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Autore: charliesstrawberry    07/10/2014    5 recensioni
«Quali sono le tue certezze, Lena?».
Stringo i denti e socchiudo di poco le labbra, mentre una leggera brezza notturna mi sferza il viso e mi fa rabbrividire nella mia felpa gigantesca. Lo guardo più del solito, con i suoi occhi curiosi che brillano, con le sue mani intrecciate sul suo addome come se stesse per addormentarsi sulle mie gambe, con il suo respiro pesante che sa di alcool e di marijuana. Quali sono le tue certezze?
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sento spesso il bisogno di ruminare il passato e di rendere digeribile il presente con quel condimento.
- F. Nietzsche

 

C'è sempre un che di misterioso e agghiacciante in un cielo plumbeo di Aprile. Il presagio di pioggia è visibile in quelle nuvole grigiastre e nell'aria umida e scura, eppure c'è una parte di me che dubita l'avvento di qualsiasi tipo di precipitazione.
La strada sulla quale si affaccia l'ufficio del dottor Wilson è sempre silenziosa e poco trafficata, l'eco lontano del motore e dei pneumatici sull'asfalto proveniente da qualche altra via.
Il muro al quale sono appoggiata è freddo, nonostante la felpa che io indossi faccia da tramite tra la mia pelle e superficie ruvida dell'edificio alle mie spalle. Il palazzo, quattro piani più terrazza, è il più alto di tutta Holmes Chapel: dall'ultimo piano si possono contare bene tutti i tetti delle piccole case in mattone rosso della città, ci si sente come su di un grattacielo – in versione ridotta, ovviamente.
Penso che non sono mai stata su un grattacielo, di quelli importanti, intendo: francamente non so se un'esperienza del genere potrebbe piacermi, o se ne sarei terrificata. Se ci penso bene in effetti, conoscendomi, in una situazione simile potrei facilmente scoprire solo le vertigini.
Il portoncino del palazzo, a pochi metri da me, si apre con uno scatto, ed io, istintivamente, mi volto da quella parte e sorrido.
«Che ci fai qui?» è la domanda confusa di Harry mentre mi raggiunge, accompagnata da un paio di sopracciglia aggrottate ma un sorriso – che sembra – piacevolmente sorpreso.
Sollevo le spalle, innocentemente. «Passavo di qui, e ho ricordato che mi avevi detto di avere un appuntamento con Wilson questo pomeriggio. Ho pensato che avremmo potuto fare una passeggiata... Avevi altro da fare?».
Il suo sguardo s'illumina in un istante e scuote la testa, prima di sorridere ampiamente. «No, no! Mi fa piacere – la sua mano scivola lentamente per trovare la mia – ero solo sorpreso, tutto qui. Allora, dove vuoi andare?».
Faccio spallucce, indecisa, e, dopo essermi guardata intorno per qualche istante, «Di là!», indico la strada alla nostra destra che porta alla periferia della città.
Lui annuisce e ci avviamo in silenzio in quella direzione, le mani intrecciate dentro la tasca della sua felpa e il passo lento, come a voler diradare ogni istante del nostro pomeriggio.
Penso che da lontano, visti da un estraneo che non ha mai avuto niente a che fare con nessuno dei due, dobbiamo sembrare proprio una coppia normale; di quelle che si siedono in un bar e ordinano due cioccolate calde con panna, che si accoccolano sul divano di fronte ad un film qualsiasi, che litigano per stupidaggini e il sabato sera, quando tornano a casa, devono fare piano per non svegliare i genitori e beccarsi una strigliata.
Ma a pensarci bene, poi, tutte le coppie da lontano sembrano normali: e nessuno può mai sapere quali segreti e quali dolori si celano sotto la pelle, tra dieci dita unite con più o meno fragilità. E magari, di coppie "normali" non ne esistono, perché abbiamo tutti paure, segreti e scheletri nell'armadio che fanno rabbrividire, e siamo tutti un po' spezzati.
«Com'è andata da Wilson?» domando mentre imbocchiamo una stradina laterale.
Harry sospira. «Come sempre – dice, con fare pensieroso – continua a pensare che sia meglio che lo veda tutti i giorni, almeno per le prossime due settimane».
Annuisco, piano. «E tu... che ne pensi?» chiedo, avendo avvertito una nota di stanchezza nella sua voce.
«Non granché. A dire il vero speravo in un altro esito, considerato che mi sta imbottendo di antidepressivi in questi giorni; non potrei far del male ad una mosca neanche se volessi» ride, forse col tentativo di sdrammatizzare un discorso che sembra quasi surreale alle mie orecchie.
«Suppongo che voglia accompagnare i farmaci con una terapia intensiva» ipotizzo, facendo spallucce. L'idea che Harry sia costretto a prendere quella roba non mi piace per niente, ma so anche che, se Wilson ha deciso di prescriverli per lui, dovevano essere strettamente necessari – e quest'ultimo pensiero mi piace ancor meno.
Harry si lascia andare ad un breve sospiro. «Lo so – ammette – ma gli ultimi test a scuola sono tra qualche settimana e speravo di poter studiare, in questi giorni. Se non prendo almeno una C in Geografia, Chimica, Storia e Letteratura, mi toccherà ripetere l'anno».
Aggrotto le sopracciglia. «Davvero sei a rischio bocciatura?».
Solleva le spalle. «L'ultimo mese ho perso troppe lezioni, visto che il mio corpo ha allegramente deciso di farmi andare in esaurimento nervoso – ridacchia leggermente – e poi, lo sai, non sono mai stato uno studente modello. Speravo di potermela cavare, più che altro perché sono stufo del liceo. Ma va beh... amen».
«Io posso aiutarti» dico, appena dopo qualche attimo di silenzio.
«No guarda, non devi-»
«Ascolta: anch'io devo fare quei test. Possiamo studiare insieme. Non sarò una mente, e dopo tutto rischio anch'io di essere rimandata in qualche materia, ma se ci mettiamo di impegno tutti e due possiamo farcela».
«Sei veramente un angelo – Harry mi guarda e sorride, prima di chinarsi nella mia direzione e lasciare un bacio sulle mie labbra – e poi è impossibile che ti boccino in qualcosa, sei troppo intelligente».
Sorrido lusingata, avvertendo le guance arrossire un poco. «Dimentichi i miei impedimenti» gli faccio presente, ticchettando con un dito sulla mia tempia.
Solleva gli occhi al cielo. «Le amnesie sono praticamente svanite, Len: spaccherai a quei test. Farai meglio a scegliere un'università in fretta» sorride, stringendo più forte la mia mano nella sua.
Stringo le labbra. «E tu, che vuoi fare dopo il diploma?».
«L'università non fa per me – solleva le spalle, un po' incerto – Credo che lavorerò a tempo pieno in libreria, se mia zia è d'accordo. Devo ripagare i miei per tutte le cure dell'ultimo mese; mio padre ha dovuto fare gli straordinari a lavoro per poter comprare quelle maledette medicine. Glielo devo, come minimo».
Annuisco. Non posso fare a meno di pesare a cosa ne sarà di noi due, una volta che io comincerò l'università da qualche parte. A dire il vero, una mezza idea ce l'ho già (anche se non ho ancora avuto il coraggio di confessarla a qualcuno), ma sono ben lungi dall'essere certa al cento per cento che sia questa la strada giusta per me.
Io e Harry non parliamo mai del futuro: forse perché, dalle nostre esperienze personali, abbiamo imparato che è una cosa imprevedibile e che è inutile fare qualsiasi tipo di progetto, o forse perché abbiamo capito che la vita è una cosa talmente labile che preoccuparsi di ciò che viene "poi" è solo uno spreco di tempo.
«Ti va di accompagnarmi in un posto?» domando, di punto in bianco, spiando la sua espressione con la coda dell'occhio.
Lui sembra per un attimo pensieroso. «Certo. Dove?»
Non rispondo, piuttosto comincio ad avviarmi nella direzione del piccolo crocifisso in lontananza. Quando arriviamo alla cancellata, siamo costretti a scavalcare perché il comune non ha ancora nominato il nuovo custode, quindi ci facciamo strada tra l'erba troppo alta e Harry, che ha capito, mi stringe la mano con più forza del solito.
La lapide piccolina di Jonah Hawkins è proprio in fondo, quindi superiamo tutte le altre pietre ricoperte di muschio e vecchiaia, per poi giungere ad una pietra più nuova, ancora non contaminata dalla tristezza acerba del posto; ci sediamo per terra.
Sollevo un angolo delle labbra, in un sorriso forzato. «Ciao Jonah» sussurro, e al mio fianco sento Harry che s'irrigidisce. «Scusa, ma ho pensato che era da molto che non venivo qui. Spero non ti dispiaccia» aggiungo, stavolta rivolgendomi al ragazzo che mi sta accanto.
Scuote lentamente la testa, appoggiando una mano sulla mia gamba. «Non mi dispiace...» dice soltato, eppure avverto la sua voce sospesa a mezz'aria, proprio all'inizio di una frase repressa.
«Sai – dico, dopo essermi lasciata andare ad un lieve sospiro – quando è successo ho smesso di parlare, per qualche settimana. Non riuscivo a smettere di incolparmi per quello che era capitato...»
Aggrotta le sopracciglia. «Tuo fratello è caduto giù da un dirupo. Come avrebbe potuto essere colpa tua?»
«Avrei potuto fermarlo. Pensavo che... in qualche modo, potesse essere anche colpa mia. Non dormivo la notte, non facevo altro che pensare che se non fossi stata ferma con le mani in mano, il mio fratellino avrebbe ancora potuto essere accanto a me. Quel senso di colpa, così lacerante... è stata una delle ragioni per cui sono finita nel baratro. Ma poi ho parlato con mio padre, e mi ha fatto capire che se io avrei potuto fermarlo, i miei avrebbero potuto educarlo meglio da piccolo in modo che non fosse così indisciplinato; e le autorità avrebbero potuto costruire delle barriere più sicure. La colpa è un po' di tutti e un po' di nessuno» sollevo le spalle, sforzandomi di trattenere le lacrime. Non voglio essere insensibile, solo... forte. «Io lo so che sei ancora convinto che la colpa sia tua. E forse un po' lo è visto che hai influito sugli eventi di quella notte. Ma non avevi tu quel coltello, non sei stato a guardare e basta, hai fatto di tutto perché si fermassero, semplicemente non ci sei riuscito. Non l'hai uccisa tu, Harry. E lo sai».
«Perché mi dici questo?» la sua voce trema leggermente, lo sguardo fisso sui caratteri scuri incisi nella pietra bianca di fronte a noi.
Sospiro. «Perché so come la pensi; e so che anche se dici che è tutto a posto non è davvero così, che ci sono ancora pensieri brutti e fantasmi che t'inseguono – prendo la sua mano nella mia, stringendola con delicatezza – e non mi piace vedere tutto questo, perché se c'è una cosa che ho imparato da Wilson è che non c'è niente di male a voler stare bene».
Respira piano e cautamente, prima di tirare su col naso. «Io non...»
«La sai una cosa? – lo interrompo di scatto, il tono determinato e la stretta delle nostre mani sempre più serrata – tu mi hai fatta guarire. Per un po' ho cercato di negarlo a me stessa perché credevo che stare con te significasse dimenticare per sempre Jonah, e questo mi spaventava – guardo la lapide di fronte a noi – ma tu sei il motivo principale per cui ho smesso di avere quelle amnesie, e grazie al quale ho capito che restare ancorata al passato non mi rendeva più vicina a mio fratello, ma mi distruggeva e basta».
Cerco il suo sguardo, e per un istante, uno solo, riesco a coglierlo, prima che si perda di nuovo da qualche altra parte. Inspira ed espira profondamente, per poi scuotere la testa più volte.
«Aveva gli occhi blu, sai? – dice dopo svariati istanti, cogliendomi completamente alla sprovvista – Rachel, intendo. Di un blu profondissimo, come il mare che vedi quando sei in crociera (non che io sia mai stato in crociera) e il cielo quando si fa buio e riesci a distinguere perfettamente le stelle. Non li ho visti, io, quella sera, perché era troppo buio: me ne sono accorto solo guardando la foto che hanno fatto vedere al telegiorale, dei suoi occhi bellissimi, quando hanno annunciato che quella ragazza era stata assassinata da un gruppo di ragazzi sotto l'effetto di stupefacenti – si ferma, e sento la sua voce spezzarsi – Come faccio a dimenticare tutto questo, Lena?»
Lo osservo incerta, il respiro affannato e triste, eppure in qualche modo... calmo. Anche in una situazione del genere, non riesco ad essere grata per gli antidepressivi: preferirei vederlo scalciare e gridare piuttosto che osservarlo piangere e basta, perché è l'unico modo che ha di sfogarsi, imprigionato in quest'ovatta di sedativi. Gli accarezzo una guancia, asciugando l'unica lacrima solitaria che è riuscita a sfuggire al mare dei suoi occhi.
«Lo so che non si può dimenticare – dico piano, annuendo – ma so anche, anzi ne sono sicura, che puoi perdonarti. E sarà lungo e difficile, ma ci siamo io ed il dottor Wilson e tutti gli altri. Va bene?»
Solleva un angolo delle labbra. Prima che possa renderemene conto, sono stretta al suo petto in un abbraccio mozzafiato, e sento il suo cuore che batte forte sulla mia guancia. E così, a mezza voce, con il respiro soffocato dal materiale della mia felpa, lo sento pronunciare parole sottili e sommesse.
«Ho deciso che ti amo».

 


Note.
Suppongo che chiedere scusa immenso per l'assenza infinita sia troppo poco, giusto? Non cerco neanche di giustificarmi, voglio solo dire che mi dispiace davvero tanto e prometto di impegnarmi a finire il più presto possibile!
Detto questo, scusate per il capitolo un po' cortino: non è il miglior modo di ritornare dopo più di un mese, ma ho preferito che questo capitolo fosse incentrato su Lena e Harry piuttosto che aggiungerci altre cose. Il risultato è un capitolo che non è uno dei miei migliori, ma mi rifarò, promesso.
Vorrei ringraziare quei quattro gatti che saranno rimasti qui a leggere dopo la mia assenza infinita........ se ci siete ahah.
Nel caso sia ancora rimasto qualcuno a leggere questa storia, ho postato una os/missing moment che ha come protagonisti Wilson e Harry, se volete leggerla cliccate qui: Simple pleasures.
Fatemi sapere se questo capitolo vi è piaciuto/vi ha fatto schifo. Un bacio!
Carla
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