Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: DonnieTZ    14/10/2014    4 recensioni
Serena.
Un padre freddo e distante, una madre scomparsa nel nulla e una solitudine difficile da digerire. Proprio come il cibo che non riesce a mangiare o le parole che non riesce a dire.
Finché non finisce in un altro inferno e tutto perde contorno, sconvolgendo ogni cosa che dava per certa e facendole trovare conforto nel più inaspettato dei modi.
---
Un grido esce dai miei polmoni senza che possa controllarlo.
In un istante vengo afferrata alle spalle. Mi agito, scalcio, non capisco cosa stia succedendo e cado al suolo, sbattendo con forza la testa. Una marea di puntini galleggiano davanti ai miei occhi, subito seguiti dal dolore pulsante nel punto in cui la superficie dura del pavimento ha incontrato la mia tempia. Non riesco ancora a mettere a fuoco ciò che ho davanti, ma un peso mi schiaccia al suolo e un’ombra nera si tende verso la mia faccia.
---
È un'ombra gigantesca, si frappone fra me e il camino, oscurandomi. La sua mano raggiunge il mio viso e lo alza, perché possa guardarlo.

---
Genere: Introspettivo, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
2 - Il Melograno
 
Riprendo conoscenza e vomito. Sono rannicchiata sul fondo di una doccia, mentre scrosciante acqua gelida mi colpisce il viso. Un cane abbaia da qualche parte, ma è un rumore confuso di sottofondo. Il gelo mi penetra sotto i vestiti, nelle ossa, ma è in qualche modo piacevole. Mi lascio sciacquare via di dosso la paura e il dubbio, poi, con mano tremante, chiudo il getto.
Non so dove sono, né ricordo chiaramente cosa sia successo.
Senza preavviso, il vetro della doccia scorre e si spalanca.
«Sei sveglia.»
L'albino troneggia su di me con un asciugamano in pugno e l'aria seria; ai suoi piedi un enorme pitbull bianco sembra impaziente di fare la mia conoscenza. Davanti a quest'immagine, la realizzazione, la paura, l'insicurezza mi assalgono e resto immobile, infreddolita e tremante. Speravo, in qualche parte profonda della mia mente, fosse solo un incubo. Speravo di essere semplicemente impazzita una volta per tutte. Una serie di pensieri si rincorrono: non so se uscirò viva da questa storia, non so come fuggire, non so come salvarmi. È il pitbull a interrompere la mia disperazione silenziosa, allungandosi verso la mia faccia per leccarmi con gioiosa ostinazione.
«Cerbero!» lo richiama il suo padrone.
Dopo qualche altra festa, il cane decide finalmente di allontanarsi e io tento di mettermi in piedi, anche se le gambe mi reggono appena. L'albino mi avvolge nell'asciugamano, trattenendomi allo stesso tempo perché io non cada.
Ci sono troppe domande a premere nella mente – dove siamo? chi sei? cosa vuoi? – e la prima ad uscire non è più importante delle altre.
«Cosa... cosa succederà ora?» domando.
Cosa mi farai?
Non sembra cattivo alla luce del bagno, non sembra violento mentre si assicura che il telo mi copra, eppure continuo a rivedere dietro le palpebre il viso morto di Lisa, le sue mani inermi, i suoi occhi vitrei. Forse la sua non è una violenza evidente, una cattiveria facile da riconoscere quando non ha l'obiettivo di uccidere. E, a questi pensieri, non so cosa mi faccia più paura.
«Ho parlato con tuo padre.»
A quelle semplici parole comprendo qualcosa che avrei dovuto comprendere subito. Nonostante il panico, la confusione e l'orrore, doveva essermi ovvio e mi sento una stupida. Mio padre e quest'uomo sono d'accordo. È stato mio padre, probabilmente, a ordinargli di assassinare Lisa.
L'orrore di questa realizzazione mi nausea ancora di più, stringendo lo stomaco in una morsa.
«Gli ho chiesto un risarcimento, per il rischio che ho corso con la tua presenza in casa. Quando si premunirà di farmelo avere, ti farò tornare da lui.»
Risarcimento. Un altro modo per dire riscatto. Mi viene da piangere, ma ricaccio indietro le lacrime nel tentativo di essere più razionale di quanto non sia stata fino a questo momento.
Non posso dar voce al dubbio che mi sta lentamente mangiando l'anima: pagherà? Mio padre mi ha sempre guardato come si guarda un ricordo doloroso tornato dal passato per tormentarlo. Come un'ombra che gli ricorda cos'ha perso. Eppure sono sua figlia, non posso dubitare di questo legame, non devo. Pagherà, mi dico, certo che pagherà.
«Lui... lui la voleva morta?»
L'albino non mi risponde e la sua espressione si indurisce impercettibilmente. Mi guida fuori dal bagno, mentre la mente si affolla di pensieri confusi.
Perché non divorziare? Ripenso a Lisa, tento di immaginare cos'avrebbe fatto davanti a una richiesta di separazione. Avrebbe arraffato quanto più possibile, avrebbe preteso e non avrebbe avuto torto, dopo tutto quel tempo passato a essere confrontata con una donna sparita nel nulla molti anni prima. Mio padre, però, non l'ha vista così. E ora Lisa è morta.
«Questa sarà la tua stanza finché resterai. Farà freddo, la notte. Ti ho lasciato qualche mio maglione. Non credo starai qui molto, comunque. Ti verrò a prendere per mangiare. Comportati bene e non darmi problemi, sai cosa sono capace di fare e non vorrei complicare la situazione.»
Le sue frasi sono brevi, la sua minaccia chiara e, non avessi visto così tanto, forse mi farebbe ancora più paura. Ma ho già guardato in faccia i miei incubi e mi sento come anestetizzata. Non sono lì, in quella stanza estranea, con un assassino. Non sono io. Mentre le sue parole mi scivolano addosso, osservo la piccola finestra.
Forse potrei...
«È inchiodata» dice caustico l'uomo, seguendo il mio sguardo.
Mio padre pagherà, ne sono certa.
Perché non dovrebbe?
Pagherà, vero?
 
♦⸎♦
 
Ho avvertito chiaramente il suono della serratura quando l'uomo mi ha lasciata sola e resto chiusa in camera per quelle che sembrano ore, sola con il vorticare dei pensieri nella mia testa. Fuori sta nuovamente calando la sera e presto sarà trascorso un giorno intero dalla morte di Lisa e dal mio rapimento. Sono passata attraverso talmente tante fasi che non le conto neanche più: ho ondeggiato fra il panico e l'inconsapevolezza per ore, ho pregato, ho sperato, ho perfino urlato e pianto. Altri momenti, invece, sono trascorsi più tranquilli, e in quegli istanti ho potuto guardare la stanza attorno a me. È piccola, avvolta da sottile carta da parati dai minuscoli fiorellini rosa, con alcuni lembi che ricadono penzolanti creando lunghe ombre spettrali. Il letto a baldacchino non ha più alcun tessuto a coprirlo e sembra lo scheletro esposto di qualche animale grottesco. Le lampade sui due comodini in legno scuro sono abat jour con la stoffa che richiama i fiori delle pareti. La porta del bagno interno è bianca e scrostata in parecchi punti, con lunghe schegge di legno pallido esposte e raschiate. La stanza di qualche bambina vissuta secoli indietro, forse, che adesso ha solo l'aria inquietante di un luogo abbandonato.
L'autunno picchia forte fuori dalla finestra quando l'oscurità è finalmente scesa. Mi avvolgo nel maglione scuro che l'albino mi ha lasciato. Odora di dopobarba e mi copre fino a sfiorare il ginocchio. Mentre l'ennesimo brivido mi avvolge e sto meditando di rintanarmi sotto le coperte, qualcuno bussa e qualcun altro gratta la superficie della porta. Io non rispondo; sono stremata, sconfitta, abbattuta.
La chiave gira e l'albino irrompe. Ha lo sguardo quasi... preoccupato.
«Stai male?»
Certo, la tempia pulsa di tanto in tanto, inviando ondate di dolore fisico. Ho avuto troppo a cui pensare nelle ore di solitudine, però, per preoccuparmi della botta e delle sue conseguenze.
«Scendi, è pronto.»
«Non ho fame» rispondo, il tono piatto.
Cerbero entra e salta sul letto. Mi prendo un attimo per osservare le sue feste così fuori luogo, che si palesano nello scodinzolare allegro della coda bianca. Tutto è così stupidamente bianco quando si tratta di quest'uomo.
«Sembra tu stia morendo di fame, vieni a mangiare.»
La frase mi colpisce come uno schiaffo. Sì, mi sto affamando. Da mesi, ormai. E la mia è una fame perenne, senza tregua, costante. Un vuoto che non desidero riempire in alcun modo, perché è il sintomo del mio piccolo successo. Quando riesco a non mangiare, la soddisfazione mi scorre dentro, rianimandomi appena.
«No» rispondo, mesta.
Si avvicina al letto e sembra più minaccioso di quanto mi sia parso fino a ora. Con il suo sguardo di ghiaccio mi perfora, penetrandomi l'anima, senza chiarire se si tratti di una minaccia o di un'accusa. Vorrei urlargli di smetterla, ma non ne ho la forza, né il coraggio. Vorrei dirgli che so bene quanto sia stupido, quanto le mie vittorie siano sconfitte, quanto sia ovvio che qualcosa non va, in me. Vorrei confessargli di essermi accorta solo il giorno prima di non voler morire, non davvero.
Invece sospiro. Non è il caso di fare capricci, così mi alzo per seguirlo, abbattuta, con Cerbero fra piedi che scodinzola felice. Il suo entusiasmo è così fuori luogo che il mio cervello sembra quasi rifiutarsi di registrarlo.
La scala scricchiolante conduce a un piccolo salotto con il camino dove il fuoco scoppietta e riscalda l'ambiente. Mi getto un'occhiata attorno e la casa sembra una baita montana un po' trascurata; posso vedere la cucina e il piccolo tavolo con i piatti e le stoviglie. Mi avvicino sentendo l'odore di carne ben cotta, ma mi assale più nausea che fame.
«Avanti» mi incita l'uomo, fermo.
Sospiro ancora e prendo posto, ma non riesco davvero a guardare nel mio piatto. Quando trovo la forza scopro che la mia bistecca è già stata tagliata e che mi potrò servire solo con il cucchiaio. Questo, ovviamente, se avessi intenzione di mangiare. L'uomo ha pensato a tutto, tranne alla mia piccola guerra personale. Lo osservo mangiare con calma, bere brandendo con decisione il bicchiere, come se non esistessi. Alla fine del pasto si alza, afferra il mio piatto e lo appoggia a terra, dove arriva un entusiasta Cerbero a finire dove io non ho neanche iniziato.
«Non mangi mai, è così?» domanda una volta che si è nuovamente seduto, continuando a fissare davanti a sé.
«Io...»
Mangio, in realtà, qualche volta. Quando mi sento troppo debole e la testa mi gira. Poche cose, studiate e ponderate, ben calibrate. Di certo non bistecche.
L'uomo afferra un melograno dalla fruttiera e lo spacca con suono secco, restando con le due metà fra le dita.
«Ora mangerai.»
La sua voce è dura e le sue parole sono un affondo. Mi impaurisce, facendo nascere brividi che increspano la mia pelle esposta. Non riesco a staccargli gli occhi di dosso, mentre mi mette davanti uno, due, tre, quattro, cinque, sei chicchi di melograno.
«Dai.»
Il suo è un ordine ed è così duro che non riesco a impedire al mio braccio di alzarsi e alle mie dita di afferrare un piccolo seme rosso. Lo infilo tra le labbra e mangio. Mangio per sei volte, lentamente. I sei chicchi sono scivolati giù, posso quasi sentirli galleggiare nel mio stomaco, affondare dentro di me come un patto, una promessa tacita.
«Brava» mi premia l'uomo.
Alzo gli occhi e finalmente lui mi guarda.
Brava.
Sembra stupido ma trovo una sola, singola risposta.
«Grazie» mormoro.
 
Ecco il secondo capitolo!
Sono contenta che il primo sia piaciuto ad alcune persone e le ringrazio infinitamente!!
Sarò contenta se vorrete farmi sapere cosa vi pare di questo, ma anche chi si limita a leggere le mie storielle in silenzio mi riempie di felicità!
Alla prossima...
EDIT: come detto nel primo capitolo, qui potete scaricare l'e-book gratuitamente!​
DonnieTZ

 
 
 
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: DonnieTZ