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Autore: MyShadow19    11/10/2014    1 recensioni
Verba è un racconto dalle lievi tonalità fantasy di grande atmosfera. Narra di Kadas Luthfelt, protagonista tenebroso che avrebbe molte, troppe cose da raccontare... se solo la sua filosofia non glielo impedisse; ogni parola è l'evocazione di un concetto, il più grande veicolo delle idee, la struttura su cui si forma il pensiero e quindi la base del modus ponens degli esseri viventi. La filosofia di Kadas è così forte che quando lui pronuncia una parola tutto questo cessa di essere una convinzione e diventa una verità: la realtà attorno a lui cambia. Per questo pesa attentamente quello che dice. Una parola vale più di mille immagini.
Ogni capitolo è molto breve perché lo stile di scrittura è pesante; spero che apprezzerete. Buona lettura!
Genere: Dark, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Marcia Kadas per le scale rocciose dell’alta torre, pestando passo dopo passo gli scricchiolanti scalini. Impugna al contrario i suoi lunghi pugnali dall’elsa dorata, e impugna uno sguardo che perfora una tenebra più cupa di ogni torcia. Marcia Kadas trasportando le pieghe di un vissuto mantello, gli squarci di un eroico cappuccio, a pretendere di coprirgli il corpo agile. Marcia Kadas, vantando la leggiadra magrezza di un guerriero spinto dalla fatica di mille battaglie. Le sue iridi vendono onore all’asciutto cunicolo che complice ha assistito all’indisturbato gioco di luci che lo ricopre, i suoi zigomi pronunciati esprimono quanto le sue labbra per ora incapaci di parlare vorrebbero e non possono. Anche il metallo del suo cuoio borchiato è incapace di proteggerlo più di quanto la sua parola d’onore già non faccia, anche i suoi stivali leggeri non l’aiutano a salire più di quanto la carica nascente della sua anima guarita già non faccia.
E così avanza, impugnando i lunghi pugnali al contrario, fino alla porta d’ebano. Un boato, quasi un esulto accompagna l’apertura della fastosa porta, aperta con il pugno chiuso dalla morsa inarrestabile di Kadas Luthfelt.
  • Babele.
 
Aveva detto, poco prima che una nuova torre sorgesse maestosa per piangere la caduta della precedente. Livelli di marmo lucente alleggeriti da arcate di bifore doriche si sovrappongono come gradoni dal diametro in diminuendo e godono come unica decorazione di cimase dallo stile indelicato che fanno sfoggio di sé sopra le aperture. Nell’interno più un deambulatorio che un corridoio avvolge gli ambienti interni della costruzione conica e sale verso la cittadella posta in cima; paraste e bianchi mosaici interrompono e riflettono la luce insanguinata dell’eterno tramonto o dell’eterna alba, luogo in cui la babele è stata fatta sorgere senza distinzione. Dal matroneo della cattedrale della cittadella un passaggio conduce al più alto pergamo della torre, quasi un pulpito posto sopra ed al centro di luce ed ombra, notte e giorno, silenzio e caos. E da quel ballatoio, dal luogo più alto, dal luogo più insanguinato, dal luogo più sacro, dal luogo più avvolto tra la luce e le ombre, Kadas parla alle genti con voce potente. Come un tuono, un terremoto, un uragano è la sua apocalittica voce. Sono le parole di un dio che, parzialmente coperto dalle nubi, le squarcia per dettare la sua legge sui mortali che dal basso lo ascoltano. Raccolto dal suo corpo ogni residuo di fiato, Kadas pronuncia roboante il suo primo, intero, discorso:
  • Gente della luce, gente della notte, vi ordino di ascoltarmi. Voi mi avete invocato, voi mi avete dato alla luce e voi mi avete fatto incontrare con Angelus Verborum. Ebbene io sono Angelus Silentii! Ciechi siete stati!
Il mondo attonito si incendia e si congela nel sentire quelle parole simili ad un cataclisma abbattersi nei loro animi. Non c’è uomo che non cessi pietrificato qualsiasi attività stesse compiendo, non c’è uomo che non volga lo sguardo reverenziale verso l’alto, non c’è uomo che non subisca quelle parole così come subisce il sole e la pioggia. Un misto di timore, colpevolezza e senso di sicurezza fa sussultare i popoli.
  • Ciechi siete stati nell’attendere che le ombre avvolgessero Ara Verborum! Avete dimenticato ciò che voi avete chiesto! Ci avete invocato e ci avete gettato, attendendo che l’ombra si abbattesse sulla dea e che la luce accecante mi facesse dimenticare chi sono! Voi ci avete donato le vostre terre di pace, le terre dell’alba e del tramonto, ma avete lasciato che ci sfuggissero via. Grazie ad uno di voi, ad uno solo che è morto per voi, io ora ho ritrovato la luce del tramonto che avevo perso. Costui si chiamava Marcus Luthfelt… adoratelo! Adoratelo perché a lui dovete la pace! Non io ma lui è il vostro salvatore! Lui aveva capito il vostro errore. Non doveva esistere alcuna distinzione tra alba e tramonto, in queste terre. Io e la dea dovevamo stare assieme e invece siamo stati divisi in alba e tramonto. Ora io non sono più alba, io non sono più tramonto, e pertanto da questo anello imprecisato di luce tiepida che voi mi avete regalato io vi parlo, e prometto di realizzare i vostri desideri, prometto di far tornare l’alternarsi del giorno e della notte, della luce e dell’ombra, poiché di continuo cambiamento noi tutti abbiamo bisogno per migliorarci, io compreso ne ho avuto. Così come io sono stato salvato dall’alternarsi del giorno e della notte in me, voi sarete salvati dall’alternarsi del giorno e della notte nel mondo. Allora ascoltate questa parola, ascoltatela bene, perché questa parola è tutto ciò che avete per unire il silenzio alla gestualità, la comprensione all’immobilità. Questa parola è tutto ciò di cui avete bisogno per unire i vostri mondi spaccati senza muovervi e senza parlare.
Prende una pausa, Angelus Silentii, prima di pronunciare l’ultima parola. Prende una pausa in cui il mondo rimane sospeso, si blocca, il tempo e lo spazio si bloccano, una pausa in cui gli spiriti si riposano, in cui il creato realizza se stesso, una pausa in cui c’è tutto e non c’è niente, in cui un momento dura in eterno e un’eternità passa in un momento, una pausa in cui ogni coscienza diventa un’autocoscienza per interagire con gli altri ma nessuno si muove e nessuno parla. Prende una pausa, Angelus Silentii, per permettere ai popoli di meditare, ma infine, solenne, divino, onnipotente e imperscrutabile, pronuncia con grande eco:
  • Empatia.
E il mondo riprende a girare.
 
Era una casa umile, in periferia, in quelle che un tempo erano le terre del giorno. Il primo piano soltanto era costruito in mattoni, il secondo era in legno, rischiarato dal sole che più volte l’aveva incendiato. Nonostante questo la piccola casetta era tenuta con somma cura, come se ogni oggetto avesse un’anima, come se ogni pianta potesse parlare. Dei vasi ora vuoti dovevano contenere un tempo dei graziosi fiori gialli che abbellivano la veranda di legno. Giacigli di paglia e panieri di vimini erano gli oggetti più preziosi che potevi trovare ma l’amore infuso nella cura, nella pulizia e nella semplice bellezza di quel luogo umile gli donava un valore intrinseco inestimabile. Come fosse sospeso in cielo la luce filtra tra le spaccature del legno e si posa sulle cornici, sui vasi di fiori, sulla sedia a dondolo, sul libro. Scene di vita quotidiana, semplici ma spensierate, vengono rievocate nella mente di Kadas mentre cammina a passo lento, con rispetto, in quella casa. Ed è proprio in un piccolo armadietto semiaperto accanto ad un giaciglio che Kadas trova ciò di cui aveva bisogno. Un ambito candido, bianco come l’inverno ma caldo come l’estate, intrecciato con grande maestria per dare l’illusione che le maglie siano come fiocchi di neve legati. Un abito lungo con una spilla su cui giace una margherita, il fiore preferito di Karula, che per ragioni troppo importanti per essere spiegate non è mai appassita. Un inchino, rivolge Kadas, prima di uscire dalla nostalgica casetta. Un inchino che rivolge un dio dinnanzi ad una margherita. Un inchino per ricordare che non c’è più elevata grandezza che l’umiltà.
 
La teca di vetro è ancora là. Maledettamente indistruttibile, maledettamente dura, maledettamente maledetta dal suo contenuto. Quella teca di vetro è ancora là sommersa da mattoni, metallo, lancette, disperazione e ricordi, ma non si spacca. E’ quando Kadas la tocca che si spacca. La sua mano si posa sulla teca, come molte altre volte aveva fatto, ma sta volta si spacca, si frantuma, si cristallizza, si polverizza. La teca nulla può adesso. La teca si è arresa. La luce rosea del pendente risplende forte. La luce rosea di Aurora è con lui. L’unica donna che abbia mai amato sarà sempre con lui, nella luce che riscalda la pelle vicino al suo cuore. Quando indossa il pendente la sente, sente il suo calore, sente il suo sorriso, sente le sue critiche, sente l’empatia. Non avrebbe mai creduto che una presenza aleggiante, un ricordo, una semplice luce avrebbe potuto sostituire la presenza fisica di un corpo vivo. Non avrebbe mai creduto che un sentimento da solo avrebbe potuto vincere la solitudine. Invece l’ha fatto. Il suo amore è abbastanza forte da esistere aldilà della materia. Il vero amore vince la solitudine senza aver bisogno di un corpo fisico. Kadas se ne sta già convincendo ma Aurora, che lo ama, vuole mantenere la sua promessa; il corpo di Aurora, che aveva mantenuto perfetto per poter guarire quello maltrattato di Kadas, si sarebbe trasmesso attraverso il pendente, un giorno. Quando Kadas avrebbe ritrovato l’onore perduto, il pendente avrebbe ripreso a brillare e lo avrebbe guarito dalla sua debolezza. Quel giorno è giunto e Aurora riprende a vivere, con Kadas, dentro Kadas e per Kadas. Con Kadas perché di fianco a lui è ogni giorno, nel pendente; dentro Kadas perché il suo corpo è dentro di lui e rende di nuovo giovane, forte e puro quello Kadas, restituendogli la purezza che da tanto credeva di aver perso; per Kadas perché lo ama e lo amerà sempre.
 
Kadas non ha mai tradito la sua parola d’onore ed anche lui ha una promessa da rispettare. L’Ara Verborum si è sciolta ed Aurora giace distesa, dormiente e sorridente, nuda ed inavvicinabile, sull’altare. Non c’è più involucro di ghiaccio a separarla da lui, ma sta volta Kadas non è lì per egoismo. Sta volta non è lì per implorare il suo aiuto o per sperare che si svegli. Sta volta è lì per mantenere la sua ultima parola d’onore.
  • Aurora, amore mio, avevo promesso che un giorno avrei trovato un vestito in grado di riscaldarti. Nei miei lunghi viaggi ho finalmente trovato un vestito bianco come l’inverno ma caldo come l’estate. E’ il vestito della più umile delle donne, un vestito che non oltraggia la tua purezza, un vestito che protegga il tuo pudore. Devo molto a questa donna perché ne sono l’assassino e dapprima avrei voluto farla conoscere al mondo come Marcus, ma poi ho pensato che non era la fama ciò che lei avrebbe voluto. Ho pensato che lei avrebbe voluto semplicemente prestarti un vestito, se ti avesse conosciuto. Lo so, non c’è niente di solenne, non c’è niente di epico, non c’è niente di elevato. Tuttavia sono sicuro che avrebbe semplicemente voluto prestarti un vestito, come un’amica. Tutto qui. Spero che ti piacerà indossarlo, in modo che possa tenerti al caldo così come il mio cuore ti terrà al caldo tramite il pendente.
 
In quel momento Angelus Silentii ebbe l’impressione che la luce rosea del pendente avesse lampeggiato. Poco dopo ricevette una consapevolezza, come una sorta di comunicazione non verbale, di telepatia o anzi, ancora meglio, di empatia. Capì che la margherita non era mai appassita perché Karula l’aveva perdonato. Fu Aurora a farglielo capire, facendolo piangere. Ma a farlo piangere come mai aveva pianto fu una lettera, nascosta tra le pieghe del vestito, che cadde per terra. Prese la lettera, la ripose con cura e si trasferì nella umile casetta doveva aveva trovato il vestito, deciso a trascorrere un’eternità nell’umiltà assieme alla persona a cui si era unito per sempre, poiché ormai solo di umiltà era privo. Ogni sera rileggeva la lettera piangendo e il pendente lampeggiava per ricordargli che gli era sempre vicino.
 
Al mio assassino – citava la lettera – ti voglio bene.
Karula.
 
(Verba… Fine.)
  
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