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Autore: nafasa    14/10/2008    1 recensioni
Rimasi paralizzato. Ero in trappola. Tenni fissi gli occhi nel punto in cui avevo visto qualcosa, con la mente che valutava frenetica le possibilità di fuga e i muscoli rigidi, pronti a scattare. Ma feci un balzo in piedi, quando dall’ombra emerse la cosa più strana che avessi mai visto. “Quo vadis, gnat?”
Genere: Malinconico, Fantasy, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO QUATTRO

Dopo un po’ però la mollai. E me ne tornai a casa. Mi distesi sul letto e respirai a fondo, molte volte. Non avevo ancora accettato quello che mi era successo la mattina. Una sirena trasformata in ragazza con un enorme cane al seguito, mandata a un capo del nostro mondo come dono. Forse le vittime della Sparizione erano andate nel mondo delle sirene, a Moore, e lì le sfruttavano per il loro divertimento. Massacravano. Mi sorpresi a pensare alla razza umana. Avevano massacrato tutto il massacrabile sulla terra. Si erano uccisi pure tra loro. E quando qua non c’era più niente da rovinare, andavano a rovinare altri mondi. Un piccolo e maligno pensiero si insinuò in me. Avevamo massacrato. Ci eravamo uccisi tra noi. Anch’io ero un uomo. Per la prima volta in vita mia me ne vergognai. Dovevo sapere se erano gli Spariti quelli nel mondo delle sirene.

Andai in cucina e cercai qualcosa da mangiare, anche se non avevo fame. Non trovai niente, così uscii di nuovo. Andai in giro per qualche minuto. Potevo tornare da Zabluda, ma non ne avevo voglia. Tornai a casa. Misi a posto un po’ la casa. Feci i letti. Tentai di studiare. Non avevo voglia di fare niente eppure sentivo di dover fare qualcosa. Così passai il tempo facendo e disfando cose inutili, finché non arrivò mio fratello, sporco di olio, e gli quasi uscirono gli occhi dalla testa a vedere che avevo riordinato casa. Fece qualcuno dei suoi commenti sulla “donnina delle pulizie” e andò a lavarsi. Quando uscii ero sul letto con il libro di matematica. Lo stavo decisamente spaventando. Così si sedette vicino a me e mi chiese se stavo bene.

“Ho conosciuto una ragazza” gli risposi in un soffio.

“Conosciuto in senso biblico?”

“Eh?” Ogni tanto se ne usciva con frasi strane.

“Te la sei fatta?”

“Ma no!”

“Ehi, non essere scandalizzato donnina delle pulizie! Sarebbe anche ora no?”

“Beh, invece l’ho solo conosciuta, fine. Abbiamo parlato”

“E ti sei messo a fare le pulizie e a studiare solo perchè hai parlato con una ragazza? Quando te ne scoperai una cosa farai? Ti laureerai e costruirai un castello?”

Gli spiegai la storia. Non tutta. A dire il vero gli dissi solo che avevo conosciuto sta tipa coperta di stracci neri e con il cane in ex zona industriale mentre bigiavo e che avevamo parlato del più e del meno. Mi accorsi che se pensavo di dirgli della storia di Zabluda mi mettevo a balbettare e non riuscivo ad andare avanti. Gli descrissi anche gli occhi, non potei farne a meno.

“Ehi, moccioso! Tu alla ragazza le guardavi gli occhi? E il culo?”

“Era seduta. E poi dai, era tutta pelle e ossa, figurati se aveva culo!”

“E’ sempre meglio controllare” disse, e si accese una sigaretta già rollata.

“Cos’è? Hai trovato tabacco?”

“No, è solo un po’ di erba secca, ma consola.” Fissò la sigaretta storta e granulosa come se fosse un insetto zampettante. Era evidente che non gli piaceva, tanto che me la diede e si vestì. Tirai. Faceva proprio schifo.

“Allora che fai con questa tipa, come hai detto che si chiama?”

“Zabluda.”

“Ma che razza di nome è? Da dove viene?”

“Non so” Bugia.

“Ma insomma che hai intenzione di fare?”

“Niente, che dovrei fare?”

“Vuoi scopartela o no?”

“No!” Ed era pure vero. Quella ragazza mi sconvolgeva. Senza contare che non era una ragazza.

Uscii sbuffando e andò da qualche suo grosso amico. Ero una delusione di fratello. Sapevo che stava cominciando a preoccuparsi del mio orientamento, ma che ci potevo fare? Io ero sicuro di non essere gay, quindi avevo il cuore in pace.

Passarono i giorni e le settimane.  Cominciai a pensare sempre meno a quello strano incontro, anche se ero convinto che non sarei mai riuscito a dimenticarlo. Ma fui riassorbito dalla mia squallida esistenza, che sembrava ancora più squallida dopo aver saputo di altri mondi fantastici. Mondi tragici, pieni di dolore, ma almeno il dolore non era apatia. Era qualcosa. Faceva sentire vivi per lo meno. Cominciai a mordermi la lingua ogni tanto. Così, per sentirmi vivo. La scuola andava sempre peggio. Finiva l’anno. Sarei stato bocciato, era quasi sicuro. Non avevo il coraggio di dirlo a mia madre. Tornava a casa sempre più tardi e qualche volta anche senza scatolette per noi. Diceva di dimenticarsele nella casa. Scoprii che avevano licenziato la domestica a tempo pieno, per questo mia madre lavorava molto di più e tornava a casa sempre distrutta. Ma non le aumentavano la paga. La famiglia per la quale lavorava aveva problemi. Mio fratello perse il lavoro per un litigio e cominciò a cercarsene un altro. Non a trovarlo, a cercarlo. Intanto le vaschette diminuivano sempre più. Era una fortuna se arrivavano. Io proposi di mollare la scuola e mettermi a lavorare, ma mia madre non volle sentire ragioni. Io dovevo studiare. Continuai a non avere il coraggio di dirle che non avrei passato l’anno. Mi sentivo tremendamente in colpa. Una delusione di figlio e di fratello. Tanti sacrifici. Loro lavoravano perché io studiassi. Perché mi facessi una vita. Mi odiavo. E mi morsicavo la lingua. Quando proprio non ce la facevo più uscivo di casa e correvo. Correvo lontano, fino a quando non avevo più fiato nei polmoni e oltre, finché l’acido lattico non mi bloccava le gambe e gli occhi non mi schizzavano fuori dalla testa. Allora mi buttavo per terra e piangevo come uno scemo. 

Tornai una volta dove avevo visto Zabluda, ma non la trovai. Quindi archiviai la cosa definitivamente e mi concentrai nello sprofondare sempre più in basso. Volevo fare qualcosa, qualcosa per salvare la mia famiglia, ma non riuscivo a trovare cosa. Non potevo lavorare di nascosto, mi serviva il permesso di mia madre. E lei non me lo voleva fare. Potevo lavorare in nero, ma non ci pensai. Oltretutto non avevo idea di cosa avrei potuto fare o come. Mi venne l’idea di andare a cercare mio padre, magari si era rimesso in sesto e ora poteva aiutarci. O magari era morto. Non potevo saperlo e non avevo il coraggio di tentare, quindi restavo sul mio letto a deprimermi. E intanto i nostri pochi risparmi finirono. Mia madre continuava a dirci che era solo un periodo, che si sarebbe sistemato tutto, ma non ne era neanche lei molto convinta. Cominciammo a digiunare ogni tanto. Tentammo di vendere qualche mobile o oggetto, ma non raggranellammo molti soldi. Nessuno voleva la nostra roba. Si credeva che le cose di una famiglia che stava cadendo in disgrazia portassero disgrazia a chi le comprava. O era solo un modo di dire per non far capire che non si avevano soldi neanche a volerlo per comprare la nostra roba. E se li avevano non li sprecavano così. Non penso fosse una questione di superstizione o buon costume, perché quando qualche vecchio moriva nessuno si faceva troppi problemi a svuotargli la casa. E a mio parere quello portava molta più sfortuna.

Così un giorno mia madre mi guardò e disse:

“Liron, vai a prendere qualcosa da mangiare per te e tuo fratello. Oggi non avete messo niente in pancia.”

Tesi la mano, per avere dei soldi. Mia madre non si mosse, ma scosse la testa lentamente. Capii. Uscii di casa senza sapere come fare ma con l’intenzione di fare. Camminai a lungo, ma almeno ebbi fortuna. Arrivai in una zona che non conoscevo bene. E dove non mi conoscevano. Era sera e un commerciante stava scaricando le merci per il giorno dopo. Non ci pensai molto. Mentre entrava nel negozio con delle cassette di verdura tra le braccia presi un sacco di patate, me lo misi in spalla e me la diedi a gambe. Per fortuna ero allenato a correre a pancia vuota. Sentii le urla alle mie spalle, ma non mi fermai. Non mi presero. Tornai a casa e mio fratello stava urlando. Contro mia madre.

“Perché lo hai fatto? Troverò un lavoro! Non dovevi mandarlo a rubare! A cosa ci siamo ridotti? E se lo prendono? Non ci hai pensato?”

Mia madre gli urlava di rimando contro. Diceva che era lei a comandare, e che non si doveva permettere di parlarle così. Quando entrai col mio sacco ammutolirono. Lo posai lentamente sul tavolo e con gli occhi lucidi dissi a mia madre:

“Mi bocciano. Mamma, fammi il permesso, domani vado a cercare lavoro.”

Mangiammo le patate in silenzio quella sera.

 

 

 

 

Grazie ad anil13 che mi recensisce! =D

Non preoccuparti, non diventa melensa. Quello è uno dei momenti più mielosi. I personaggi non abbonderanno, perché comunque la storia è in gran parte già scritta, e poi non è lunghissima. Mi manca solo la parte finale. Anzi, ora mi metto sotto e vado avanti!

Oh che bello che è avere recensioni! =)

  
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