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Autore: Nidham    06/10/2014    1 recensioni
Breve elucubrazione della mia ladra nel momento piu' triste del videogioco, quando una scelta porta a tragiche conseguenze. Fatemi conoscere il vostro parere, visto che è anche il mio primo tentativo^^
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quella era di gran lunga la migliore birra che avesse mai assaggiato, fresca, profumata e tanto chiara da permettergli di sbirciare la scollatura della procace figlia del locandiere senza dover abbassare il boccale.

Non c'erano molti momenti piacevoli, nella sua professione, ma nessuno avrebbe mai dovuto dire che Zevran il Corvo non avesse saputo approfittare di ciascuno: le brevi soste necessarie a recuperare energie e salute tra un delitto e l'altro erano i suoi preferiti.

L'ultimo lavoro l'aveva lasciato con un paio di costole incrinate e una distorsione piuttosto fastidiosa e ridicola alla caviglia, ma non era colpa sua se non gli avevano dato il tempo per capire che il Bann di vattelapesca, lungi dall'essere il vedovo probo e sconsolato che diceva, passava le notti in compagnia della guardia più massiccia e erculea del suo esercito.

Ad ognuno i suoi gusti, nessun problema, ma la presenza del compagno aveva alzato di un filo la difficoltà del compito, costringendolo ad improvvisare; ad ogni modo erano morti entrambi e lui, invece, era ancora vivo e pronto per la prossima avventura.

Adesso si trattava solo di aspettare, con pazienza, l'arrivo del suo compagno con i dettagli per il nuovo incarico. Sembrava trascorso un secolo da quando era entrato in quella bettola, ma ancora nessuno l'aveva contattato, né aveva riconosciuto volti noti.

“Che se la prendano pure comoda” mormorò tra sé, facendo cenno alla cameriera per un altro giro di bevute. “Non ho fretta di sfoderare le lame, stanotte.”

Sospirò piano, soffiando un leggero pulviscolo di schiuma corposa sulla testa aggrovigliata di un nano addormentato in equilibrio precario sullo sgabello accanto al suo; era molto tempo che non riusciva più neppure a fingere interesse per quella che avrebbe dovuto essere divenuta, ormai, la sua missione e che, invece, si stava trasformando sempre più in un fardello insostenibile. Era certo di essere venuto a patti con la sua recalcitrante coscienza molti anni prima, quando aveva seppellito ogni vago principio morale di cui avesse percepito sentore, pur nel bordello fatiscente in cui era cresciuto, in cambio di qualche livido in meno e di qualche anno di vita in più. Era certo di aver imparato a vivere per come gli era stato concesso, ricambiando l'ironia del destino con un altrettanto ironica indifferenza per qualsiasi cosa lo circondasse, ma quella notte il disagio non voleva saperne di scivolare via insieme al liquore e il respiro continuava a incepparsi in rantoli pateticamente brevi alla base della gola, come se un macigno di dimensioni epocali gli avesse schiacciato il petto.

C'era qualcosa che gli sfuggiva, un prurito inconfondibile sulla punta delle orecchie che lo spingeva a scrutare ogni forma di vita che lo circondasse come se si aspettasse di vederne uscire un mostro con ali di pipistrello e corna di bue.

Era assurdo, non solo perché, al momento, nessuno poteva aver saputo della sua presenza in quell'angolo sperduto di mondo, ma anche perché la taverna era quasi vuota, ad esclusione del nano ubriaco, del locandiere e sua figlia, della cameriera con le lentiggini e il sedere abbondante e di un paio di avventori tozzi e sudici, con le mani ancora sporche di terra dopo una giornata nei campi.

A meno che uno di loro non fosse il miglior trasformista della terra, non aveva motivo di sentirsi tanto insicuro: un uomo con una vanga, per quanto determinato o arrabbiato, non sarebbe arrivato a dieci passi da lui. E poi da secoli non provava paura, a parte quell'indefinibile e facilmente ignorabile brivido di ansia prima di una missione, nato e subito ucciso nella parte più irrazionale di sé; non aveva niente per cui vivere, danzava con la morte da anni e sapeva che sarebbe stata la sua unica sposa, quindi non aveva senso sprecare energie in paranoie o timori. Una volta soddisfatta la prudenza, qualsiasi altra precauzione sarebbe stata superflua.

Nonostante questo, mentre si dava dell'idiota, controllò con studiata noncuranza il fodero dei pugnali, saggiò la resistenza delle cinghie di cuoio dei bracciali e si sincerò di avere ancora ogni singola pozione e veleno nella scarsella a tracolla.

Non c'era niente che non andasse, a parte il ritardo del suo compare, che, comunque, non sapeva a chi dover fare riferimento, se non per una parola d'ordine, e quindi, anche qualora fosse stato catturato, non avrebbe potuto trascinarlo nei guai.

Il locandiere lo fissò con aria indagatrice e Zevran gli concesse il suo miglior sorriso professionale, quello che aveva studiato appositamente per far capire al prossimo di non essere una minaccia e di non voler guai, ma di non tollerare interferenze coi propri affari. L'uomo capì l'antifona e tornò ad asciugare il vasellame, dando di voce alla figlia perché attizzasse il fuoco e non li facesse crepare tutti di freddo.

Magari era la stagione a renderlo così umorale. L'inverno, in quel lato di mondo, aveva toni troppo cupi e tristi per invogliare ad una seppur forzata risata.

Per un attimo, assurdamente, si chiese se fosse davvero inverno o se il liquore non avesse iniziato a giocargli qualche brutto tiro, ma l'alito tagliente che gli sfiorò le guance, insinuandosi nelle screpolature marce del legno, lo tranquillizzò e lo fece rabbrividire ad un tempo.

C'era qualcosa che stava dimenticando, qualcosa di importante, per cui non avrebbe dovuto rimanere lì a poltrire, ma era un pensiero tanto sfuggente che afferrarlo gli risultava impossibile.

Era certo di non aver trascurato niente, nessuna delle regole per il perfetto assassino pre-missione, aveva controllato tutto più volte e, come sempre, si era complimentato con se stesso per la propria efficienza; non poteva preoccuparsi per un compito che ancora non conosceva e di certo non stava vivendo una tardiva crisi di coscienza per i suoi innumerevoli peccati.

Quindi cosa dannazione poteva essere a pressarlo al punto da non riuscire a mantenere la sua usuale immobilità, ticchettando insistentemente col dorso del piede sulla parete del bancone, come un innamorato al primo appuntamento? Stava attirando l'attenzione e si stava comportando da stupido, eppure non riusciva a costringersi a smettere. Non era stato tanto nervoso neanche la prima volta in cui, poco più che bambino, aveva saputo che presto avrebbe dovuto dividere il letto con uno dei suoi istruttori, per imparare l'arte amatoria, a sentire la loro versione dei fatti. Sospettava che sarebbe stato abbastanza disgustoso e doloroso, ma, come sempre, non aveva fatto un dramma per l'inevitabile. Avrebbe preferito imparare con una donna, ma non ce n'erano molte tra i Corvi e poi...

In effetti forse c'era di mezzo una donna. Zevran si passò la mano sugli occhi, cercando di afferrare quell'intuizione che già lo stava abbandonando.

Rinna.

Era un nome che aveva promesso di non pronunciare mai più, neanche senza voce, il nome dell'errore, della sconfitta, della fine di ciò che mai era iniziato.

Rinna. La giovane elfa che, per un istante, l'aveva illuso di poter essere qualcosa di diverso, qualcosa di più di un pugnale attaccato alla cintura dei suoi aguzzini; l'elfa con cui aveva riso e per la quale aveva pianto senza lacrime; l'elfa che non l'aveva tradito, ma che era morta per la sua incapacità di discernere il vero dalla bugia.

Non ricordava quasi più il suo volto, ormai, ma evidentemente continuava a tormentarlo, dopo tanto tempo, dopo tanta morte, tanto dolore.

I suoi capelli erano lunghi e ondulati, del colore del sole, e gli occhi di un castano così intenso da sembrare neri, grandi, profondi, capaci di frugargli l'anima. Avrebbe potuto perdersi in quegli occhi e morire senza rimpianti.

Ma Rinna non aveva gli occhi castani. Zevran lo rammentò con sgomento: erano azzurri e avevano una luce scanzonata e sensuale che non lasciava spazio per la cupa maturità che si era immaginato.

A chi stava pensando, allora? Chi lo tormentava?

C'era un nome nel suo cuore, se non nella sua mente, e avrebbe potuto afferrarlo, se solo fosse stato più allenato ad ascoltare quel muscolo così fastidioso.

“Hai l'aria cupa, giovane signore” la cameriera si era avvicinata senza che lui se ne accorgesse e questo lo spaventò e lo irritò, nonostante fosse insolito per lui disdegnare un po' di compagnia priva di complicazioni. “Posso fare qualcosa per aiutarti?”

Voleva spingerla via, dirle di lasciarlo in pace, ma aveva un buon profumo e un corpicino accogliente che poteva impedirgli di rimuginare per qualche momento, così sorrise, finì l'ultimo sorso di birra ormai calda e la seguì in un'alcova vicino alla cucina.

Evidentemente il padrone non si preoccupava troppo di mantenere una parvenza di moralità e non sarebbe stato certo Zevran a sobbarcarsi futili problemi altrui, quindi non si preoccupò di chi potesse vederli o divertirsi nell'occhieggiare i seni pallidi della sua compagna occasionale o la morbida rotondità dei suoi glutei; avrebbe preso quanto gli veniva offerto e avrebbe pregato che bastasse per farlo rilassare.

Le sfiorò il collo con la lingua, mentre scendeva con la mano a carezzarle il ventre e sopportava i suoi gemiti di piacere, senza riuscire a trarne alcuna soddisfazione.

“Sono troppo vecchio anche per questi miseri piaceri” pensò tra sé, afferrandole i fianchi con gesti dettati dall'abitudine più che dal bisogno o dalla voglia. “Dovrei solo mettermi in pensione.”

Ma nel suo mestiere non esisteva il riposo prima della fine, esisteva solo la fine, in un momento più o meno tardo della vita, e non era ancora pronto ad accettarla. C'era qualcosa che doveva fare, prima. Qualcosa di inevitabile.

Sentì che la ragazza cercava le sue labbra e si rassegnò a concedergliele, ma nel momento in cui la lingua di lei si insinuò nella sua bocca, viscida e fredda come quella di un serpente, una voce lo richiamò alla ragione.

“Zevran!”

Una preghiera, un'esortazione. La verità.

“Eilin”

All'improvviso tutto andò al suo posto e l'assassino tornò ad essere l'uomo che era stato addormentato nella capanna di Flemeth, prosciugato del proprio sangue, imbottito di liquido bruciante come lava, svuotato della propria anima e inviato a compiere l'unica missione che non poteva fallire.

Spinse via la ragazza, che divenne cenere tra le sue dita, disperdendosi in un vento caldo e fatiscente nato dal nulla a cui le pareti della stanza non sapevano porre rimedio, fino a dissolversi in faloppe incandescenti e brandelli di tenebra, lasciando l'elfo solo in una landa desolata, gelida e opprimente, davanti a un cancello insormontabile, nero come la morte.

 

 

Rieccomi qua, dopo una piccola pausa, in cui ho cercato, senza successo, di utilizzare il poco tempo a disposizione per raccogliere le idee in modo da dare un degno finale a questa storia ^_^ Sto ancora decidendo se dedicare un capitolo specifico al rito (credo dipenderà da quanto mi sentirò sadica), ma almeno, intanto, il piccolo Zev è arrivato a destinazione. Squillino le trombe!!!!!! ;-P

  
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