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Autore: cliffordsjuliet    13/10/2014    3 recensioni
Ci sono storie che iniziano lentamente e si evolvono man mano.
E poi ce ne sono altre che, invece, iniziano solo finendo.
***
“Non dirò addio a nessuno, prima di andare via. Non saluterò i miei genitori, e nemmeno Jamie, né tantomeno Rebecca, l’unica amica che abbia mai avuto. Dire addio a qualcosa è il primo passo per imprimertelo dentro, e questa è proprio la cosa che voglio evitare.
Dimenticherò tutto.
Dimenticherò tutti.
Dimenticherò questo posto, Lui, e pure me. Che se mi scordo lui inevitabilmente scordo anche me stessa, che tanto non c’è differenza.
Siamo uguali da far schifo, Ashton, ma qualcosa di diverso lo abbiamo: io ricomincerò.
Tu no.

***
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=B29uqGz-sL4&feature=youtu.be
Genere: Mistero, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Nuovo personaggio
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Quando avevamo quattordici anni, Ashton ed io avevamo preso l’abitudine di marinare la scuola. Jamie ci minacciava, diceva che lo avrebbe detto ai nostri genitori; noi ridevamo e facevamo sempre di testa nostra. E alla fine lui stava muto, mica la faceva davvero, la spia con i nostri. Dopo tanti anni lì dentro aveva imparato il concetto di onore e lealtà che solo quelli come noi hanno, un concetto piuttosto labile a dire il vero, che tiravamo fuori solo quando ci faceva comodo.
Rebecca spesso e volentieri stava con noi, durante quei momenti proibiti. Ai quattro palazzi c’era stata una novità nell’ultimo mese di estate: la mia amica si trasferiva. I suoi genitori avevano scoperto che in realtà non c’era nessuna Beth che abitava nella campagna di Melbourne, erano venuti a sapere che in realtà “Beth” veniva da quel posto che loro evitavano come la morte, da quei palazzi scalcinati, quel luogo perennemente impregnato dall’odore dell’immondizia e della polvere da sparo. Il posto al quale loro erano sfuggiti per un pelo.
Rebecca non si era vista un giro per un po’, e noi non sapevamo più niente di lei. Non avevamo cellulari, o computer come i nostri coetanei. L’unico computer in casa mia era un portatile risalente alla preistoria, ma era di mio padre. Roba privata, uno di quegli oggetti che noi non potevamo toccare. Eravamo bestie, noi, mica ragazzini normali: a toccare ciò che non ci apparteneva, rischiavamo di distruggerlo.
Quando una sera di fine estate la mia amica si era presentata a casa mia, quindi, avevo già capito che qualcosa non andava. Aveva gli occhi rossi di pianto, Rebecca, e il suo viso era dimagrito, più pallido del solito. Le ballerine che portava ai piedi adesso non erano più immacolate, erano sudice, come le strade di quel posto che, alla fine, aveva finito per inglobare anche lei.
Non aveva detto niente, si era limitata ad osservarmi per un tempo che mi era parso infinito, poi era scoppiata a piangere e a me era sembrato che mi stessero strappando l’anima in mille pezzi. Avevo imparato a riconoscere il pianto di chi cade e sa che da ora in poi risalire sarà quasi impossibile: erano lacrime che troppo spesso avevo visto sul viso di mia madre, su quello di Ashton e, a volte, anche sul mio. Conoscevamo la sensazione che si prova a toccare il fondo, quel dolore sordo, come un macigno che ti preme sul petto e man mano si allarga, e tu non puoi respirare e allora piangi, piangi e vorresti farla finita, che se quella è la vita allora forse non vale la pena di viverla. Nel 99% dei casi non si risaliva, da quel buco nero. E quell’1% lo lasciavamo giusto per i miracoli. Da quando Rebecca viveva lì dai nonni, le cose erano cambiate. Ce ne andavamo in giro per intere mattinate, da un cortile all’altro, ai campetti, ai vicoli più nascosti. Di farci vedere in giro non avevamo paura: i nonni di Rebecca le lasciavano libertà di scegliere se frequentare o no la scuola, e i miei genitori erano a lavoro. Ma anche se ci avessero visti, non temevamo la loro reazione. Erano loro, semmai, a doversi preoccupare di come avremmo reagito noi.
“Spagnolo, latino, fisica, chimica… tutte stronzate. Ti pare che Kurt Cobain andasse a scuola? Certo che no. Si è ritirato a sedici anni, eppure vedi dove è arrivato. La scuola non serve a un cazzo, Beth: è la vita vera a renderti una persona saggia, e all’intelligenza ci pensa il caso. A me di sapere come gli aeroplani riescono a star su non me ne frega un accidenti” ripeteva spesso Ashton mentre, seduti in un angolo nel cortile del palazzo di Rebecca, discutevamo su quello che avremmo voluto fare dopo.
Era un concetto strano per noi, quello del dopo, qualcosa di astratto, che non ci apparteneva. Rebecca era convinta che avrebbe finito il liceo e poi si sarebbe accontentata, non aveva più aspirazioni, lei. Si era vista strappare via brutalmente la sua vecchia vita e con essa tutti i suoi sogni, e la forza di reagire di sicuro non ce l’aveva.
Per noi era diverso. Ashton ed io, di aspirazioni, non ne avevamo mai avute.
Lui voleva ritirarsi, avrebbe aspettato giusto quei due anni che erano d’obbligo, poi avrebbe detto addio per sempre alla scuola. Aveva fretta di lavorare, Ashton, lavorare e mettere da parte i soldi. Sognava già la sua famiglia, era convinto che lui non avrebbe mai abbandonato i suoi figli, li avrebbe trattati sempre bene, li avrebbe fatti sentire amati. E allora io dovevo ricordargli che era un povero illuso, se credeva di trovare un lavoro decente senza neanche avere il diploma. Però non insistevo troppo, perché in fondo capivo i suoi pensieri. Ashton si era lasciato marchiare a fuoco dall’abbandono dei suoi genitori, e per quanto fingesse di aver dimenticato, dopo tanti anni, lui ancora ci stava male.
Io, dal canto mio, desideravo andare via.
Scappare, fuggire, lasciare quel posto. Finire il liceo, e poi chi lo sa, continuare o lavorare, ma lontano da lì. Volevo farmi una vita in un posto diverso, con persone diverse, ma questo non lo dicevo mica ai miei amici. Vedevo la paura negli occhi di Ashton ogni volta che esprimevo ad alta voce, quasi inconsapevolmente, il mio desiderio di andare via.
Ma se avessi dato ascolto a lui, io in quel luogo ci sarei rimasta incatenata.
Ad Ashton non importava del fatto che un giorno si sarebbe sposato, avrebbe trovato qualcuno, lui era convinto che quel qualcuno già ce l’aveva, ed ero io. Me lo aveva confessato senza vergognarsi una sera di settembre, mentre sedevamo attorno alla tavola, piluccando gli avanzi del pranzo che i miei ci avevano lasciato come cena.
“Beth, tu ci pensi mai a quando anche noi saremo adulti?” aveva detto con la sua voce tremolante, senza alzare gli occhi dal piatto. Io avevo risposto alla stessa maniera, annuendo.
“Spesso. Perché?”
“Non ti fa paura il pensiero?” mi aveva chiesto quasi titubante, come impaurito dalla mia potenziale reazione. Io però non feci una piega: c’era qualcosa che non andava in lui, lo notavo dai suoi gesti, dalle sue parole, non avevo voglia di tormentarlo.
“Niente affatto. Perché dovrebbe? Io se penso ad una me adulta, penso ad una me lontana da qui, e questo mi basta per non avere paura” risposi sovrappensiero, riprendendo a mangiucchiare controvoglia quella sottospecie di passato di verdure. E lì avevo sentito il cucchiaio di Ashton tintinnare contro il piatto, e la sua sedia strusciare violentemente contro il pavimento. Lui era scattato in piedi e mi aveva guardato smarrito, con un’aria sconvolta, impaurita.
“No. Tu non mi lasci da solo qui, hai capito? Tu non puoi Beth, non puoi” mi guardava con quella faccia e intanto scuoteva la testa, faceva paura, sembrava posseduto.
Mi alzai per fronteggiarlo, inarcando le sopracciglia.
“Ah sì? E chi lo ha deciso, Ash? Tu?” ribattei con aria di sfida, mentre i miei buoni propositi di non bistrattarlo andavano tranquillamente a farsi un giro.
In quel momento accadde quello che non avrei mai immaginato sarebbe accaduto proprio a me, Bethany, Beth, la ragazza dei quattro palazzi. La ragazza dalla quale la gente, di solito, si guardava.
Ashton scattò in avanti e, con una forza che non immaginavo possedesse, mi arpionò le spalle e mi portò vicino a lui, facendo scontrare i nostri corpi quasi con violenza, facendoli cozzare come loro solito.
Chinò la testa sul mio viso sconvolto e, in un attimo, le sue labbra furono sulle mie.
Fu un bacio rude, il suo, non sapeva neanche lui cosa fare e si vedeva, ma era solo un ragazzino di quattordici anni, e non voleva perdere anche me, aveva già perso troppo, la vita gli aveva tolto tutto, non gli rimaneva altro che quella fiducia che, puntualmente, lui riponeva nelle persone sbagliate.
Non fu romantico o sentimentale, il mio primo bacio, non ci fu nessuno scontro di lingue, non ci fu niente di calmo in tutto quello. Ci furono denti, morsi, e labbra premute, e i miei occhi spalancati fissi sui suoi, forzatamente chiusi; ci furono le mie mani a tirargli quasi con forza quei capelli crespi e ricci che si ritrovava, e le sue che ancora stringevano le mie spalle; ci fu un mare d’inesperienza e di insicurezza in mezzo, e in questo mare l’unico punto fermo eravamo noi, noi e le nostre labbra incollate, noi e le nostre urla taciute.
Si staccò dopo un po’, Ashton, allontanandosi appena.
“Io senza te non ci so stare, quante volte te lo devo dire?” mormorò, aggiustandosi la bandana nera tra i capelli. “Io sono sicuro che tu sarai la mia prima volta per tutto, Beth, che tanto lo so, io e te non possiamo essere divisi. Dimmi quello che vuoi, ma io se penso a me adulto, mi vedo con te al mio fianco”.
Aveva detto questo e poi era andato via di corsa da quella stanza, e aveva sbattuto la porta di casa così forte che non ero riuscita a sentire i suoi passi pesanti per le scale, anche se me lo immaginavo, mentre le saltava a due a due e correva verso l’appartamento del piano di sotto.
Ed io rimasi lì in quella stanza come una stupida, e tutto quello che riuscì a fare fu sfiorarmi le labbra con due dita, mentre un calore a me estraneo prendeva possesso delle mie guance, ed una sensazione insolita mi scombussolava tutto dentro.
Io non amavo Ashton, lui era impossibile: impossibile da trattare, impossibile da capire, impossibile da salvare.
Non lo amavo ma, in quel momento, pensai che avrei potuto mettere da parte me stessa per lui.
Pensai che sarei potuta rimanere in quel luogo che tanto odiavo, per lui.
Io non lo amavo, ma allora perché mi sentivo così?



#Chiara's corner
Buonasera!
*nascosta*.
Sono in un ritardo imperdonabile, lo so.çç
Sono pessima! Mi spiace così tanto:c di solito sono piuttosto veloce ad aggiornare, stavolta però la scuola mi ha letteralmente travolta, quindi scrivere/postare questo capitolo è stato un vero parto (ed, effettivamete non so cosa ne sia uscito. Doveva essere un capitolo importante ed invece è venuta fuori questa mezza cacchina, vabeh).
Comunque, so che è anche un po' corto ma credetemi, è stato difficile già scriverlo così com'è senza allungarlo ulteriormente. Mi serviva per la narrazione, comunque, e nel prossimo ritroveremo anche Michael e, surprise, Andrew! Dopotutto Beth e Michael praticano ancora la boxe, no? Avrà anche un motivo questo sport!
Detto ciò ringrazio chi recensisce, segue, preferisce o ricorda la storia: credetemi, non passate inosservati!
Per chiunque mi abbia chiesto di leggere le proprie fanfiction, e per coloro dei quali seguo qualche storia: entro domani pomeriggio mi vedrete, promesso!
Vi mando un abbraccio forte, spero non mi abbiate abbandonata!
Chiara.xx
  
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