punto lasciò di colpo la mia mano, la quale si era addormentata nella sua. Me la massaggiai.
-“Dopo domani”, sbiascicò indietreggiando. Adesso aveva un’aria che, sinceramente, mi spaventò. Lo sguardo perso nel vuoto, come se dentro di lui si stesse tenendo una conversazione tanto importante da farlo estraniare. Gli cadde lo scatolone dalle mani, ma non parve accorgersene. Mi feci avanti, sollevando la mano per posarla sulla sua spalla ma lui si scansò prima di un possibile contatto.
-“Che hai, William?”, gli domandai, preoccupata.

-“Niente”, balbettò rauco, in preda ad un improvviso abbassamento di voce. Lo guardai interdetta: per quella sera ne avevo abbastanza, eppure lui sembrava messo peggio di me.
-“Devo andare”, stabilì,-“devo proprio andare.”
Si avvicinò di nuovo e senza preavviso la punta delle sue dita sfiorò la mia guancia, i suoi occhi che ardevano, troppo lontani per afferrare per quale emozione si ravvivassero in quel modo.
Infine mi diede le spalle ed un vento innaturale si librò nell’aria, scompigliandomi i capelli e costringendomi a ripararmi da quella folata furiosa. Quando li riaprii, qualche secondo dopo, al termine della corrente, ogni traccia di William era scomparsa.
Nell’aria, ad eccezione del suo delizioso profumo, c’era il lieve svolazzare di alcune foglie, quasi pareva che danzassero intorno a me. Le cianfrusaglie di Simus giacevano a terra, dimenticate. Girai intorno all’istituto chiamando a gran voce il suo nome, fin quando arrivai al centro esatto del cortile –dove la luna irradiava una debole luce- ma non trovai nessuno ad eccezione della mia ombra.
A quanto pareva era riuscito ad eclissarsi, e forse avrei dovuto fare lo stesso: quanto tempo ancora avrei potuto vagare inosservata al di fuori dell’istituto senza essere scoperta?
Non appena entrai in camera Jamie mi raggiunse a passi pesanti, mentre le altre si svestivano lente.
-“Ma dove ti eri cacciata?”, mi domandò, ma il suo tono non era né preoccupato né disperato: era furioso. Balbettai qualcosa in risposta incapace di formulare una frase sensata per il semplice fatto che tornò ad inveire su di me.
-“Ti era stato ordinato di ritornare subito in camera! E quando noi siamo entrate tu non c’eri!”
Nei suoi occhi vi lessi un’autentica preoccupazione che mi fece stringere il cuore: lei era in pensiero per me.
-“Jamie...”, mormorai non sapendole cosa dire. Se le avessi raccontato la verità- cioè che ero uscita all’aria per riprendermi dallo spavento e dalla vergogna-, non avrei fatto altro che alimentare la sua furia. Optai per starmene in silenzio.
-“Sei proprio un’incosciente... non so quante volte ancora dovrò ripetertelo”, concluse trascinandosi sul suo letto già pronto.
-“Devi capirla, Emily. Era preoccupata per te, quando siamo entrate e non ti abbiamo trovato è stato impossibile non pensare che, se la Delacour fosse venuta a controllare, a quest’ora… non voglio nemmeno pensare a quale modo creativo e fantasioso si sarebbe aggrappata per punire la tua disubbidienza”, commentò Nicole, dopo che mi ero seduta sul mio letto. Cercai di ignorare le sue parole e il senso di colpa che d’un tratto mi avvolse.
-“Mi dispiace, non credevo di crearvi tutto questo pensiero. Sono mortificata. Starò più attenta, in futuro.”
Quella mia flebile promessa sigillò la fine di quella conversazione e mi ritirai in bagno per cambiarmi per la notte.
Nonostante odorassi di foglie bagnate e di terriccio non ero proprio nell’ottica di farmi una doccia. Mi limitai a sciacquarmi il viso acqua fredda, mi strofinai i denti e mi adoperai per sciogliere i nodi che si erano creati sui miei capelli umidicci. Mi tolsi la divisa e indossai la vestaglia; quando uscii dal bagno pareva fosse trascorsa un’eternità. Tutte le lampade dei comodini erano spente e c’era chi già russava. In punta di piedi raggiunsi il mio letto e mi raggomitolai su esso, come se fossi un gatto.
Era ora di buttarmi la giornata alle spalle, di sgomberare i pensieri e lasciare all’incoscienza la meglio sulla mia veglia. Così chiusi gli occhi e mi voltai verso la finestra aspettando di cadere tra le braccia di Morfeo. E almeno per una notte riuscii ad addormentarmi subito.





Il suono nasale della campanella che annunciava un nuovo giorno si sperperò nelle mura dell'istituto, raggiungendo le mie povere orecchie. Mi svegliai lentamente e controvoglia. Stavo dormendo veramente bene; forse per la prima volta in assoluto durante la mia permanenza. Gettai le coperte in avanti, rimanendo ancora sdraiata, aspettando che qualcuna mi augurasse il buongiorno. In un primo momento non lo notai, -tanto ero rintronata dal sonno-, ma la stanza era completamente deserta.
Mi tirai su di scatto.
I letti rigovernati e la porta del bagno aperta mi fecero capire che le altre erano già pronte per qualche strano motivo di cui non ero accorrente. Non era Lunedì, giusto? No. Era Domenica, feci mente locale.
A quel punto sentii un vago senso di allarme inchiodarmi al letto, ma non permettendo all'agitazione di prendere il sopravvento decisi che la cosa migliore era custodirsi e verificare cosa stesse accadendo.
Presi la divisa e di corsa mi andai a rinchiudere in bagno; nonostante avessi più che constatato di essere sola in stanza chiusi la porta per sicurezza. Ogni tanto spuntava qualcuno da qualche parte e il mio cuore non poteva reggere tali spaventi, ogni giorno. Ci misi almeno quindici secondi per lavarmi. Non mi curai nemmeno in che stato fossero i miei capelli tanto andavo veloce. Uscii con la medesima foga con cui ero precipitata in bagno e trovai un inaspettato via vai lungo il corridoio.
Ma il dettaglio che fece saltare i miei neuroni uno ad uno era più che insolito: le collegiali, eccetto me, indossavano abiti di vita quotidiana. Jeans, felpe, camicie... mi girò la testa. Mi guardavo intorno freneticamente sentendo i miei occhi sbarrati per la sorpresa, e non riuscivo a chiudere la bocca anch'essa aperta per la novità. Appoggiai la mano sulla porta della sala mensa quando ci arrivai, e per un attimo ebbi la sensazione di essermi svegliata in un'altra dimensione. Avevo quasi timore di entrare nella sala; rimasi impalata di fronte alla grande porta e non l'aprii finché non lo fece qualcun'altra. La ragazza che la spalancò era firmata dalla testa ai piedi. Aggrottando le sopracciglia seguii i suoi passi fino a quando, con un ennesimo sbalordimento, non vidi il braccio di Nicole che sventolava verso di me. Accelerai il passo avida di spiegazioni, nemmeno badai al modo in cui sollevai la sedia per sedermi. Sembravo impazzita.
-"Ciao", sbiascicai, fissando i suoi bellissimi abiti. Oddio, in realtà Nic indossava solo una maglietta rossa e dei jeans a zampa di elefante anonimi, ma non potei non confrontarli con la divisa e perciò risultarono stupendi ai miei occhi.
-"Ben svegliata. Scusa se né io né Jamie ti abbiamo chiamata prima, ma dormivi così beatamente che..."
-"Okay, okay. Perdonate. Cosa è questa storia?", la interruppi indicando l'intera sala, senza però staccare gli occhi da lei. Nicole ridacchiò.
-"La Delacour ha attaccato nella bacheca che si trova nell’atrio un annuncio che ci avvisava di poter utilizzare questa domenica per trascorrere una giornata con i propri genitori. Una ragazza che si è svegliata prima di tutte, tra l'altro della nostra camerata, ha avvisato le altre. Tu non hai sentito niente e quindi ho ritenuto opportuno lasciarti dormire...", mi spiegò ma sembrava che la frase dovesse continuare, per non parlare della tonalità in cui accompagnava quelle ultime parole. Sospirai. Conoscevo bene quel tono e specialmente conoscevo quell'espressione: lei provava pena per me, l'orfana. Certo, non poteva mica dirmi "ehi, Emily, non ti abbiamo svegliata perché tanto non hai nessuno con cui passare la Domenica". Non sarebbe stato tipico di lei, ma forse di qualcun'altra si. Istintivamente spostai lo sguardo su Camille che ricambiò l'occhiatina. Mi preparai a sentire il peggio.
-"Collins", sputò, come al solito.
Alzai gli occhi al cielo e mi misi a braccia conserte.
-"A quanto pare sei costretta a rimanere qui tutto il giorno. Non sai quanto mi dispiace per te.". Il suo tono rassettava il sadico. Avrei voluto alzarmi e colpirla con un sonoro schiaffo che si sarebbe ricordata per tutta la vita. Non accettavo che si toccasse quel tasto per farmi stare male. A quel punto sarei diventata una bestia con chiunque. Ma decisi di respirare a fondo e di contare fino a... quando qualcuno mi interruppe.
-"Buongiorno!", cinguettò una voce allegra e fin troppo acuta. Quando riaprii gli occhi mi accorsi di Jamie seduta al mio fianco, anche lei vestita con degli abiti differenti dall’uniforme.
-"Anche tu vestita?", le chiesi, tralasciando i saluti e calibrando bene il tono di voce. Ma lei non era nella mia stessa situazione? Si morse il labbro incrociando gli occhi di Nicole, fattesi a fessura. Guardai prima una e poi l'altra non riuscendo ad immaginare cosa stessero confabulando. Non ci badai molto e cercai di cambiare discorso.
Quella mattina a colazione mangiai pane e sofferenza, sotto gli sguardi di tutte. Era inevitabile che guardando me non rievocassero la scena della sera precedente. I loro giudizi si spaccavano in due categorie ben distinte di pensieri: un gruppo mi ammirava con occhi pieni di stima per aver dato voce ad un pensiero comune; un altro gruppo, di contrario, riteneva il mio gesto infinitamente stupido. Le mie stesse amiche credevano questo. Finito di mangiare ci alzammo e mascherai la mia tristezza con un sorriso disinvolto. Nemmeno se ne erano andate e già sentivo la solitudine incombere minacciosa. Naturalmente non volevo farle sentire in colpa o in pena per me, così optai quel sorriso, che però si sbriciolò non appena dalle scale spuntò il male in persona.
Ci fermammo sul quarto gradino per farla passare, ma a nostra sorpresa ci rivolse la parola arrestando i suoi passi.
Congelai.
-"Buongiorno, signorine."
-"Buongiorno Miss Delacour", rispondemmo ad unisono, ma la mia voce rauca stonava con quelle squillanti delle due.
-“Oh, Collins. Come andiamo questa mattina?”, si rivolse a me con un sorriso ingannevole perché maligno.
-“Bene”, sputai semplicemente. La Delacour mi guardò come se le avessi appena rivolto una parolaccia, forse il mio tono non era dei migliori.
-“Mmm... oggi rimarrai in collegio.”, constatò vedendo Nicole e Jamie vestite diversamente da me. Sbuffai dal naso prima di rispondere, visto che lei –naturalmente- era a conoscenza della mia situazione.
-“Come se lei non lo sappia”, sussurrai, atona.
Nicole fece un colpo di tosse, attirando la nostra attenzione. E probabilmente per salvarmi dalle frecciate cattive della preside.
-“Veramente Miss, Emily oggi sarebbe venuta con me Jamie e mia madre. Volevo farle una sorpresa ma ora sono costretta a rivelarlo. Mamma, poi, sarebbe venuta a firmare l’autorizzazione nel suo ufficio per lasciarla uscire con noi”, rivelò tutto d’un fiato. La fissai spiazzata.
-“Oh, capisco”. Miss Delacour sembrava fosse stata presa in contropiede, tant’è che la sua espressione si irrigidì più del solito. Ci fu un breve momento di silenzio che fu rotto proprio da lei qualche secondo dopo:
-“Allora, cercate di non violare il coprifuoco delle nove, intesi?”, balbettò con un tono imperturbabile. A quanto pareva era più sorpresa di me.
Nemmeno ci diede l’opportunità di annuire che subito andò via.
-“Nicole...”, sbiascicai poi. Lei mi guardò mordendosi le labbra, pensando che forse l’avrei rimproverata, invece...
-“Grazie! Grazie! Grazie! Sei un angelo!”, esclamai euforica, abbracciandola.
-“Oh, figurati cara. Ecco perché ho lanciato quell’occhiatina a Jamie, prima.”, rivelò guardando l’amica mentre era ancora stretta tra le mie braccia.
-“Ora devo andare a cambiarmi”, constatai sciogliendo l’abbraccio, euforica.
Corsi in camera e atterrai in ginocchio di fronte al mio baule cercando qualcosa di decente da indossare. Tirai fuori una camicetta rosa e l’unico palio di jeans che avevo; andai di corsa a cambiarmi. Era così bello poter indossare di nuovo i miei vecchi vestiti, poterne suggerne l’odore di pulito e sentirli aderire sulla pelle come nuovi. Raggomitolai la divisa e la lanciai sul letto con fare trionfante, tant’è che le mie amiche risero.
-“Stai davvero bene, Emily”, mi disse Jamie prendendomi sotto un braccio.
-“Oggi dobbiamo trascorrere la giornata senza pensieri. Relax, ragazze”, decretò Nicole afferrando l’altro braccio libero.



Aspettammo la madre di Nicole fuori in cortile e intanto, sedute sugli scalini, imbrogliavamo il tempo osservando il ricongiungimento familiare delle altre. Non avevo mai visto tante macchine e persone in vita mia. Mi sorprese il fatto che alcuni genitori non mostrassero il benché minimo interessamento verso i figli, quasi fosse un peso prenderli e trascorrere del tempo insieme. Scossi la testa, disgustata.
Ero veramente grata a Nicole per aver segretamente programmato la mia giornata. Se non fosse stato per la sua iniziativa sarei dovuta rimanere in collegio con le altre meno fortunate. E il solo pensiero mi faceva rabbrividire fino alla radice dei capelli, anche perché l’istituto sarebbe stato infestato dalla Delacour per l’intero giorno. Era ufficiale: quella donna era una minaccia per la psiche di ognuna di noi.
-“Permesso.” Una voce, forse troppo alta e familiare, fece sciogliere i nodi dei miei pensieri. Tutte e tre alzammo lo sguardo verso Camille.
-“Mi fate passare? Non ho tutto il giorno a mia disposizione, care”, brontolò con fare scocciato, sventolando una borsa più grossa di lei. Pareva ce lo facesse apposta per far vedere che era firmata. Arricciai il naso e guardai altrove. Naturalmente non mi spostai di pezzo per principio, ma Nicole si dovette alzare.
-“Ce l’hai fatta”, sbottò. Era il suo modo burbero per dire grazie. Nic le diede le spalle facendole il verso e, sia io che Jamie, scoppiammo a ridere. Mi soffermai a guardare Camille salutare sua madre. La donna che l’accolse – per modo di dire, visto che nemmeno la sfiorò per salutarla- era alta e bionda come lei. Da quel poco che potevo cogliere mi sembrava una donna piuttosto rigida e distaccata. Fece salire sua figlia in un’enorme jeep, e dando gas si avviò verso l’uscita dell’istituto.
-“La signora Milena Leeighton”, affermò Nicole senza che le chiedessi qualcosa. Fece una breve pausa prima di raccontarmi la storia di quella serpe di Camille.
-“Con ciò che sto per dirti, cara Emily, non cerco di giustificarla ma Camille, se è così aggressiva e meschina, è perché vi è un motivo più che valido: la sua disastrata famiglia”, proseguì, e si voltò a guardarmi per accettarsi che la stessi ascoltando.
-“Durante la sua infanzia è stata la classica bambina viziata che viveva nello sfarzo più totale: vestitini, bambole, piccoli gioielli. Eppure in quella famiglia è sempre mancato qualcosa di fondamentale, cioè l’affetto. E con questo intendo dire un abbraccio da parte della propria madre e un bacio da un padre e non una costosissima barbie da collezione.”
-“Mi stai dicendo che l’affetto materiale soprastava quello affettivo?”, le domandai. Lei annuì, amara.
-“Esatto. Ma Camille, cresciuta superficialmente fin dalla culla, non le è mai importato. O meglio, le è incominciato ad importare quando si è resa conto che un bracciale non poteva trasmetterle calore come un abbraccio e quindi nel periodo in cui suo padre è stato arrestato.”
-“Arrestato?”, ripetei, sconcertata.
-“Per truffa. Da allora la sua vita è cambiata in modo radicale. Per lei fu dura incassare il colpo, per non parlare di sua madre che scaricava il proprio disagio su di lei dando di matto. La picchiava e non si curava più della figlia; e i soldi cominciavano a scarseggiare ogni giorno di più. Usando Cam come carpio espiatorio non è che potuta diventare quello che è oggi. In fondo è cresciuta in cattività.”
-“Ma è terribile”, mormorai, non sapendo cos’altro aggiungere. Nicole si strinse nelle spalle, mentre Jamie sembrava avesse ascoltato questa storia per più di una volta. E forse avevo ragione.
-“Un giorno la madre, rinsavita, capì che doveva rimboccarsi le maniche e andare avanti riprendendo il controllo della propria vita. Considerando Camille un ulteriore peso la spedì, da quando aveva dieci anni, in ogni singolo istituto d’Inghilterra. Questo fino a due anni fa quando entrò qui e qui rimase. Ma prima che si integrasse ne passò di tempo.” All’ultima frase fece un sospiro, pensante.
-“Tutte sapevamo della sua storia”, intervenne Jamie sporgendosi oltre Nic per guardarmi.
-“E come?”
-“Le notizie viaggiano, considerando che questo posto è come un piccolo villaggio. Inoltre suo padre, Ector Leeighton, ha truffato un pezzo grosso di Londra. Se ne è parlato a lungo ed è stato su tutti i giornali. Le ragazze la prendevano in giro chiamandola “figlia del truffatore” e facevano qualsiasi cosa per metterla a disagio. Camille incassava colpi su colpi, ogni singolo giorno, fino a quando non strinse amicizia con quelle che oggi sono le sue scagnozze.”
-“Praticamente le uniche che non avevano pregiudizi”, aggiunse svelta Nicole. Ritornai a guardare Jamie. La storia mi stava incuriosendo, e non potevo nascondere una certa pena nei confronti di Camille.
-“Supportata dalle sue uniche amiche cominciò ad avere più autostima fino a diventare aggressiva. Se la prendeva con tutte, rispondeva male e tutt’ora si vanta di una ricchezza che in realtà non possiede. Tutto questo per me ha un’unica soluzione: è una maschera.”
-“Qualche volta, però, potrebbe anche staccarsela”, borbottò Nicole, stirandosi le gambe. Jamie scosse la testa non apprezzando la battuta dell’amica.
-“Non è mica facile. La sua vita non è stata facile. Cosa volevi diventasse dopo esser stata maltrattata e spostata da un collegio all’altro manco fosse un pacco postale? Il suo comportamento, involontario o meno, è una risposta al dolore che ha subito. E che subisce ancora, considerando che la madre viene a trovarla una volta al mese.”
-“Credo che, nonostante tutto, l’abbia perdonata.”
-“Lo penso anche io. In fondo è l’unica persona che le rimane al mondo… anche se, chiariamoci, tutto questo non può fungere da giustificazione per le cose che fa”, ribatté Jamie.
Povera Camille, pensai guardando il cortile popolato. Non avrei mai pensato che avesse un passato così difficile alle spalle.
-“Mamma! Finalmente è arrivata, ragazze!”, esclamò - euforica- Nicole alzandosi di scatto. Io e Jamie la imitammo e andammo incontro ad una donna posata e apparentemente solare.
Nic si buttò tra le sue braccia come se non la vedesse da secoli, e la donna le baciò la testa affettuosamente. Da come guardava sua madre, Nic, doveva volerle veramente molto bene anche se non accettava il suo compagno che, a giudicare dal suo racconto, le stava stravolgendo la vita.
-“Ciao Jamie e... tu devi essere Emily, la new entry?”, si rivolse a me con un sorriso amichevole.
-“Si, sono io. Piacere di conoscerla”, risposi offrendole la mano. Lei me la strinse e si presentò.
-“Piacere mio, cara. Sono Danielle e sono la mamma super figa della tua amica”, rise.
E come non crederle: erano praticamente l’una la copia sputata dell’altra. Anche se non avessi saputo del loro grado di parentela ci sarei sicuramente arrivata da sola.
-“Bene, bando alla ciance, vado a firmare l’autorizzazione per Emily nell’ufficio della vostra adorabile preside. Voi intanto accomodatevi in macchina”, farfugliò indicandoci una fiat punto nera.
-“Tua madre stava scherzando con quell’aggettivo, vero?”, chiesi scherzosamente.
Nicole e Jamie risero di cuore.
Per arrivare alla casa londinese di Danielle ci impiegammo massimo mezz’ora. Il che sarebbe stato normale se fossimo risiedenti in città, ma noi non lo eravamo. Il fatto era che quella donna guidava come una pazza. Forse sua figlia era abituata alla guida spericolata della madre, dato che non fece una piega, ma sia io che Jamie rimanemmo per tutto il tragitto schiacciate sui sedili posteriori, terrorizzate. E parlava. Incessantemente. L'unico argomento che aveva intavolato riguardava il suo amato (nuovo) marito. Blaterava a proposito di tutti i viaggi fatti per via dei suoi continui impegni lavorativi. Non ne potevo più. Mi correggo: non ne potevamo più. Ora capivo perché Nicole detestasse tanto il suo laborioso (nuovo) padre, visto che aveva risucchiato il cervello della madre. Prima non avevo colto il senso della frase “me la sta portando via”.
Danielle aprì un piccolo cancello ricoperto di muschio cigolante, e ci invitò a seguirla nel breve tratto di sentiero che ci avrebbe condotte alla porta d’ingresso.
Oh, la sua casa.
Era così graziosa che morivo dalla curiosità di entrarci. L’interno si presentava ancora meglio, proprio come avevo previsto: le pareti, i tappeti e persino gli infissi delle porte erano stati dipinti con diverse tonalità di bianco. L’ingresso, un lungo corridoio arredato da antichi mobili, permetteva di scorgere un grande tavolo di vetro, già apparecchiato per il pranzo. Alla mia destra, invece, trovai una lunga scalinata che portava al piano superiore. Era tutto così arioso ed accogliente, per non parlare del buon profumo di lavanda che si sperperava nell’aria.
Ma non fu nessuno di questi dettagli a colpirmi davvero. L’intera abitazione era totalmente immacolata, come se nessuno prima di noi ci fosse entrato. Poi, quasi subito, arrivai al perché: Danielle si recava qui a Londra solo nei week-end, in occasione di trascorrere del tempo con sua figlia.
-“Bene ragazze, fate come se fosse a casa vostra. Io vado a preparare il pranzo”, ci disse, posando il suo giaccone sull’appendiabiti.
Dunque io Nicole e Jamie andammo a rilassarci in salotto dove prendemmo in considerazione l’idea di visionare qualche suo vecchio film. Danielle fece capolino dalla cucina, -ora indossava un grembiule rosa pasticciato da strani colori di cibo-, suggerendoci di aspettare visto che da li a poco avrebbe servito il pranzo in tavola. Infatti non passarono nemmeno cinque minuti che ci ritrovammo sul tavolino di vetro a inforcare rigatoni al sugo e verdure miste. Il profumo era lontanamente familiare – basilico e sugo, che coppia!- e il calore che emanava la pasta mi fece quasi sudare il volto. D’un tratto, cosa che non accadeva da tempo immemore, mi si aprì la bocca dello stomaco. A giudicare da come divorarono la loro porzione anche per le mie amiche era lo stesso. Vidi negli occhi di Danielle una gran soddisfazione da cuoca; chissà se provava la stessa sensazione se si pensava dal punto di vista di madre. Nicole era una pazza se rinunciava ad avere una famiglia solo per qualche piccolo spostamento, per la sindrome di Peter Pan della mamma e per la petulanza di George. Forse io, al posto suo, avrei sopportato.
-“Allora...”, si schiarì la voce la signora Danielle,-“ti è piaciuta la pasta? Mi sono ispirata alla cucina italiana, oggi.”, mi domandò mentre mi porgeva un piatto di cuoio con dei fiorellini verdi lavorati ai bordi.
-“Si. Buonissima”, risposi sincera e nel frattempo mi chiedevo cos’altro avesse preparato. La risposta arrivò poco dopo.
-“Perfetto, mi fa così piacere. Spero ti piaccia anche il polpettone di manzo con patate al forno.”
M’illuminai d’immenso.
-“E’ la specialità di mia madre”, si vantò Nic con l’acquolina in bocca.
Danielle scomparì e riapparve con una teglia lunga e stretta che ospitava quel ben di Dio. Tagliò le fette in modo regolare e ci affiancò un bel mucchietto di patate nei piatti.
-“Non faccio fatica a crederlo, ha un odore così invitante...”, disse Jamie sorridendo.
-“Sono contenta che apprezziate. Sapete, essendo una cuoca fantasiosa non tutti i miei esperimenti riescono al meglio”, ridacchiò velandosi di un leggero imbarazzo. Sorrisi.
-“E’ la prima volta che mangio un polpettone così buono. Ad essere sincera è la prima volta che assaggio un polpettone”, mugugnai masticando lentamente per assaporarmi quel gusto nuovo e invitante. Danielle mi guardò leggermente accigliata.
-“Tua madre non te lo prepara mai?”
Silenzio.
Buffo il modo in cui Nicole si destò sulla sedia, quasi si fosse risvegliata bruscamente da un sogno ad occhi aperti, anche Jamie cambiò espressione mordendosi il labbro senza incrociare i miei occhi. Danielle, ingenua, attendeva una mia risposta.
-“Io non ho... i miei genitori sono morti in un incidente stradale.” La mia voce in quel silenzio pareva risuonasse come tanti campanellini agitati. Danielle si trattenne dall’espirare; mortificata farfugliò qualche scusa. -“Cielo. Perdonami sono proprio una sbadata, Nicole mi aveva accennato la situazione”, riuscì a dire. Il suo umore sembrava essere sceso a picco.
Ma ci ero abituata. Infondo quante volte ho dovuto ripetere quelle parole senza che nessuno provasse compassione per me? Tante. Tante volte.
-“Non c’è problema.”, la tranquillizzai. Nicole fece un colpo di tosse cercando di cambiare argomento.
-“Emily, che tipo di film ti piacciono? Sai ho talmente tanti dvd che ce ne è per tutti i gusti.”.
-“Qualsiasi genere mi va bene”, risposi senza esitazione.
-“Scusate se vi interrompo.”, si intromise improvvisamente Danielle, con aria pensante. Poi si rivolse alla figlia.
-“Quando avete finito il film voglio che tu chiami George e tua nonna. Volevano sentirti.”
Nicole roteò gli occhi al cielo mentre io... gridai.
-“NONNA!”
Tutte e tre si voltarono a guardarmi.
Oh, santo cielo! Che stupida, stupida! Mi ero completamente dimenticata dell’esistenza di mia nonna. Non la sentivo da una settimana e si era raccomandata di farmi viva non appena potevo, ed io, da stupida nipote ingrata, avevo rimosso la raccomandazione.
-“Dovrei chiamarla per dirle che sto bene, e per sentire se lei sta bene.”, mormorai più a me che a loro.
-“E dov’è il problema? Sopra c’è il telefono, vai a chiamarla.”, mi concesse gentilmente Danielle. Subito mi alzai da tavola e la ringraziai.
Corsi lungo le scale e mi ritrovai in un piccolo salotto. Le alte vetrate poco distanti dal divano di pelle bianco, illuminavano radiosamente il telefono. Era antico, con un tondino nel centro che riproduceva i numeri in altrettanti piccoli cerchietti. In quel preciso istante il problema non fu ricordarmi il numero di casa, bensì adoperare quel dannato oggetto. Ci impiegai un minuto buono prima di formulare il numero correttamente.
Attesi inutilmente che mia nonna rispondesse perché partì la segreteria con la sua voce memorizzata e metallica che mi comunicò dove si trovava attualmente: in un ospizio; e dettò lentamente il recapito su cui potevo contattarla. Cercai di adoperare la mia memoria a breve termine e cominciai a ripetere il numero senza sosta, almeno finché non recupererai la sensibilità al dito indice. Quando riprovai a chiamare mi rispose una donna ed io le domandai se poteva passarmi la signora Caroline Collins, e scoprii che era impegnata in un torneo di scacchi. Trattenei una risata e quando prese la cornetta la sua voce non mi risuonò proprio sprizzante come mi aspettavo.
-“Dolcezza mia”, tossì.
-“Nonna, come stai?”
Anziché rispondermi si abbandonò ad un’altra serie di colpi di tosse, carichi di catarro.
-“A quanto pare non molto bene”, bofonchiai. A quel punto la bufera passò.
-“Non devi preoccuparti, tesoro. Un po’ di tosse, tutto qui. Ma dimmi tu, piuttosto, come stai?”
Feci per rispondere ma subito capovolse la domanda, il che fece capovolgere la mia risposta.
-“Ti trovi bene al collegio?”
Cosa potevo dirle? Di certo non le avrei mai detto che mi trovavo male, che il cibo era una schifezza, che la struttura che ci ospitava cadeva a pezzi. E soprattutto che la preside era patologicamente disturbata. Al solo pensiero di quella figura possente di donna rabbrividii.
-“T-tutto bene. Anche se non è il massimo.” Proprio non ce la facevo a mentire alla seconda donna che amavo di più al mondo, ed anche se lo avessi fatto non le sarebbe sfuggito. Mugugnò qualcosa e tossì di nuovo.
-“Nonna?”, la chiamai.
-“Si, si ci sono. Perché mai, cara, non è il massimo? Il S. Hellens è molto ospitale da quello che ho sentito dire. Sai qui ho conosciuto una signora che mi ha detto di avere una nipotina nel tuo stesso collegio.”
-“Ah, ehm...un momento nonna...”, mormorai in preda ad un dubbio, -“hai detto S. Hellens?”
-“Si, perché?” Ora il suo tono era sospettoso.
-“Ma non è quell’istituto che si trova al centro di Londra? Perché io sono appena un po’ più a nord, quasi fuori città oserei dire ma non al S. Hellens”, la informai.
Per un attimo sembrò non capire.
-“Quindi mi stai dicendo che la signorina Williams mi ha... mentito?”, quasi gridò. Il suo tono accusatorio e sbalordito mi fece pensare per un attimo se non fosse al confine sottile tra la pazzia e l’intontimento.
-“Nonna, per favore! Si sarà sbagliata, ti pare che ti viene a mentire su una cosa del genere?”, la rimproverai. Perché quella donna doveva sempre vedere il marcio in tutte le persone? La signorina Williams era un tipo veramente affidabile e comprensiva. Ancora ricordavo i suoi occhi tristi quando mi guardava, doveva proprio aver preso a cuore la mia situazione.
-“Mi ha detto che ti avevano accettata al S. Hellens! E che ti ci avrebbe portato lei!”
-“E così è stato, nonna. Ma non al S. Hellens”, ripetei, per la ventisettesima volta.
-“Ho capito”, fece una breve pausa per tossire.
–“Allora dove ti ha portata?”, mi chiese, poco dopo aver ripreso fiato.
-“Guarda, il nome non te lo so dire ma è un collegio abbastanza conosciuto e rinomato. La preside è Jennifer Delacour, dovresti conoscerla visto che in paese sanno tutti chi è.”
-“Chi?”, sbottò, e quasi parve di nuovo allarmarsi. Sbuffai dondolandomi sul posto. Non è che mi divertissi a ripetere il nome di quella donna.
-“Jennifer Delacour.”
Mia nonna non commentò. Non disse niente.
Tu tu tu tu...
-“Nonna?”, chiamai, ma dall’altra parte nessuna risposta.
Era caduta la linea.


Tentai più volte di rimettermi in contatto con lei; le dita avevano persino incominciato a farmi male a forza di girare e girare quei tondini maledetti. Evidentemente ad interrompere la nostra chiamata fu qualche guasto alla linea telefonica della casa di riposo. Cielo, proprio non riuscivo a vedere mia nonna, -la mia povera nonna-, rinchiusa in un luogo simile. Nonostante gli acciacchi della sua età -attacchi cardiaci, debolezze varie- era sempre stata una donna piuttosto solitaria che non amava starsene in mezzo alla gente. Ad eccezione della sua piccola dolcezza: io. Era sempre impegnata a starsene buona nel suo letto aspettando (come diceva lei) che la morte la venisse a prendere. Non vi dico le scenate che scatenavo quando la sentivo pronunciare quelle parole.
Sorridendo a quei piccoli ricordi, - e soprattutto contenta per aver sentito almeno la sua voce-, scesi le scale e ritornai in sala pranzo dove qualcosa era cambiato. La tavola era sparecchiata, Danielle faceva su e giù per trasferire i piatti sporchi sul tavolo nel lavandino, e Jamie e Nicole erano a terra sul pavimento valutando ogni dvd riposto nella mensola sotto la tv.
Affondata nel divano, dopo pochi istanti dall'inizio del film, cominciai ad avvertire una certa sonnolenza appesantirmi le palpebre. Soffocai uno sbadiglio e con un gesto secco, ma al limite della percezione, scivolai un po’ più giù in modo da poter tenere la testa poggiata sul divano.
Subito dopo l’inizio del film, -esattamente dal rapimento della giovane donzella e dall’improvvisa apparizione di un drago acquatico-, Morfeo mi stava caldamente provocando, stuzzicando la mia coscienza tentennante. Non lottai più di tanto nel cedervi alle sue lusinghe ma, ad interrompere il mio quasi piacere, fu il volto di un ragazzo che comparve sullo schermo. Non mi sarei mai soffermata ad ammirare quei tratti eleganti e curati se non fossero stati così terribilmente familiari. Quei capelli color del grano, scompigliati per via della tormenta che stava attraversando, e specialmente quell’avvenenza e atteggiamento da vero cavaliere non potevano non farmi tornare in mente William.
Come mi capitava già da un po’ (ebbene ne ero consapevolissima) mi ritrovai a pensarlo, a rimembrare alcuni ricordi legati ai nostri strani (e talvolta anche inquietanti) incontri. Mi ero ritrovata a tirare le somme più di una volta cercando di interpretare le sue intenzioni nei miei confronti, ma non venivo mai a capo di una risposta che fosse normale.
William Delacour mi seguiva sfacciatamente e non gli importava che io me ne fossi resa conto, questa considerazione era l’ultimo dado che riuscivo a trarre. L’unica soluzione plausibile da pensare. L’unica e indiscussa perché, fin quando si trattava di ritrovarmelo tra i piedi nei corridoi dell’istituto andava bene, non c’era niente su cui rimuginare perché, ovviamente, ciò che faceva non riguardava la sottoscritta. Ma i miei sospetti cominciavano ad assumere un loro perché nei momenti in cui il fato non c’entrava proprio un bel niente, quando incontrarlo equivaleva a essere seguita da lui, in un certo senso. Infatti, dopo il nostro primissimo incontro nella chiesa se ne sono susseguiti altri: nella biblioteca dove era alle mie spalle chino in un angolo nascosto, intento ad osservarmi (cosa che ha fatto sovente per l’ora intera); sulle scale quando sbucò improvvisamente per poi afferrarmi nel momento in cui stavo per perdere i sensi; e altre volte ancora. Ma ciò che doveva davvero farmi capire che qualcosa non andava iniziò con il suo insistette – e quasi disperato, aggiungerei- tentativo di portarmi fuori dal collegio. A colazione, per essere più precise. Cercavo con tutta la buona volontà di rifiutare il suo invito in modo garbato e gentile perché la sua proposta sfiorava il ridicolo, e lui, naturalmente, ne era consapevole più di me. Eppure insisteva. Ed insisteva. E quando, poi, assumevo atteggiamenti più bruschi per declinare in modo decisivo quel folle invito, era lui che si infuriava con me. Come se fosse stato necessario che io accettassi per questioni di vita o di morte.
Sbuffai e feci voltare sia Jamie che Nicole.
-“Tutto apposto, Emily? Ti annoia il film per caso?”, mi chiese l’ultima, prontamente. Scossi il capo e simulai uno sbadiglio.
-“No, è che ho molto sonno. Non so se resisterò fino alla fine”, mugugnai.
E ritornai a fissare lo schermo. Il principe biondo non c’era più, ma l’altro biondo occupava ogni mio singolo pensiero. C’era qualcosa in lui che non andava, ancor più in me se continuavo a cercare una risposta che nessuno avrebbe mai saputo confermarmi. Quindi mi strofinai il capo arrivando ad un’unica conclusione: non l’avrei rivisto mai più ed era inutile ogni mio ragionamento. Nonostante ne ero conscia al cento per cento sentivo qualcosa smuoversi nel profondo dello stomaco; non azzardai, però, a dare la colpa al polpettone di Danielle. Non riuscivo ad affiancare un nome alla sensazione che mi legava alla sua immagine impressa nella mente, e ciò mi crucciava. Ma dopodiché mi imposi di non rimanerci troppo a riflettere; era una perdita di tempo, e mi concessi di seguire il film qualche minuto... fin quando Morfeo non mi inghiottì in un incubo.


Quando mi risvegliai trovai il mio volto affondato nell’ascella di Nicole, e il corpo di Jamie spaparanzato sul mio. A quanto pareva ci eravamo addormentate tutte e tre. Sentivo scendere delle strisce d’acqua sulla mia fronte umidiccia, il freddo che si insidiava sotto la mia pelle raggiungendo le ossa mi faceva rabbrividire per via di quel contrasto di temperatura che avvertivo nel corpo. Quei dettagli mi fecero riportare a galla il sogno – o meglio incubo- di cui ero protagonista durante l’incoscienza. Ricordavo a tratti ciò che era accaduto: mi ritrovavo in un bosco luminoso, arioso e verdeggiante che ospitava uno degli affluenti del Tamigi, ma non sapevo di preciso dove si trovasse, tanto meno se esistesse realmente. Ero intenta a camminare a piedi nudi sull’erba, trascinandomi verso quella grande pozza d’acqua che rifletteva tutto il verde che circondava il mio campo visivo. Man mano che rompevo le distanze, essa si dipingeva di un colore che provocò in me un senso di nausea solo al pensiero: era il color acceso e pungente del sangue. L’intera atmosfera si capovolse e il luogo paradisiaco divenne a dir poco infernale. Dall’acqua, poi, emerse una donna dai lunghi capelli che allungando le braccia mi bloccò per la vita. Non ero stata abbastanza veloce per sfuggirle e così mi trascinò via.
Solo in un secondo momento riconobbi di chi si trattava, e fu proprio allora che mi svegliai di scatto e con il cuore a mille: la Delacour.
Mi strofinai le palpebre cercando di capire perché quella donna mi perseguitasse anche sotto forma di immagine onirica. Ero talmente terrorizzata di ritrovarmi di nuovo tra le sue grinfie che il mio inconscio lavora e lavorava. Forse per mettermi sull’attenti o più semplicemente per puro masochismo.
Borbottai a tutto spiano fino a destare Nicole.
-“Mmm...”
-“Sono incastrata sotto il tuo braccio”, fiatai con voce di chi si è appena svegliata,-“ e Jamie è a peso morto su di me.”
Nic mi permise di liberarmi da quella posizione scomoda e con delicatezza scossi Jamie.
-“Ehi, sveglia”, le sussurrai.
-“MAMMA!?”, urlò Nicole a pieni polmoni, inclinando il capo verso le scale per cercarla. A quel punto Jamie sobbalzò e si guardò intorno con occhi appiccicosi.
-“Oddio, ci siamo addormentate. Oh no, il film”, si lagnò dopo un lungo stiracchiamento. Nel frattempo notai alcuni particolari che prima mi erano sfuggiti: dalla finestra non si intravedeva più il sole ma c’era il crepuscolo. Lo schermo irradiava il menù del dvd, segno che avevamo dormito per più di un’ora, e la signora Danielle era scomparsa nel nulla.
-“Chissà dove si sarà cacciata quella donna”, mugugnò Nicole, nel momento in cui la porta d’ingresso s’aprì: era proprio sua madre.
-“Oh”, sembrava sorpresa di vederci in piedi, -“vi siete svegliate! Dormivate così bene che non ho potuto svegliarvi. Meglio così, fuori si ghiaccia.”
Teneva due buste belle cariche nella mano destra e nell’avambraccio sinistro ci fece scivolare tre bustine più piccole ben confezionate. Io e Jamie l’aiutammo a posare le buste in cucina mentre Nicole le ronzava intorno, intuendo che le confezioni più piccole riguardassero noi.
-“Cosa c’è lì dentro?”, infatti le chiese indicandole con la punta del naso. La madre roteò gli occhi al cielo e si spogliò dal suo enorme cappotto.
-“Non ti sfugge mai niente, non è vero?”
-“A me? Mai”, rispose prontamente Nic con fare orgoglioso. Danielle sospirò e ci consegnò le tre bustine. Tutte ci scambiammo un’occhiata.
-“E’ un regalo per voi in vista dell’uscita mattutina di domani. E’ una sciocchezza davvero, ma spero possano esservi utili.” La madre di Nicole sorrise di fronte all’avida curiosità con cui stavamo scartando le buste. Posai la mia sul tavolo di legno della cucina e con molta cura aprii la scatolina blu che mi ritrovai tra le mani.
Erano un paio di guanti, color azzurro smorzato con un cuoricino d’argento al centro. Ne rimasi sinceramente colpita, sia per l’eleganza di questi che per il gesto che mi riscaldò il cuore.
-“Sono bellissimi!”, commentò Jamie che non aveva perso tempo e li aveva subito indossati.
-“Grazie Danielle. E’ proprio ciò che ci serviva”, dissi, e lei mi posò una mano sulla spalla sorridendomi calorosamente.
-“Figuratevi. A te, Nic, piacciono?”
Nicole aveva un sorrisone stampato sul volto, quasi pareva una paralisi.
-“Certamente! Al collegio ci invidieranno tutte domani mattina”, sghignazzò e io e Jamie non potemmo che ridere della sua “pestifera” battuta.
Mentre Danielle parlava e sistemava la spesa nelle dispense io, Nicole e Jamie ci preparammo e gustammo una cioccolata calda; per quanto scottava non riuscimmo nemmeno ad assaporare il gusto denso e buono. Persino la panna che avevamo aggiunto non riuscì a rimanere a galla. Verso le otto, poi, cenammo tutte assieme. L’ultima cena prima del ritorno pensai un po’ sconsolata. Dopo saremmo dovute tornare in collegio e riprendere la routine che mi aveva vista coinvolta la settimana scorsa. Sospirai ingurgitando un bel pezzo di bistecca al latte, contornata da insalata e patate fritte. Finita la cena non ci restò che prepararci per andare. Lanciai un ultima occhiata alla casa, alle sue mura chiare, al pavimento immacolato e al comodo divano prima di uscire. Mi dispiaceva andare via, manco fosse stata la mia casa. Il pomeriggio trascorso non ci fece svagare come avevo pensato ma perlomeno era stato tranquillo e rilassante. Infatti recuperai ore e ore di sonno perse.
Forse era per il freddo invernale, forse per il buio pesto o molto probabilmente per la guida più cauta di Danielle ma, la strada per il ritorno, sembrava più lunga di quanto ricordassi. Passammo nel centro della città dove tutto era in festa: negozi, alberi decorati di rosso, babbi natali sparsi per i marciapiedi trafficati; piccoli dettagli che ancora una volta annunciavano il mio futile compleanno. Cercai di non pensarci quella volta e di godermi gli ultimi minuti di libertà. Dunque io, Jamie, Nic e sua madre conversammo del più e del meno senza mai smettere. Fu come se ad un tratto avessimo un sacco di cose da dirci. Quando poi attraversammo il cancello arrugginito – e fin troppo familiare, ahimé – del collegio avvertii una fitta al cuore. Come se qualcuno me lo stesse avvolgendo con del filo spinato. La Punto di Danielle non era l’unica macchina presente nel cortile, anche altre ragazze erano arrivate nel nostro stesso instante e si stavano salutando con i propri familiari.
-“Bene care, siete arrivate a destinazione. Spero che oggi vi siate divertite.”
-“Si mamma. Grazie di tutto e salutami tutti.”, rispose la figlia baciandole la guancia. Fu la prima a scendere dalla macchina, seguita da Jamie.
-“Ah, Emily”, mi fermò Danielle nel momento in cui stavo per raggiungere le due che, per il freddo, erano corse già al riparo senza aspettarmi.
-“Si?”
-“Quando vuoi tornare con mia figlia e la sua amica non esitare a chiederlo. Sarai sempre la benvenuta in casa nostra. D’accordo?”, si raccomandò mostrandomi un sorriso da... mamma. Annuì energicamente, sentendomi per un attimo bambina. Non me lo sarei fatto ripetere due volte.
-“Grazie mille. Sarà un piacere per me passare del tempo con Jamie e Nicole fuori dall’istituto”, risposi e a quel punto la salutai.
Sembrò si fosse alzata una bufera e il vento mi colpì in volto come tanti schiaffi repentini. Quando entrai i miei capelli erano tutti scompigliati e, perdendo tempo per sistemarmi, captai la figura della Delacour.
Ciondolai fino alla rampa di scale cercando di accelerare il passo per non scontrarmi corpo a corpo con lei, ma la mia presenza non sfuggì ai suoi occhi attenti. Mi chiamò e mi raggiunse con cinque falcate contante.
Stetti sull’attenti e cercai di sfoggiare il mio sorriso migliore. Finto ma il migliore.
-“Denoto una certa puntualità, signorina Collins. Un passo avanti per quanto riguarda il suo rendimento”, disse in tono elogiativo. La guardai. C’era qualcosa nel suo volto, nel guizzo dei suoi occhi e nella sua postura che mi parve sconosciuto. C’era qualcosa di diverso che, seppur lo rilevavo, non riuscivo a capire. Solo in un secondo momento compresi cos’era che mi disorientava in quel modo: lei sorrideva. Ma non era semplicemente un sorriso qualunque (tipo quello che mostravo io), era visibile serenità. E la cosa era destabilizzante non poco.
-“C’è qualche problema?”, interruppe i miei pensieri, senza perdere il buonumore. Sbattei le palpebre per riprendermi, -come per accettarmi se tutto fosse vero-, e risposi.
-“Sto bene. Sono solo infreddolita. Credo di dover andare subito in camera.”
Lei annuì ciondolando la testa, ispezionando l’atrio ormai semi vuoto.
-“Ti auguro una buonanotte nonostante la bufera. Domani sarà un lieto giorno, Collins”, mi disse espirando e stringendo ancora di più il libro al suo petto. Non comprendevo le sue parole, il suo atteggiamento che mi lasciava spiazzata e il modo umano in cui mi fissava in attesa di una risposta.
-“Oh. Beh. Se lo dice lei. B-b- buonanotte”, mormorai incespicando sull’ultima parola. La preside mi rivolse il suo ultimo sorriso e poi scomparì nella sala dei professori. Frastornata schizzai sulle scale per raggiungere il dormitorio e con la mia bustina di plastica intruppai tutte le ragazze che trovai nella mia corsa disperata.



***




La mattina seguente non iniziò affatto bene. Quando la nostra sveglia personale iniziò a trillare con il suo suono melodioso tutte eravamo già pronte. Il fatto che il mio stomaco non accettasse più pane bagnato accompagnato con il latte e che, in Dicembre, nel nord di Londra, ci fosse un sole accecante era niente in confronto allo strano presagio che avvertivo. Non saprei descrivere con termini esatti lo stato di tensione che mi attanagliava la mente e il corpo; diedi la colpa di ciò a quella palla infuocata e birichina che era in alto nel cielo. Insomma, il sole sconvolgeva la solita routine quotidiana di chiunque abitante britannico e non potetti non prendere in considerazione che questo fosse un segno, un qualcosa di strettamente collegato alla strana sensazione con cui mi ero svegliata.
La Galdys e la Belfiore ci fecero marciare verso la chiesa in fila indiana; io, Nicole e Jamie chiudevamo la schiera delle collegiali. Avevamo deciso di indossare tutte e tre i guanti regalati da Danielle, un modo per consacrare la nostra amicizia, e alcune ragazze si erano avvicinate a noi per domandare in quale negozio li avessimo acquistati. Solo Camille storse il naso sventolando e attorcigliando al collo una sciarpa color pesca che non le avevo mai visto indossare: molto probabilmente se l’era comperata il giorno prima. Il fatto che nessuna avesse notato il suo nuovo vezzo la stava facendo diventare verde di rabbia e di invidia, tant’è che mi guardava come per mandarmi a quel paese.
Camminava proprio di fronte a noi, con le sue fedeli scagnozze, e ciarlavano di cose insignificanti destinate ad essere ricamate per tutto il tragitto. Quando quasi giungemmo alla chiesa attraversammo un ponte che si affacciava sul Tamigi; un vecchio pittore armato di cavalletto e sgabello cercava di catturare ogni singola sfumatura del bel paesaggio. Affascinata lo guardavo mentre giocava a far contrastare due diverse tonalità di azzurro in base a come la luce colpiva il fiume.
-“Emily! Muoviti dai”, brontolò Jamie che era rimasta sul marciapiede; nel frattempo le altre avevano guadagnato passi e si erano distaccate da noi.
-“Un secondo”, mormorò Nicole che era alle mie spalle, incuriosita quanto me. Il vecchio pittore ci rivolse uno sguardo lusingato e ci consigliò, seppur con dispiacere, di seguire gli ordini della nostra amica.
-“Oh, era ora. Avanti, raggiungiamo le altre se non vogliamo perderci.”, continuò a bofonchiare Jamie che afferrò le braccia di entrambe. Dopo trenta minuti di camminata era sfiancante seguire il suo passo svelto. -“Se mai ci perdessimo conosco io Londra. Tempo fa circolavo in paese come una libera cittadina prima di rinchiudermi in un istituto.”, risposi lanciando un’ultima occhiata al Tamigi. Sembrava quasi il lago in cui era spuntato il dragone del film del pomeriggio precedente; magari ne spuntasse uno e mi portasse via da questo supplizio, pensai. E con un altro pizzico di fortuna avrei potuto essere salvata da un valente principe azzurro. E biondo.
Sbattei un piede a terra facendo sobbalzare le due che mi guardavano come se fossi impazzita. Il fatto era che stavo tornando a pensare a William. Il che era inconcepibile da parte mia. Forse ero davvero straordinariamente masochista, non c’era soluzione. Oppure quel piccolo spiraglio di sole era tanto potente da avermi fatto subire un’insolazione.
-“Tutto bene?”, mi domandò Nic, perplessa.
-“Si, stavo... stavo pensando ad una cosa”, mugugnai riprendendo a camminare. Senza nemmeno rendermi conto avevamo raggiunto le altre, ritornando ad essere le chiudi fila.
-“E a cosa?”, s’impicciò Jamie.
Io scrollai le spalle, mostrando scarsa importanza ai miei pensieri. Eravamo tutte accalcate di fronte all’entrata della chiesa; il bagnato che era rimasto sugli scalini rallentava i nostri passi per paura di rovinare a terra. Le prime ad entrare furono quelle del primo anno e, alzandomi sulle punte –sorreggendomi con buonsenso sulle spalle di Jamie,- vidi che occuparono gli ultimi posti a sedere. Furbe.
-“Fai questo piccolo sforzo, Emily”, sospirò Jamie. –“Tanto è solo per questa mattina.”
La guardai con gli occhi a fessura.
-“Sai meglio di me che si susseguiranno altre volte prima della vigilia di natale. E poi quelle si sono messe agli ultimi posti per farsi i fatti loro e non seguire la messa. Mi hanno rubato l’idea”, mormorai. Nicole ridacchiò.
-“Sei estenuante”, si lasciò andare ad un ultimo commentò Jamie, prima di colpirmi con il gomito e unirsi alla risata silenziosa di Nic.
Avanzammo di due scalini quando mi accorsi di essere osservata. Alla mia sinistra, di fronte ad una colonna, una vecchia signora fece capolino con un’espressione che oscillava tra l’allarmato e il curioso. I suoi vestiti erano sporchi e sciatti, intorno alla sua nuca vi era una bandana color fucsia fissata in un fiocco dai lunghi lacci che si univano agli altrettanto lunghi capelli bianchi. La sua pelle era raggrinzita e ciò mi fece pensare che fosse più grande di mia nonna; mentre i suoi occhi erano neri e inespressivi. Vedevo chiaramente che era me che fissava, come se volesse trasmettermi la sua preoccupazione. Mi accigliai e girai il capo proprio mentre Jamie e Nicole imitarono il mio gesto. Probabilmente se ne erano accorte anche loro.
-“Tu”, sentii ad un tratto. Era la vecchia signora che si rivolgeva a me.
-“Non voltarti. E’ una zingara, vorrà dei soldi”, mi suggerì frettolosamente Nicole, continuando a guardare avanti verso la massa che man mano avanzava.
-“Nic!”, proruppe Jamie come per rimproverarla. A quel punto si voltò e borbottò a Jamie qualcosa del tipo non abbiamo soldi o che cosa ho detto di male?
-“Smettetela di bisticciare. Tanto ce l’ha con me”, le ammonii voltandomi verso la zingara che ormai era a un passo da me.
-“Come ti chiami, piccola?”, mi domandò bonariamente con voce debole e sfiatata. Nicole fece un colpo di tosse.
-“Perché lo vuole sapere?”, scattai sulla difensiva. Quella donna m’incuteva... qualcosa. E non era per niente una sensazione piacevole.
Anziché rispondermi sollevò la mano destra e fece per toccarmi la spalla ma poi si bloccò e salì sulla mia nuca. Prima di un contatto mi spostai, confusa e a disagio.
-“Oh”, sussurrò, congiungendo entrambe le mani sul petto.
-“Mi scusi che cosa vuole?”, chiesi senza troppi preamboli cercando di liquidarla prima che mi prendesse un attacco d’ansia.
-“Non abbiamo soldi. Siamo un gruppo di scolare in visita alla chiesa”, s’affrettò a chiarire Nicole.
Ma la donna l’ignorò e riprese a parlare con me.
-“Tu, giovane fanciulla sei avvolta in un alone nero. Misericordia, buona ragazza, qual’è il tuo nome?”, insistette e mi afferrò un polso. Al ché cercai di divincolarmi ma poi mi sfilò il guanto e rimasi a fissarla sbalordita per il gesto.
-“Mi lasci!”, protestai.
-“La lasci!”, intervennero le mie due amiche.
La vecchia signora distese la mia mano destra sulla sua, rugosa e macchiata. Si avvicinò e con l’unghia seguì le linee del palmo rivolto verso l’altro; un brivido mi percosse la schiena.
-“Oh”, commentò con un tono per nulla gradevole.
Irritata mi liberai dalla sua presa e recuperai il guanto.
-“Mi lasci stare!”, ripetei guardandola con determinazione, nonostante sentissi le labbra tremare.
-“La tua linea della vita è corta. Ti sta per succedere qualcosa, piccola fanciulla, devi stare molto attenta”, bisbigliò come se fosse allo strenuo delle forze. Poi avvicinò la sua mano al mio viso con l’intenzione di accarezzarmi una guancia, ma una voce la fece rannicchiare su se stessa, in sottomissione.
-“Se ne vada!”, gridò prepotente la Delacour dall’alto della scalinata.
E ora da dove era saltata fuori? Per caso ci aspettava qui?
La vidi scendere con ira le scalinate e, nonostante fossero scivolose, non barcollò nemmeno per un attimo. Mi si parò di fronte lanciando uno sguardo truce alla zingara, benché fosse rivolto a lei sentii qualcosa spezzarsi dentro di me. La zingara s’ingobbì ancor di più e alzò le mani sul capo come per farsi scudo dalla potenza degli occhi glaciali che la stavano trafiggendo; girò i tacchi ma non prima di avermi lanciato un’ultima, inquieta, occhiata. Quando sparì dalla nostra visuale la Delacour pareva visibilmente sollevata.
-“Non si deve ripetere mai più un episodio simile”, mi avvertì, guardandomi con cipiglio. Come se la colpa fosse stata mia, ovvio!
-“Non l’ho di certo avvicinata io”, cercai di giustificarmi, per quanto inutile potesse essere con lei.
-“Ma non hai nemmeno avuto il buonsenso di mostrarti indifferente o spostarti per evitare che ti importunasse. Oggi è stata una zingara, domani potrebbe essere un malvivente”, ribatté subito.
-“Certo ma...”
-“Io sono responsabile di ciò che ti accade, Collins”, aggiunse come se non fosse ovvio. E come se le importasse veramente la mia incolumità. Abbassai il capo, livida di rabbia, prendendo in considerazione il fatto di controbattere o farla finita lì. Nella mia testa cominciarono a volteggiare mille impossibili soluzioni per trarmi d’impaccio ma, essendo –appunto- improbabili, desistetti e optai per rimanere in silenzio. Volevo scappare, ecco cosa volevo fare. Volevo andarmene da lì, e con chiaro spavento per le parole della zingara mi era passata anche quella poca voglia di cantare. Ma entrai, ovviamente.
La Delacour ci spedì ai primi banchi, di fronte all’altare, al leggio e alla vetrata che lasciava filtrare alcuni raggi di luce; quella dannata luce che incombeva sulle nostre teste quasi accecandoci. Tremavo nel mio cappotto nero e non potevo non fissare la mia mano: le sue linee, le sue devianze, spezzature e... la chiusi a pugno, scuotendo la testa come per liberarmi da quelle assurde paranoie. Ci mancava solo la zingara, ora ,brontolai interiormente. Poi, come se Jamie mi avesse letto nella mente si voltò a guardarmi dal banco di fronte.
-“Emily, non pensare alle parole di quella zingara. Molto probabilmente non sa cosa dice.”
-“Però è vero, guarda!”, risposi mettendole la mia mano aperta sotto il naso in modo che vedesse quelle linee corte e spezzettate. Lei sbuffò abbassandomela per poi imprigionarla nella sua, calda e accogliente.
-“Da quando sei così...”
-“Superstiziosa? Forse da quando mi sono svegliata questa mattina”, bofonchiai,- “mi sono svegliata male.”
-“Sarà sicuramente una giornata no”, provò a tranquillizzarmi e finalmente mi liberò la mano.
-“Già, una delle tante”, borbottai al vuoto.
Mi lasciai accasciare sullo schienale cercando di svuotare la mia mente quando, qualcuno – e molto probabilmente sapevo chi- cominciò a pizzicarmi sul braccio. Lo scossi, indispettita.
-“Camille lasciami stare”, l’ammonii. Ma continuò a perseverare pizzicandomi con il dito indice e il pollice; al ché mi voltai esasperata.
-“Ti ho detto di...”, e mi mancarono le parole.
William era a pochi centimetri da me, sporgendosi oltre i banchi per attirare la mia attenzione. Ma non poteva essere lui; allora sbattei le palpebre e quando riaprii gli occhi ebbi la prova della sua reale presenza.
-“Che cosa ci fai...”
-“Devo parlati”, m’interruppe con una certa urgenza nella voce. Il suo tono non ammetteva repliche, ma, come suo solito, era una richiesta fuori luogo.
-“William non...”
-“Adesso!” Mi prese per un braccio e mi trascinò sul banco di legno, fino a farmi alzare.
-“Potresti farmi finire di parlare quando comincio?”, brontolai sentendo il cuore che pian piano accelerava i suoi battiti così come i miei passi.
-“Non adesso. Non oggi.”, lo sentii mormorare mentre, senza un minimo di grazia, mi fece entrare nel confessionale. Subito dopo mi fu accanto.
Lo spazio all’interno di quella cabina era minimo, ed eravamo così vicini da confonderci i respiri. Lo guardavo con le spalle contro il legno, non riuscendo a comprendere cosa volesse da me. Avvolto nel buio con quello sguardo allarmato e con la sua presa ferrea sul mio polso cominciava seriamente a spaventarmi. Quel giorno sarei impazzita, era poco ma sicuro.
-“Che cosa vuoi? Posso saperlo?”, bisbigliai rompendo il silenzio.
-“Devi immediatamente uscire da questa chiesa”, scandì parola per parola. Spalancai la bocca, incapace di digerire quella proposta... assurda. Lui notò la mia espressione e distolse lo sguardo, come se in realtà quella conversazione lo infastidisse.
-“Questa volta devi ascoltarmi, Emily”, obiettò secco, ritornando a guardarmi.
-“Certo come no!”, sbottai animandomi, -“quindi, secondo te, io dovrei uscire da qui perché tu me lo stai ordinando senza nessun motivo, senza nessuna spiegazione logica che mi possa togliermi il dubbio di non aver a che fare con un pazzo?”.
-“Effettivamente hai ragione. Non metto in dubbio la tua perplessità, però devi darmi retta e uscire”, insistette mettendomi una mano sulla spalla. Diedi un’occhiatina a quella mano tremante e poi, guardinga, ne lanciai una eloquente a lui.
-“Lasciami andare”, sospirai con un filo di voce. Lui scosse la testa, deciso.
Irremovibile quanto me.
-“Lasciami andare, ho detto.”, ringhiai cercando di divincolarmi dalla sua presa. Dannazione! Perché era più forte di me?
-“Ho fatto tutta questa strada e non ti lascerò rimanere qui dentro!”
-“Ho. Detto. Lasciami andare!”. Lo strattonai e feci per uscire dal confessionale ma la sua mano, - più veloce della luce-, afferrò il mio braccio e mi ritirò indietro.
Mi misi le mani tra i capelli: quella mattinata si stava rivelando infernale; ero già stanca, sfinita, per non parlare del magone che mi si era appena formato.
-“Inventati qualcosa ed esci da qui. Se tu rimarrai nella chiesa ti succederà qualcosa di brutto, e non voglio che questo accada!”, mi consigliò, con un tono serio che non mi piacque affatto.
-“Hai origliato ciò che mi ha detto la zingara, non è così? Sei venuto qui per finire di terrorizzarmi? Beh, la sai una cosa? Ci sei riuscito! Bravo, complimenti. Ora per favore fammi uscire”, risposi, impuntandomi. Lui scosse la testa e cominciò a snocciolarmi qualcosa che mi rifiutai di ascoltare. Annuivo, arrabbiata ed esasperata, cercando di fargli finire la predica il prima possibile e lasciarmi andare. Poi, come se non bastasse, iniziò a dispensarmi consigli su come darmela a gambe. Fui costretta a ringraziarlo per qualcosa di stupido, insensato.
La testa cominciò a volteggiarmi e il suo viso, divenuto più magro dall’ultima volta che l’ho visto, era angosciato con una smorfia di convinzione che accompagnava le sue parole a dir poco incomprensibili.
Quando è troppo è troppo.
-“Va bene, ho capito”, tagliai corto dopo un paio di secondi. Lui s’azzittì, meravigliato di avermi convinta.
-“Ora posso uscire?”, domandai con fare innocente, dopo averlo assecondato a sufficienza. William annuì, seppur non dimostrava la convinzione che mi aspettavo di ricevere. Sospirai senza staccargli gli occhi di dosso, e aprii la porticina uscendo alla svelta. Fuggii, in un certo senso, dalle sue stramberie e mentre procedevo per ritornare al mio posto mi scontrai con la Delacour. Indietreggiai agghiacciata per aver urtato la sua maestosa persona.
-“Dove ti eri cacciata tu?”, mi domandò con sconcertata severità.
-“Oh, beh... io, ecco...”, cincischiai, cercando in qualche modo di far riattivare il cervello. Lei fece svolazzare una mano di fronte al mio naso come per azzittirmi e disse:
-“Collins, taci. Non sprecare fiato, contienilo per la lettura di un passo del vangelo che leggerai durante la messa.”
-“Io?”
-“Si”, confermò quasi sgranando gli occhi, che poi, prima di riprendere a parlare, roteò.
-“Possibile che tu sia così svogliata? Dunque ora, essendo arrivate in ritardo, assisteremo alla santa messa e alcune di voi ai primi banchi vi parteciperanno leggendo alcuni passi. Siediti accanto a Jamie e dopo di lei posizionati dietro al leggio. Solo al termine della celebrazione inizieremo le prove.” Mentre parlava mirava il punto in cui dovevo mettermi; mi voltai seguendo la traiettoria del suo sguardo e solo in quel momento mi accorsi di un dettaglio assai vistoso. Okay, forse la parola vistoso non azzeccava in pieno l’essenza di quella gigantesca croce di legno che penzolava sull’altare. Prima ancora che potessi commentare la preside proseguì con le sue –indesiderate- spiegazioni.
-“E’ stata costruita e rifinita in legno massiccio. Quella croce è un regalo donato dal nostro istituto, in vista del Natale.”
Mi voltai per guardarla, aggrottando le sopracciglia.
-“Non sarà pericolosa lì sopra? Se mai cadesse...”, azzardai.
-“Misericordia, Collins”, mi zittì e, con una leggera spinta mi condusse vicino alla mia amica. Prima di girare i tacchi mi fissò a lungo e stirò un sorriso sbilenco.
-“Dove eri finita? Mi ero voltata per parlarti e non c’eri più.”, mi chiese Jamie, mentre sfogliava un libricino preso chissà dove. Mi strinsi nelle spalle e mi voltai quel poco che bastava per trovare William. Vedevo la sua sagoma che si agitava tra la folla di gente che entrava, -i più erano anziani con bambini- e indubbiamente mi cercava perché, per quanto gli avevo assicurato, io sarei dovuta uscire.
Tsé.
-“Non crederai mai con chi sono rimasta a parlare fin ora.”, mugugnai in risposta, fissando ostinatamente in avanti.
-“Con la Delacour..”
-“No”, mi voltai a guardarla e, prima ancora che potessi informarla, chiuse il libricino che teneva tra le mani e mi scagliò un’occhiatina allusiva.
-“Non dirmi che c’è William qui?” Il suo tono rispecchiava esattamente l’espressione del suo viso. E a dirla tutta, non feci fatica a capire come fosse arrivata alla giusta conclusione, nel vedere il mio riflesso sbigottito nei suoi occhi nocciola. Ma ero molto di più che sbigottita, sia chiaro, ero arrabbiata, confusa... delusa. Delusa per motivi irrazionali che la mia mente non comprendeva.
-“E’ così romantico, Emily.”, mi destò dai miei pensieri Jamie che, ora, aveva il volto da classica sognatrice incallita. L’incenerii con uno sguardo truce ma, anziché zittirsi, perseverò.
-“Ha dovuto abbandonare il lavoro per chissà quali motivi, costretto a lasciare la sua dolce e indifesa donzella nelle grinfie...”, si guardò intorno circospetta e, abbassando il tono della voce, continuò, -“... nelle grinfie della madre. Ed ora, eccolo! Che compare per ricongiungersi alla sua amata”, concluse, -convinta-, con fare teatrale.
La guardai, sinceramente allarmata.
-“Tu, Jamie Sandford, hai dei seri problemi”, commentai, voltandomi e incrociando le braccia. Lei mi indirizzò una gomitata e cercò di mantenersi seria.
-“Sul serio, amica mia, cosa voleva? Perché è venuto fin qui?”
Sospirai. Non sapevo cosa rispondere. Potevo dirle la verità, cioè che lui aveva fatto tutta quella strada per mettermi sull’attenti su qualcosa di... di astratto, di assurdo? Socchiusi appena le labbra per sussurrarle che avremmo ripreso l’argomento dopo, in collegio, quando il vociferare intorno a noi smise. Il prete aveva iniziato la messa. E nella mia testa presero vita pensieri che dovevano rimanere lontani: lo strano presentimento con cui mi ero svegliata, la zingara e la sua premonizione oscura e, non da meno, William. Scossi la testa, con un grande, immenso, punto interrogativo sulla fronte. Perché tutto mi appariva così tremendamente e strettamente collegato? Perché, quel giorno, qualche forza divina o chicchessia, aveva deciso che io, Emily Collins, dovevo perdere la mia sanità mentale? Buttai fuori una manciata d’aria e mi concentrai nel seguire la celebrazione.
Quando toccò a me recarmi vicino all’altare per svolgere l’incarico che mi era stato assegnato, pareva che il tempo si fosse fermato e che stessimo lì dentro da ore. Ore inesorabilmente lunghe. Con lo stesso passo di una condannata al patibolo, mi trascinai di fronte al leggio, imprecando interiormente. Cercai di mantenere la calma. Presi a leggere, non curante del tono atono che aveva assunto la mia voce quando, d’improvviso, fui colpita da un violento giramento di testa. Dovetti aggrapparmi al leggio di ebano per sostenermi in piedi, ma per poco non lo trascinavo a terra con me. Vedevo gli sguardi dei presenti straniti, confusi, così mi scusai per l’interruzione e...
D’improvviso!
Vidi la Delacour emergere dalla quarta fila, gli occhi sbarrati e le labbra che si muovevano liberando parole che naturalmente non udivo, e non comprendevo nemmeno concentrandomi sul suo labiale.
Vidi tutta la massa di persone presenti alzarsi e agitarsi, gridando e strillando ai propri bambini di far silenzio dopo che avevano iniziato a piangere.
Sentii il pavimento tremare, rumori di oggetti che si infrangevano al suolo rompendosi.
Non sentii più le gambe. Volevo mettermi al riparo ma, come se fossero estranee al mio corpo, non reagivano ai comandi.
Ero inspiegabilmente paralizzata.
Urlai a perdifiato in quel clangore ma nessuno badava a me: tutti erano troppo occupati a correre al riparo; così provai a muovermi, ottenendo il disastroso risultato di accasciarmi sul leggio, non avvertendo nemmeno una minima resistenza nelle braccia. Le mie ultime possibilità di uscire fuori da quel trambusto infernale si chiamavano Jamie e Nicole. E loro non c’erano. Non le vedevo. Non le sentivo. In compenso mi accorsi di un’altra persona, l’unica che era rimasta immobile e che, miracolosamente, fissava me.
-“Miss Delacour!”, gridai a pieni polmoni, così tanto da esser sicura di aver superato le urla di tutti, anche perché percepii il tremore delle mie corde vocali. Lei, però, non si mosse di pezzo e sentivo la forza dei suoi occhi indifferenti farmi cedere sempre di più. Ancora di più.
Le dita che si aggrappavano al mio unico e traballante sostegno cominciarono a scottare, fremere ed informicolirsi. E caddi annientata da una forza invisibile, da un macigno immaginario che si era schiantato sul mio piccolo corpo. Ma ben presto si sarebbe schiantato anche quel macigno di legno, quello reale sopra la mia testa, il quale dondolava similmente ad un orologio a pendolo. Come se volesse lasciarmi il tempo di sfuggire dalla mia fine annunciata.
Ma non c’era scampo, perché ero paralizzata! Forse era la paura, il presentimento che si concretizzava, quelle fandonie che poi, sorrisi amara, non erano.
Fu la prima volta dalla morte dei miei genitori che quasi scoppiai in lacrime ma, come se li avessi richiamati dall’aldilà, nel buio dei miei occhi chiusi presero forma. Li vedevo, i miei genitori.

Mia madre, il suo solito viso in tensione ma bella. Bella come una dea. I suoi grandi occhi verdi, le sue candide mani di neve imprigionate in quelle di mio padre.
Mio padre, imperatore dallo sguardo dolce, che fissava mia madre come se si stesse innamorando di lei in quel momento.
Caroline.
Marissa.
Erik.
Jamie.
Nicole.

William.

Riaprii gli occhi di colpo, esalando un respiro agonizzante come se riprendessi a vivere in quell’istante. Trasalii, urlando, quando vidi gli ultimi due fili spezzarsi e la croce precipitare. Volsi lo sguardo strizzando gli occhi e portandomi istintivamente le braccia intorno al capo come se fossero un misero scudo improvvisato.
-“EMILY!” Non era stata una voce, ma un grido sovraumano.
Poi uno spostamento inatteso, il rumore dell’ammasso che si era scontrato col suolo dove nel mezzo non c’ero più io. Rapidamente individuai la causa, il miracolo, e constatai di essere avviluppata contro un corpo, quello di William. Mi aveva abbracciata e con una spinta mi aveva salvata; sorvolammo il pavimento e strusciammo contro una porticina di vetro che conduceva ad un lungo corridoio scuro. Il vetro si infranse sui nostri corpi stretti e tutto il frastuono si spense, così come si era creato. Improvvisamente.
Ci ritrovammo in un mare di schegge e percepivo il battito del cuore nella mia gola; poi William mi scostò un poco, quel tanto che bastava per farmi premere le spalle al pavimento. La testa che mi girava, l’adrenalina, la paura che sapeva di morte, non mi permettevano di avere una visione nitida e perfetta, così come non mi concedevano una sufficiente lucidità.
-“Non ti muovere”, mi ordinò scandendo bene le parole e la sua mano saettò sul mio collo da dove estrasse una lunga scheggia. Fu proprio l’attimo dopo che i miei nervi si rilassarono fino a farmi perdere il contatto con la coscienza.




Ero sveglia già da un po’. Non saprei dire con esattezza quanto io sia rimasta priva di sensi; infondo non me ne importava poi granché vista la causa per la quale mi ritrovavo sdraiata lungo una panca di legno. Qualcuno, con molta amorevolezza, aveva depositato sopra il mio corpo una copertina sfilacciata di lana color del pesco. Ancor prima di fare mente locale, giunsero alle mie orecchie voci e melodie ovattate, conosciute. E fu in quel momento che capii di ritrovarmi ancora in chiesa ma in un corridoio lontano dalla sala della celebrazione. Credevo che mi avessero lasciata sola lì, aspettando che ritornassi in me, però poi, un sospiro, o forse uno sbuffo, mi fece ricredere. William era in controluce e fissava la vetrata ricoperta di pioggia, in un’immobilità rigida. La sua figura sembrava addirittura più magra di quanto lo fosse realmente. Intorno a noi la stanza era in penombra, un’oscurità che quasi ti schiacciava. Sentivo il mio corpo indolenzito, specialmente lungo i fianchi dove William aveva affondato le mani per allontanarmi dalla tragedia. Mi tirai su lentamente, mordendomi la guancia dall’interno per evitare di gemere. Mi misi seduta, - ancora accoccolata nella coperta-, e mi concentrai sulla schiena di William. Non si era accorto che mi fossi alzata, ed io non potevo credere che fosse rimasto di nuovo a vegliare su di me. E, soprattutto, non potevo credere che avesse ragione... riguardo la croce. Era tutto così inspiegabile che la mia testa vorticò per un secondo.
Mi passai una mano tra i capelli e feci per parlare, ma subito desistetti: in quel silenzio quasi incantato la mia voce sarebbe stata solo un sussurro snervate; avrei, inoltre, privato a William quel momento per riflettere. Lo vedevo, davvero. Il suo profilo lievemente illuminato mi poteva solo far intuire che stesse impegnato in un monologo interiore, intimo. Ed io non volevo violarlo. Strinsi la copertina di lana intorno alle mie spalle cercando di non pensare a quanto timore mi stesse trasmettendo. Ogni tanto mi domandavo se lui fosse consapevole di questo. Se il pensiero di incutere timore agli altri, attraverso quegli occhi così enigmatici, lo percuotesse ogni tanto. Per me, lui, rimaneva comunque un enigma assai raffinato. E mentre pensavo tutto questo sentii dentro di me qualcosa sciogliersi. O meglio, distruggersi. Sbriciolarsi e disintegrarsi in tanti piccoli frammenti, come in quelli in cui c’eravamo trovati dopo lo schianto. Ma questi erano più affilati e provocavano più dolore, se possibile. E si concluse la mia sceneggiata. La mia ostinata resistenza a qualcosa che, lo sapevo, non avrei più potuto nascondere.
Troppo orgogliosa per ammetterlo, forse.
Conoscevo William da quanto? Cinque giorni? Una settimana?
Poco m’importava, sinceramente. Magari sapevo troppo poco di lui o, al contrario, il giusto. Abbandonando il collegio aveva portato con sé una parte di me, -quella speranzosa di attenzioni, quella infantile, quella che temevo-, e adesso me l’aveva riportata, senza preavviso. Premetti la schiena contro la parete ruvida e inclinai il capo verso l’alto e raccolsi il coraggio per ammettere –finalmente- l’esistenza di emozioni nuove e dai sapori contraddittori: ero ossessionata da lui. Malata per colpa della sua misteriosa persona. Intossicata dalla sua presenza; a tratti asettica o calda. Però, paradossalmente, mi ritrovavo in circostanze (come questa) che non sapevo chi avevo di fronte. Se il premuroso ragazzo gentile dallo sguardo cristallino oppure il ragazzo improvvisamente freddo e petulante. Sospirai lievemente, e con il gomito feci scivolare la copertina che mi teneva al caldo sul pavimento. Quell’impercettibile fruscio fece voltare William verso di me, lentamente. Metà del suo volto fu illuminato da un lampo saettante e intravidi qualcosa di diverso in lui. Qualcosa che non faceva parte del suo volto duro, della sua postura lontana quasi pietrificata; bensì, nei suoi occhi. Una luce estranea, più indecifrabile del solito ma che pareva spogliarti persino della tua pelle. Allora mi portai le ginocchia al petto, avvolgendole con le mie braccia dalla pelle d’oca senza smettere di fissarlo. L’oscurità velava metà del suo viso, i contorni del suo corpo apparivano confusi. O forse dovevo ancora riprendermi del tutto...
Ma bastò un attimo, - un battito di ciglia-, a farmelo ritrovare davanti senza nemmeno che me ne accorgersi. Avrei voluto parlare; chiedergli che cos’era che non andava, e, soprattutto, domandargli come faceva a sapere che tutto ciò sarebbe accaduto. Ma le parole rimasero incastrate nella mia gola e le mie labbra serrate. Poi un sibilo, un lamento e lui parlò.
-“Te lo avevo detto di uscire. Te lo avevo detto. Te lo avevo detto!”, ripeté a denti stretti e guardandomi con spaventosa sofferenza.
-“Will...”
-“No!”, m’interruppe inginocchiandosi di fronte a me, -“ora è tutto più difficile!”, sbottò mettendosi le mani nei capelli, senza smettere di guardarmi con gli occhi colmi di lacrime. Quell’immagine mi stava scuotendo, fuori e dentro. Il mio cuore batteva a ritmi veloci e intensi, e la mia mente pareva scollegata. Improvvisamente mi sentii avvolta dal gelo e mi venne l’impulso di alzarmi, spingerlo via e scappare. Anche se, una piccola ma potente parte di me avrebbe voluto sporgersi per abbracciarlo e tranquillizzarlo.
-“Tu... tu lo sapevi”, balbettai, poi, con una voce che faticai a riconoscere. Non pareva la mia. Lui alzò il capo di scatto, rimanendo a guardarmi in silenzio e in perfetta immobilità. Rimase così per una gran manciata di secondi, -o forse minuti interi-, che mi permisero di studiare il suo volto impenetrabile illuminato solo dalla penombra.
-“Tu lo sapevi”, ripetei con maggiore fermezza. Ostentando una sicurezza che in realtà non possedevo. Lui ritornò in piedi e mi diede le spalle per recarsi accanto alla finestra. Lo vidi stringere i pugni e appoggiarsi al muro della cripta.
-“Non è facile da spiegare, Emily”, mi rispose con lo stesso tono di poco prima.
-“Posso immaginarlo, ma credo di dover sapere arrivati a questo punto. Non credi?”, insistetti, consapevole di addentrarmi in qualcosa che forse avrei faticato a comprendere. O forse no.
Prima di voltarsi scagliò un colpo contro il vetro e, se non fosse stato per quel buio pesto e pressante, avrei giurato di veder intorno al suo pugno una crepa.
-“Se solo mi avessi dato retta non ci saremmo ritrovati in questa situazione! Se solo fossi uscita come mi avevi promesso di fare; Dio, Emily, cosa ti ha fatto cambiare idea?” Ora era infuriato, e mi scagliò un’occhiata che mi trafisse. Mi sentii attraversata dal suo dolore, dal suo tormento, dalla sua collera nei miei confronti.
Deglutendo risposi.
-“Ti avevo mentito: non sarei uscita da questa chiesa dopo le tue parole. Perché non ci credevo, perché non aveva senso farlo... ecco, il motivo.”
-“Non aveva senso, dici?”, quasi gridò, avvicinandosi con tre pesanti falcate. Annuii con vigore.
-“Cosa avresti fatto se al posto mio ci fossi stato tu?”, lo interrogai, con ansia malcelata.
William grugnì qualcosa di incomprensibile e ogni tanto apriva la bocca come se fosse in procinto di esternare una frase di senso compiuto. Ma desistette sempre.
-“Hai ragione tu.”, soffiò, poi, dopo una breve esitazione -“io sapevo che quella croce sarebbe crollata su di te”, ammise, con voce arrendevole e il suo capo si poggiò sul palmo teso.
Era decisamente crollato.
-“Ma in che modo sei stato a conoscenza di tutto questo?”, lo interrogai, preparando ad accogliere ogni sua singola e imminente parola.
-“Quasi due mesi fa, quando ancora mi trovavo in Francia, feci un sogno: c’era una ragazza di fronte al leggio di una chiesa e, sopra la sua testa si ergeva una grande croce di legno.”, iniziò senza cessare di immergersi nel mio viso,-“improvvisamente vi fu una scossa e la croce che prima era immobile prese a muoversi fino a precipitare sulla ragazza. E a quel punto mi svegliai, sudato e con il cuore che impazzava nel mio petto. Dopo quella notte trascorsi il giorno completamente intontito, -se non sgomentato-, per quanto tutto mi parve reale. La sera mi si riproposero quelle stesse immagini. E anche la sera dopo. E la sera dopo ancora. Quella ragazza eri tu, Emily.”
-“Io?”
-“Si. Puntualmente, ogni notte, i sogni ricominciavano e il tuo volto tornava a confidarmi la tua paura. Quando poi la visuale si allargava era quasi sempre troppo tardi, e tu finivi vittima di quella croce. Ho cercato in tutti i modi di farti evitare di metter piede qui dentro, con la consapevolezza di addentrarmi in un’impresa ardua.”, spiegò, mentre il suo tono tornava più cauto e le lacrime scomparivano dal suo volto.
-“E così si è rivelata.”, commentai, forse più a me ricordando i suoi metodi, che a lui,-“ma prima di quella volta in chiesa, quando eri da solo sull’altare, noi non ci eravamo mai visti.”, gli feci notare, avida di spiegazioni.
-“Fin dapprincipio ho sempre sostenuto a me stesso che non mi trovavo di fronte a un semplice incubo. Era qualcosa di più potente perché repentino e ossessionante, a tal punto di avere timore di addormentarmi la notte. Assorta questa consapevolezza mi sono allontanato dalla Francia per giungere qui, a cercare quella ragazza che, guarda caso, indossava la divisa del collegio di mia madre.”, rispose, con un mezzo sorriso soddisfatto e compiaciuto.
-“Quando poi ti vidi quel giorno in chiesa ho provato... non lo so... una serie di emozioni. Eri lì, a pochi passi da me, che mi guardavi con quegli occhi tremendamente portatori di malinconia... e ti riconobbi immediatamente.”, mormorò, socchiudendo i suoi come per scavare dentro i miei. Abbassai lo sguardo, trovando la posizione in cui ero seduta improvvisamente scomoda. -“Emily come posso farti comprendere quanto io sia stato male per tutto questo? Credevo di impazzire, che la mia stabilità mentale stesse per annullarsi di fronte ai miei occhi.”. -“Figurati la mia”, soffiai.
A quella risposta udii un verso, e poi William ferì il buio posando la sua mano sulla mia spalla. Dunque ritornai con il capo alzato e riprese a parlare. In un certo senso fui lieta che gli si fosse sciolta quella parlantina confidenziale; non riuscivo ancora a comprendere cosa stessi provando in quel momento.
-“Ti ricordi quando, parlando, ti accennavo a una mia missione?”
Annuii.
-“Era questa? Salvarmi?”
-“Esattamente”, rispose cauto. –“Ti ricordi, anche, quando mi dissi che quel giorno i canti erano stati annullati? Ho creduto che forse il pericolo era scampato una volta per tutte e venni qui, in chiesa, per vedere se la croce fosse stata issata. Ma non c’era, e credei che il mio incubo fosse giunto al termine, che tutto ciò era solo uno scherzo del destino.”, ridacchiò nervosamente,-“mai stato più meschino, il destino. Perché poi mi comunicasti che, sì, sareste tornate a provare i canti in questa chiesa.”
-“Quella sera in giardino? Dove poi sei fuggito via con quella strana espressione nel volto?”, domandai, seguendo passo passo i suoi ragionamenti; rivivendo ogni sequenza come una pellicola di un film.
-“Si. Mi sono precipitato qui e appena sono entrato...”, s’ammutolì, sedendosi accanto a me. Ripercorsi la mia paura nei suoi occhi bicolore, la stessa che provava lui nel rivivere il giorno precedente. -“... appena sei entrato hai visto quella dannata croce di legno.”, completai la frase.
-“Che aspettava te. Solo te. Ed io ero l’unico che fosse a conoscenza che tutto ciò che mi stava circondando non era solo frutto della casualità o della mia mente contorta.”, stirò un mezzo sorriso, poggiando i gomiti sulle ginocchia, fissando la finestra che veniva pungolata dalla pioggia. Già, il clima ideale per venire a conoscenza di realtà che credevo appartenenti solo alle favole. A favole dai richiami e risvolti dark, perlomeno.
-“Ero disperato.”, proseguì,-“non sapevo più come fare per farti allontanare da qui. Ti ho cercata, ti ho seguita, ti ho chiesto se volevi venire a colazione con me il giorno in cui credevo succedesse la tragedia, ti ho rinchiusa nel confessionale... per fortuna ho avuto quei riflessi pronti. Quella potenza di cui non ero lontanamente consapevole.”, commentò, volgendo lo sguardo sul mio. -“Quasi mi sento in colpa per tutto questo.”, sbiascicai,-“ma so anche che, se mi avessi detto la verità non ti avrei mai creduto e forse sarebbe stato davvero troppo tardi.”, valutai, conoscendo il mio –ex- lato scettico di guardare qualcosa che fosse lontana dalla realtà. Mi sporsi verso William e gli afferrai una mano, quasi senza pensarci. Lui parve sorpreso del mio gesto e mi guardò dolcemente, quasi imbarazzato dalla mia espressione di gratitudine.
“Devo ringraziarti, Will. Il tuo dono mi ha salvato la vita, e nemmeno mi conoscevi. Davvero, grazie. Non so che altro aggiungere, probabilmente realizzerò domani.”
Sorrise, e i suoi occhi liquidi divennero come cristallo, un frangente di mare cristallizzato.
-“Come avrei potuto vivere ignorando la tua sorte? Se così avessi fatto, oggi sarei in Francia a snocciolarmi nel dolore e nel senso di colpa che mi avrebbe accompagnato per l’intera mia esistenza, Emily”, rispose prontamente.
-“E’ la prima volta che ti capita di sognare cose che poi accadono sul serio?”, chiesi, mentre un potente tuono ci saturò le orecchie. Lui corrugò la fronte e annuì titubante.
-“O almeno da ciò che ricordo sì, è la prima volta. Mia madre, poi – come se non fossi abbastanza angosciato dalla situazione-, non mi ha dato molto credito.”
Sobbalzai sulla panca di legno, come se qualcuno mi avesse lanciato un pungo nel centro dello stomaco. Oddio, pensai sorpresa: sua madre era a conoscenza di tutto questo.
-“Più gli parlavo di questa storia e meno mi ascoltava. Infatti, ultimamente litigavamo solo, e mi ha intimato che, -se mai mi fossi intromesso in questa situazione immaginaria-, mi avrebbe cacciato dal collegio. Ho dovuto fare tutto da solo”, mi spiegò, lisciando la mia mano improvvisamente congelata.
Stavolta fui io a confondere i miei pensieri e i miei occhi nella pioggia al di fuori della finestra, tornandomi in mente la sua reazione a dir poco incredibile in tutto quel caos. I suoi occhi indifferenti, la sua mancanza di paura... il fatto che era emersa dalla quarta fila un istante prima del terremoto. Trasalii e William mi fece voltare verso di sé, domandandomi.
-“Va tutto bene?”
-“S-s-si. Mi gira solamente la testa”, sussurrai, ancora con il viso di lei impresso nella mente.
-“Sono tutti di là”, mi informò improvvisamente, volendo intuire i miei mormorii interiori.
-“Non voglio rimanere a cantare, William.”
-“Ti porterò via, al collegio. Ci inventeremo che non ti senti molto bene, che sei spossata.”, mi suggerì, con una luce nuova sul volto finalmente tranquillo. Non era più remoto, lontano, ostile; e la paura che avvertivo riguardo la sua persona era svanita non appena mi rivolse quel benedetto sorriso e quella maledetta spiegazione. Io annuii con la testa che poi, dovevo ammetterlo, ero assai scossa e infiacchita.
Ma ora c’era dell’altro che in realtà mi premeva: alla luce di questi chiarimenti, di queste rivelazioni incredibili... lui cosa avrebbe fatto? Il nostro rapporto sarebbe evoluto, ora? Sì, adesso che sapevo di provare un’attrazione per lui? Sarebbe tornato ad aiutare il signor Murfy con le manutenzioni, il giardino e tutto il resto?
Lo speravo con tutto il cuore e, mentre esaudivo la mia preghiera silenziosa, mi sorpresi ad accarezzargli la mano. Lui mi guardava stupito, con un velo malizioso sul bel volto, inclinando leggermente il capo mi invitò a parlare.
-“Stai per dire qualcosa.” La sua voce era un sussurro cauto, talmente debole che si mischiò con le voci lontane del coro. Quelle che avevo dimenticato ma che erano rimaste come sottofondo fin dal mio risveglio.
-“Volevo chiederti se tornerai a lavorare per Simus”, soffiai, diretta e speranzosa. Oltre i chiari e scomposti capelli che gli coprivano la fronte notai le sue sopracciglia arcuarsi, meravigliato.
-“E’ una cosa a cui non avevo pensato, adesso.”
-“Torna”, lo incoraggiai tentando di persuaderlo,-“non c’è più nulla da temere. Il tuo dono è al sicuro con me.”
Si morse per un breve istante il labbro inferiore, poi guardò le nostre mani intrecciate e, evidentemente, fu attraversato da qualche pensiero che lo turbò perché, quando ritornò con lo sguardo su di me, i suoi occhi erano in tempesta.
-“Tu lo vorresti?” Ora la sua voce pareva assumere una nuova sfumatura che mi informicolì la pelle.
-“Mi farebbe molto piacere. Sì, lo vorrei.”
A quel punto si alzò, abbandonando dolcemente la mia mano. Dunque lo imitai e mi parai di fronte a lui, proprio nel momento in cui cessarono le voci e le lontane melodie. Leggevo nella sua espressione che stesse valutando la mia proposta ma, quando si decise ad aprir bocca le sue parole mi spiazzarono:
“Tornerò, a meno che tu non stringa un patto con me.”
Confusa e con la fronte corrugata all’inverosimile balbettai qualcosa prima di rispondere sul serio. Il corridoio pareva stringersi intorno a noi, tutto, sembrava così improvvisamente ingombrante. -“In che senso? Non capisco.”
Lui sospirò, un po’ meno quieto di prima.
-“Un patto. Una promessa. Io tornerò in collegio ma ti chiedo, ti supplico, di non farmi più domande.”
Rimasi fissa nei suoi occhi, perdendomi in quel blu e in quel castano infuocato. Non avevo ancora capito, non riuscivo a comprendere a cosa si riferisse; forse a ciò che mi ha detto fin ora. Non voleva pressioni da parte mia sull’accaduto perché già era difficile per lui conviverci. Già, doveva essere così.
-“Va bene. Te lo prometto”, acconsentii senza rimuginarci ulteriormente. Lui fece cenno che aveva capito con la testa e un nuovo lampo illuminò l’intera stanza. Cielo, se era più magro dall’ultima volta: le sue guance erano leggermente scavate, i suoi zigomi tondi ancor più sporgenti e, il dettaglio che lo rendeva ultraterreno, erano quelle marcate linee violacee sotto i suoi occhi. C’era di positivo che, nonostante lo vedessi più gracile, il suo corpo era sempre impeccabilmente perfetto oltre quei vestiti scuri.
-“Forse è meglio avvisare che ti sei ripresa. La professoressa Belfiore e le tue amiche (in particolar modo) sembravano dovessero stramazzare al suolo dalla paura.”
-“Oh cielo! Devo and...”, esclamai e fu proprio in quel mentre che le labbra di William toccarono per la prima volta la mia fronte. Ci rimasero teneramente per una bella manciata di secondi, scanditi intensamente dal battito impazzito del mio cuore che, nella mia cassa toracica, pompava come un ossesso. Un leggero schiocco mi avvisò che si fossero staccate, e fui investita dall’odore fresco del suo respiro e dalla sua risatina. Lo guardai, non sapendo con quale sguardo lo stessi facendo.
Era la prima volta che si concedeva un contatto del genere con me. Era la prima volta, davvero, che desideravo non doverlo lasciare. Sorrisi imbarazzata di fronte alla sua schiera di denti.
-“Andiamo, ti faccio strada.”, si offrì, conducendomi sottobraccio nella realtà che aspettava solamente il mio ritorno.


Arrancai controvoglia in mezzo a quel muro di folla che si era andato a formare non appena dalle labbra di Will uscì un flebile e roco “Ehi, siamo qui.” Controvoglia perché mi ero talmente abituata a quella strana intimità che ci aveva avvolto, - così strana che attutì l’impatto delle sue parole sulla mia mente razionale all’erta-, che staccarmene mi recava quasi un fastidio fisico. Intorno a noi si era creato un cerchio di bocche petulanti e squittenti che non ci permettevano nemmeno di controbattere o rispondere alle loro domande. Sentivo le mani di Jamie intorno alla nuca e le braccia di Nicole che avvolgevano saldamente i miei fianchi; nel frattempo in cui cercavo di liberarmi dalle due, i miei occhi ne incontrarono un altro paio. Avrei sfidato chiunque a dirmi di non ritrovarsi agghiacciato e impaurito di fronte a quello sguardo ostile. Oh, molto più che ostile... ma non possedevo la capacità necessaria per trovare un aggettivo adeguato a descrivere lo sguardo iracondo della preside Jennifer Delacour. Smisi addirittura di divincolarmi perché, proprio come era successo un istante prima, nel guardarla, sentivo cedermi le forze. E questa cosa non mi piaceva per niente. -“Ragazze, per favore lasciate respirare la vostra amica”, le pregò dolcemente la professoressa Belfiore che, senza rendermene conto, mi era piombata di fronte, e ora cercava di tirarmele via -“o non vorrete che si senta male come le altre vostre compagne che sono andate all’ospedale. Cielo, gioia, come ti senti?”, mi domandò accarezzandomi il mento.
-“Non molto bene.” Non sapevo nemmeno più se fosse una bugia o meno, la mia risposta.
-“Naturalmente Emily si sente spossata, prima le girava la testa e sembrava dovesse rimettere da un momento o l’altro. Si è appena ripresa, io la porterei al collegio in fretta. Lo shock è stato molto più forte per lei che per le altre”, si intromise William e il suo tono di voce era come il suo sguardo: persuasivo. Tant’è che mentre parlava la Belfiore non faceva altro che annuire. Peccato solo che William non si stesse riferendo a lei ma a sua madre. Lei si avvicinò a noi, con calcolata lentezza, e dall’alto ci scrutò con la sua solita espressione immutabile.
-“Portala via.”, dichiarò lapidaria, e strabuzzai gli occhi nel sentire il suo tono leggermente arrendevole. Un tono che contrastava fortemente con la volontà che le si leggeva negli occhi. Tornò a fissarmi, a tuffarsi nella mia anima con le iridi quasi bianche per quanto azzurre. Come se avesse risucchiato il bel tempo che c'era e lo avesse catturato negli occhi.
-“Sei stata fortunata.”, mi disse tra i denti, accennando un fugace sorrisino, ma non sembrava particolarmente contenta di questa constatazione. Preferiva forse che quella croce mi schiacciasse?
Io, in risposta, annuii con la testa e mi sforzai di ricambiare quel sorriso, seppur appena accennato. In quell’attimo mi chiesi dove fosse finita la donna stranamente serena con cui avevo scambiato due battute contate la sera prima; quale creatura alberga, di nuovo, nel suo corpo? O forse erano solo mie paranoie? La mano di William che si appoggiò sulla schiena mi fece distrarre e persi quei pensieri, lasciandoli correre via. Magari la Delacour era solamente spaventata; infondo era consapevole quanto me del dono del figlio, e ciò che aveva in qualche modo predetto era accaduto lasciandola di sasso. Letteralmente di sasso. E, sì, doveva essere così, è un dato di fatto più che comprensibile.
-“Andiamo?”, chiesi d’un tratto, con una punta di impazienza nella voce.
-“Sì, ti riporto al collegio così potrai tranquillizzarti.” William strizzò l’occhio destro e mi condusse fuori dalla chiesa, sotto gli occhi e i mormorii di tutti. Fui così lieta di poter rimettere il naso fuori da quel piccolo inferno che, quando sentii l’aria fresca di pioggia, mi passarono lunghi brividi sul collo e sulla schiena. Fortunatamente aveva smesso di piovere e raggiungere l’auto di William risultò facile. Era parcheggiata molto più in là di dove ci trovavamo; aprì la portiera e si precipitò nella sua postazione, io mi accoccolai sul sedile e constatai che lì dentro faceva freddo quanto fuori. Così mi sfregai le braccia per riscaldarmi.
-“Hai freddo?”, mi chiese, mettendo in moto.
Mi strinsi nelle spalle.
-“Perché tu non senti che qui dentro si gela?”
Non mi rispose ma accese il riscaldamento che in quel momento mi parve l’invenzione più utile e bella del mondo.
Passammo nelle vie centrali dove negozi, lampioni e passanti sfrecciavano veloci sotto i miei occhi. C’erano miriadi di persone ignare di tutto ciò a cui avevo assistito e di cui ero a conoscenza. Mi soffermai in particolare su una donna e suo figlio che attendevano lo scoccare del semaforo e mi chiesi quale sarebbe stata la loro reazione se fossero stati al mio posto. Se avessero, come me, assorbito la questione. Erano a pochi metri da noi e non potevamo immaginare che, vicino al mio fianco, c’era una persona con un dono incredibile. Forse il bambino lo avrebbe indicato con il ditino e avrebbe esclamato “ma allora sei un eroe!”; forse la madre avrebbe afferrato il suo piccolo e, lanciandogli un’occhiata stralunata sarebbe fuggita via, pensando a quanti pazzi possano esistere nel mondo. Chi può saperlo...
Mi voltai verso William e sussultai leggermente nel vederlo che mi scrutava divertito.
-“A che pensavi?”, mi domandò sorridendomi. Forse se lo immaginava senza che gli rispondessi.
-“Mi stavo figurando il modo in cui avrebbero reagito tutte le altre persone al mio posto.” William crucciò il labbro, come se stesse condividendo i miei stessi interrogativi in quell'istante.
-“Mmm. E come pensi avrebbero reagito?”, chiese dopo qualche secondo di apparente riflessione.
-“Beh”, mormorai aggiustandomi una ciocca di capelli umida dietro l’orecchio, -“qualcuno sano di mente sarebbe scappato urlando, terrorizzato dall’intera situazione. Ma si dia il caso che io non sia molto sana di mente perché altrimenti l’avrei fatto.”, proseguii cercando di trattenermi dal ridere, cosa che William non fece.
La sua risata era cristallina, divertita, pareva stesse sottovalutando la mia risposta e l’intera questione. O dissimulando.
-“Allora Emily”, disse smettendo poco a poco di ridere, -“potresti farlo ora che stiamo fermi. Esci dalla macchina e scappa urlando.”, sghignazzò, facendosi beffa del mio fare indifeso e ingenuo. Ora, invece, fui io a ridere scuotendo il capo.
-“No, grazie. Tutto ciò che voglio è tornare nella mia stanza.”
E che tu rimanga una volta per tutte. Ma quest’ultimo pensiero lo tenni per me.
Stavo per aggiungere dell'altro, una battuta, tanto per non fargli intendere il mio pensiero che, lo sentivo, si era manifestato sul mio volto; quando dietro di me - ero rivolta con le spalle al finestrino tirato su- sentii dei forti colpetti che mi fecero voltare di scatto. Ora non so bene che giro abbia fatto per trovarsi di nuovo a faccia a faccia con me, ma c'era solamente uno strato di vetro a dividermi dalla zingara. Prima che William potesse abbassare il finestrino afferrai prontamente il suo braccio sussurrando un "no"; benché fosse di cattiva educazione non avrei permesso ancora a quella donna di terrorizzarmi.
-"Non voglio ascoltare nient'altro", obiettai dandole deliberatamente le spalle,-"non permetterò ancora che le sue parole divengano profezia!"
William mi guardò con l'espressione di chi non ha capito il senso delle parole della persona con cui sta comunicando, ma nonostante quella leggera titubanza accontentò la mia supplica. Percepii chiaramente parole gracchiate e le preghiere che recitava fuori dal finestrino ma mi intimai interiormente di far finta di nulla, di cantare -addirittura- mentalmente qualche motivetto nascosto nei meandri della mia memoria. L'unica melodia era quella di "Last Christmas" di George Michael. Proprio in tema con il periodo.
-"Cosa vuole da te? Sembra smaniosa di parlarti. Ma la conosci questa donna?", mi domandò dopo un breve istante. Scossi piano la testa spiandola con la coda dell'occhio, poi ritornai con l'attenzione verso il mio interlocutore.
-"No, che non la conosco. Ma questa mattina mi ha fermata all'entrata della chiesa e mi ha...", deglutii, -"mi ha avvisata su ciò a cui andavo incontro."
-"Della croce?" Sembrava incredulo, per non dire scosso che qualcuno oltre a lui sapesse.
Io alzai le spalle e proseguii.
-"Veramente no, cioè mi ha riferito che la mia linea della vita è corta. E che mi stava per succedere qualcosa di brutto. Poi sono entrata in chiesa."
Il semaforo scattò.
Partimmo e lasciammo la pover donna indietro, in mezzo alla strada ancora intenta a fissare noi che ci allontanavamo dalla città. Sentimmo lo schiamazzare dei clacson che le ordinavano di togliersi d'impaccio. William tirò un lungo sospiro.
-"Su questo non so cosa dirti."
-"Riguardo a cosa?", domandai, riprendendo una posa più aggraziata.
-"Alla tua linea della vita", replicò, scoccando un'occhiata fin troppo seria alle mie mani intrecciate. Stiracchiai un risolino insolito, lo ammetto, ma William non poteva prender in considerazione quell'assurdità. Seppur mi provocasse terrore pensarci.
-"Non devi dirmi niente, riguardo questo. E' una sciocchezza..."
-"Però ti ha avvertito che ti stava per accadere qualcosa di brutto, e si è avverato o no?" Si voltò per poco verso di me, penetrandomi con lo sguardo. Borbottai guardandolo di sbieco. -"Coincidenze. Mi ha detto così per via della mia linea troppo corta, doveva per forza dire che mi stava per accadere qualcosa di tragico. Mi segui?"
Lui annuì.
-"Per cui possiamo anche non parlarne", chiarii, smaniosa di gettarmi quella storiella alle spalle. Fandonie!
-"Però ne sei terrorizzata", rise.
Pochi minuti dopo eravamo già all'entrata del collegio. Il silenzio che regnava era ancora più innaturale e spettrale di quanto non lo fosse di consuetudine; ma l'unica cosa che mi premeva era essere giunta a destinazione e William. Forse lui più di tutto. Scendemmo dalla macchina contemporaneamente e lo affiancai, quasi, come se inconsciamente fossi impaurita dal fatto che potesse scomparire sotto i miei stessi occhi. Mi accennò un sorriso e mi invitò a proseguire verso l'entrata quando, in lontananza, scorgemmo una figura tarchiata agitare un braccio verso di noi. -"E' Simus", mi informò William, scrutandolo per meno di un secondo. Arrischiai la vista e potei confermare che era proprio lui, il signor Murfy, armato di tubo verde in spalla e una cassetta rossa degli gli attrezzi in mano. Ci raggiunse ansimando, offrendoci un'occhiata assai stralunata.
-"E voi? Che ci fate qui? Soprattutto tu", mi puntò il dito contro, ma il suo tono di voce non era affatto intimidatorio come potevano sembrare le sue parole.
-"Ho dovuto riportare Emily in collegio, Simus, perché dopo la forte scossa si è sentita poco bene. Credo che per oggi abbia rischiato molto e mi sembrava opportuno accompagnarla nell'istituto prima del rientro ufficiale.", proferì William, anticipando, come al solito, il mio intervento. Io confermai il tutto annuendo con veemenza.
-"Scossa? Di quale scossa parlate?", sputò Simus, guardandoci con occhi smarriti. Ci scambiammo la medesima occhiata io e William: era del tutto impossibile che il terremoto non si fosse sentito anche al collegio. Lui doveva per forza aver percepito almeno l'eco di quell'inferno che si era sprigionato in pochi secondi. O forse, per assurdo, quell'istituto spettrale era immune a catastrofi, agenti atmosferici o quant'altro? Se qualcuno fosse venuto in quell'istante a confermarmelo non gli avrei riso in faccia, tutt'altro, avrei incassato e portato a casa. Quel giorno avrei creduto anche agli asini volanti.
-"Il terremoto. E' durato pochi secondi ma è stato piuttosto forte."
-"Ma di cosa state parlando?", continuò l'altro, incredulo, e prese ad animarsi, -"qui non si è sentito proprio un bel niente. Sono stato a tagliare l'erba per tutto il tempo e ho parlato con la signora addetta alla cucina per mezz'ora, ma vi dico, e vi assicuro, che di scosse non se ne è parlato."
-"E' quasi impossibile", obiettai, mettendomi a braccia conserte per via del freddo. L'aria era tagliente nel vero senso della parola; sentivo come se qualcuno mi stesse affondando mille artigli nelle parti nude del corpo.
-"Direi impossibile sotto ogni punto di vista", caricò William, contrito.
Simus srotolò il tubo che aveva saldo in spalla e cominciò a bofonchiare qualcosa di incomprensibile anche a noi che eravamo a pochi centimetri da lui; scuotendo la testa si congedò:
-"Meglio che continui a lavorare, o rimarrei a pensare a quanto la vecchiaia incomba sulla mia povera schiena. Ragazzi."
Sorridemmo.
-"A presto."
Fece per voltarsi ma poi, fulmineo, ci impedì di incamminarci puntando nuovamente il dito verso nella nostra direzione.
-"Un momento...", mugugnò, e i suoi occhi danzarono su noi due.
-"Tu, William, non dovresti essere sull'aereo per la Francia?", chiese.
-"Oh, Simus. La mia presenza è per caso sgradita? Ho cambiato idea e ho deciso di rimanere ad aiutarla e a stare in compagnia di mia madre ancora per un altro po' di tempo", si sbrigò subito a rispondere l'altro che mi lanciò la stessa occhiatina complice di poco prima. Io, lieta di aver sentito quella risposta e, in un certo qual senso sollevata per la conferma della sua parola, ricambiai l'occhiata e sfoggiai un sorriso sornione.
Simus volse le mani in cielo.
-"Presenza sgradita? Altre due braccia belle forte ad aiutarmi, beh, non sono affatto sgradite, ragazzo!" Felici di aver rallegrato la giornata del signor Murfy, entrammo subito nel collegio. Era a dir poco spettrale, nonostante la luce riuscisse a filtrare dalle finestre; il silenzio provocato dall'assenza della vita riusciva a far echeggiare l'eco dei nostri respiri. Senza troppi indugi e senza che William mi lasciasse protestare mi fece nuovamente infrangere la regola che nessuna persona -eccetto i qualificati a farlo- entrasse in cucina.
"E' un caso particolare, rispetto al primo. E poi non c'è nessuno e non penso che tu sia così importante da far spifferare dalle cuoche questa piccola infrazione", aveva detto stringendomi amichevolmente la spalla. Aveva ragione, anche stavolta. Così non mi restava altro che seguirlo e, proprio come pensavo, non trovammo la cucina deserta come la prima volta. C'erano le cuoche (facce mai viste prima d'ora) impegnate in impasti, miscele e pentole, quasi non si accorsero della nostra presenza se non fosse stato per l'urto che provocai con un servizio di pentole appigliate alla credenza. Le tre cuoche si voltarono di scatto e una, paonazza in volto per via del vapore in cui era immersa, sgranò gli occhi nel vederci.
-"E voi? che cosa state facendo qui? Non sapete che è severamente vietato metter piede in cucina? Stiamo lavorando, non ci stiamo divertendo", ci sgridò venendoci incontro.
-"Sono William Delacour, figlio di Jennifer Delacour", spiegò William, con una calma invidiabile. Le due cuoche rimaste ai fornelli accennarono un sorriso beffardo sotto i baffi, quasi fossero contente che la loro collega si sia "avventata" contro il figlio della preside.
-"Oh", fece questa, improvvisamente senza favella. Per camuffare un sorriso mi grattai il labbro.
-"Spiacente. Deduco sia successo qualcosa?", riprese a farfugliare pulendosi frettolosamente le mani sul grembiule immacolato. Così ci ritrovammo a dover spiegare l'accaduto e, al suono della parola "terremoto" ci fu uno sbalordimento collettivo.
-"Ma quale terremoto?", sbottò un'altra cuoca, la più anziana, -"non si è avvertito qui. Non riesco a capacitarmi di come sia possibile!"
-"Infatti. Eppure non è stata una scossa leggera", ricordai, stringendomi nelle spalle. Le cuoche mi guardarono con occhi colmi di affetto e mi diedero subito un bicchiere d'acqua.
-"Intanto bevi. Possiamo passarti un pezzo di pane con olio e sale, così ti riprendi... povera piccola."
-"Grazie, siete molto gentili", sospirai con lo stomaco in festa, pronto per digerire qualcosa di commestibile.
Tutto ciò che è accaduto dopo, nel mio racconto, è di poca rilevanza: mangiai, mi ripresi, sorrisi e stetti costantemente al fianco di William. Stando in sua compagnia era come se lo spavento - ed è un eufemismo- fosse solo un lontano e remoto cruccio. Nonostante questo, la quiete fu destinata a infrangersi con l'arrivo improvviso di sua madre. Anche a debita distanza mi accorsi perfettamente dei solchi sul terriccio che provocò il suo passaggio svelto e, a suo modo, agitato. Ci venne incontro senza affanno, senza sudore e si rivolse immediatamente a suo figlio che, tra l'altro, era sorpreso quanto me di quel ritorno a sorpresa. Prima che parlasse udii il brusio delle altre marciare sui passi della preside.
-"William devo parlarti. Potresti seguirmi nel mio ufficio, per favore?", esordì con voce di chi non concederebbe una risposta diversa da quella sottointesa dal suo sguardo. Lui non rispose, non fece nessun cenno; si limitò a staccare le spalle dal muro, lanciarmi un occhiata d'intendimento e scomparire all'interno. Lo seguii con lo sguardo avvertendo una strana sensazione crescere e avvolgersi intorno al mio cuore: avevo paura. Avevo una terribile paura di non vederlo più uscire da quella porta; che sua madre lo avrebbe immediatamente spedito via, in Francia. Deglutii rumorosamente ma Jennifer Delacour non mi concesse ancora nessuno sguardo quando, anche lei, scomparve in quelle mura.
-"Oh, Emily!" Il grido liberatorio di Jamie mi fece distogliere da quei pensieri e, con un battito di ciglia, mi ritrovai nuovamente al collo le sue braccia.
-"Sono stata in pensiero per te, fino adesso!", continuò a gridare anche se mi aveva stretta a sé, -"ho avuto tanta paura. Non ho mai provato una cosa del genere in vita mia!", proseguì stringendomi con più forza.
-"Jamie, anch'io. Ma ti prego non respiro", gracchiai con la gola, credendo che quella potesse essere la mia fine. Lei si staccò immediatamente e tirò sul col naso, sfoderandomi un sorriso tranquillo. -"E' stata così per tutto questo tempo, anche noi eravamo agitate", aggiunse Nicole; in un attimo fui nuovamente circondata da mezzo collegio. Continuavo a rispondere meccanicamente alle loro domande, che stavo bene, che non so per quale motivo non riuscivo a muovermi, a scappare, e che avevo urlato con tutto il fiato che possedevo nei polmoni. Mi parlavano, toccavano, abbracciavano. Anche ragazze che non avevo mai visto prima d'allora eppure, convinte di avermi lì di fronte, in realtà non era così: la mia testa era altrove, non con loro. Alzai il capo verso il quarto piano, indirizzando l'attenzione alle ombre che potevo scorgere dalla finestra a quella distanza, ma tutto ciò che vidi era il sole che stava scomparendo.






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Ciao a tutti! Per prima cosa volevo ringraziare le persone che hanno messo la mia storia tra le preferite e le seguite, a chi ha commentato e chi continua a seguirla.
Questo capitolo è lunghissimo, lo so, infatti è l'unione di ben due capitoli e ho deciso di fonderli per entrare nel vivo della storia senza aspettare troppo. Che altro dire? Mi piacerebbe ricevere un vostro commento, uno scambio di giudizi, per me è molto importante! Un bacione! <3
   
 
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