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Autore: Astry_1971    16/10/2014    1 recensioni
Aveva fantasticato sulle sue città popolose, le ricche foreste e le enormi distese d’acqua, illuminate dalla gigantesca sfera di fuoco che volava nel cielo. Aveva cercato di immaginare il colore azzurro dell’immensa cupola che proteggeva quel mondo e che diventava nera e punteggiata di piccole fiaccole quando il sole si nascondeva dietro le montagne. Aveva sognato di vedere gli animali con le ali che galleggiavano tra la terra e il cielo. Non solo lui, tutti avevano fatto quel sogno, almeno una volta, ed ora il sogno stava per realizzarsi.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cap. 12

Trascorsero altri giorni da quel momento. Alla cava tutto sembrava tranquillo come al solito. Kore non aveva più parlato con Marietta della sua fuga notturna e lei pareva voler dimenticare l’episodio.
Mentre erano in fila per il pranzo lo sguardo di Kore individuò un gruppo di uomini robusti vicino al punto dove era solito appartarsi il vecchio servitore di Amauròs. Tentò invano di sbirciare attraverso il muro di muscoli, ma non ci riuscì. Forse Diego era dietro di loro, seduto sulla roccia a mangiare la sua razione giornaliera. Si chiese cosa volessero da lui quegli strani individui, ma immediatamente un'altra scena attirò la sua attenzione: un ragazzino smilzo vestito con una corta tunichetta che una volta doveva essere stata di un colore verde acido, il volto semicoperto da un cappuccio, stava spingendo faticosamente un carrettino carico di attrezzi da lavoro e altra ferraglia. Subito fu attorniato da alcuni schiavi che presero ad esaminare il carico. Soppesavano gli attrezzi, verificando l’affilatura degli scalpelli e la maneggevolezza di mazze e martelli.
D’istinto Kore abbandonò la fila. Non sapeva perché, ma qualcosa la attirava verso il bambino, qualcosa di familiare.
Quando gli fu di fronte, il ragazzino sollevò il viso e a Kore sentì il cuore balzarle fuori dal petto.
“Fabian!” il nome del fratello le sfuggì dalle labbra ancora prima che il suo cervello potesse realizzare quello che stava facendo.
Il bambino la fissò stupito, come se la vedesse per la prima volta.
Kore si morse il labbro ricordando le parole di Marietta. Fabian non poteva riconoscerla, e lei stava rischiando di metterlo nei guai con la sua avventatezza.
Cercò di pensare in fretta, ma aveva solo una gran voglia di abbracciarlo e dare libero sfogo alle lacrime. Strinse i pugni e si obbligò a restare immobile.
Il bambino continuava a guardarla, mentre i minatori che frugavano nel suo carretto non fecero caso a lei.
Un uomo le passò vicino spintonandola. Anche lui era interessato a ciò che Fabian teneva nel carro. Forse suo fratello era lì per vendere quegli attrezzi, o magari barattarli. Gli occhi di Kore passarono in rassegna il contenuto del carretto, individuando in un angolo un bauletto. Si chiese cosa potesse contenere. Forse qualche genere di moneta che si usava per commerciare in quel mondo, ammesso che gli schiavi potessero disporne. Forse, molto più semplicemente, la moneta di scambio dei minatori erano proprio le pietre magiche.
Magari Fabian le avrebbe a sua volta scambiate con viveri e vestiti, per sé, e per chiunque stesse vendendo quella merce. Era certa, infatti, che suo fratello non fosse in grado di fabbricare qualcosa con le proprie mani, tantomeno era in grado di lavorare il metallo.
Fabian sorrise all’uomo porgendogli delle cesoie e, mentre quello le esaminava con molta attenzione, tornò a rivolgere lo sguardo verso Kore.
Gli occhi di lei divennero lucidi, non sapeva che fare, non poteva restarsene li a fissarlo senza dire niente, né poteva voltargli le spalle e rischiare così di perderlo per la seconda volta.
L’aveva chiamato per nome, ma per Fabian quell’appellativo evidentemente non aveva più alcun significato. Non aveva detto niente, non aveva neppure chiesto chi fosse lei e perché lo avesse chiamato in quel modo. Kore realizzò che non rivolgeva la parola nemmeno agli uomini che lo avevano attorniato. Alle loro richieste rispondeva con semplici cenni del capo. Per un attimo temette il peggio, immaginando qualche terribile incantesimo, forse una strana magia gli impediva di parlare. Ormai non si stupiva più di nulla. Poi però si convinse che, più semplicemente, gli era stato in qualche modo imposto di non parlare onde evitare che il suo accento lo tradisse. Sì, doveva essere di certo questa la ragione. Del resto a lei avevano fatto la stessa raccomandazione.
Fabian sembrava conoscere bene il suo lavoro. Era a suo agio in quell’ambiente sotterraneo, come se non avesse conosciuto altro nella vita. Tuttavia parve stupito e anche spaventato quando uno degli schiavi che lo avevano avvicinato sbottò in una risata sguaiata.
Era un uomo calvo sui cinquant’anni. Il volto e il petto nudo e muscoloso avevano assunto un inquietante colorito verdognolo a causa della polvere di pietra magica mista a sudore che gli copriva completamente la pelle, come una patina.
“Ehi! I Vermi delle Grotte ti hanno forse mangiato la lingua, ragazzino?” sbraitò strattonando Fabian.
Il bambino scosse violentemente il capo, ma non rispose.
Davanti a quella scena, Kore non poté fare a meno di lanciare all’uomo un’occhiata rabbiosa. Se avesse continuato a schernire il suo fratellino si sarebbe guadagnato un calcio negli stinchi. Ma i propositi violenti della ragazza furono bloccati sul nascere: Freda si era avvicinata e posò gentilmente le mani sulle spalle del piccolo Fabian.
“Il ragazzo non parla.” disse rivolgendosi all’uomo, che sembrò rimpicciolire di fronte alla vecchia maga. “Ma il fabbro non sarebbe contento di sapere che qualcuno si prende gioco di suo figlio, faresti meglio a tenere per te i tuoi commenti, Rufo.” lo avvertì, e il suo volto rugoso assunse un espressione che fece rabbrividire Kore e, di sicuro, ebbe lo stesso effetto sul minatore che chinò il capo e si allontanò in gran fretta.
Tuttavia era chiaro che, nonostante Fabian si comportasse come se fosse a casa propria, la sua presenza alla cava era una novità per tutti gli altri, infatti, subito dopo, un altro minatore si rivolse a Freda.
“E il figlio del fabbro ce l’ha un nome?” domandò. “O dovremo rivolgerci a lui chiamandolo ‘Ehi tu’?
“Guccio è il suo nome.” lo informò seccamente la strega.
Kore sentì una stretta dolorosa allo stomaco.
Senza accorgersene si morse il labbro fino a farlo sanguinare, quando gli occhi, che faticavano a trattenere le lacrime, carpirono l’impercettibile sorriso di suo fratello nel sentire pronunciare quel nome.
“Ora prendi quello di cui hai bisogno e torna al tuo lavoro.” continuò Freda indicando all’uomo la ferraglia che luccicava nel carretto e poi, afferrando Kore per un braccio, la trascinò lontano.
La giovane non osò ribellarsi, ma continuò ad osservare amareggiata dietro di sé il piccolo schiavo che distribuiva i nuovi attrezzi ai lavoratori. Immaginò che non sarebbe stato saggio tentare di parlare con lui in quel momento. Tuttavia doveva escogitare un piano, un scusa per avvicinarlo da sola. Doveva tentare di guadagnarsi la sua amicizia prima di ricordargli chi fosse in realtà. Ma come? Bisognava agire con prudenza. Ora Fabian, o Guccio come si faceva chiamare, era uno di loro o, almeno, credeva di esserlo. Avrebbe potuto tradirla e lei non poteva rischiare di scoprirsi, mettendo in pericolo anche lui.
Sospirò: finalmente aveva avuto la conferma che era sano e salvo e che, a quanto sembrava, non correva immediato pericolo, quindi aveva tutto il tempo per pensare alla cosa migliore da fare per conquistare la sua fiducia. Forse parlandogli nella sua lingua madre sarebbe riuscita persino a risvegliare in lui i ricordi, ma non doveva essere precipitosa, ci sarebbero state altre occasioni per avvicinare Fabian, almeno era quello che si augurava.
Un debole sorriso si disegnò sul suo volto, mentre fantasticava sul loro ritorno a casa.
Freda continuava a trascinarla, ma lei sembrava non accorgersene. I suoi piedi si muovevano meccanicamente, un passo dietro l’altro, e, intanto, miriadi di pensieri le vorticavano caotici nel cervello. Poi, all’improvviso, un suono basso e prolungato riempì l’aria rimbalzando da una parete all’altra come un funesto presagio di sventure.
Tutti gli uomini gettarono a terra i loro attrezzi e corsero verso la fonte del lugubre ululato che, in un primo momento, aveva ricordato a Kore il verso straziante di un animale, e solo dopo la giovane riuscì a collegarlo ad uno strumento dell’uomo, un corno o qualcosa di simile. Probabilmente una specie di allarme a giudicare dalla reazione degli schiavi.
Anche Freda ebbe un sussulto nell’udire quel richiamo, ma non affrettò il suo passo. Lei e Kore furono sorpassate da decine di donne e uomini che correvano a perdifiato.
In quella confusione la giovane perse di vista il fratello. Lo cercò inutilmente con lo sguardo per alcuni minuti, poi si voltò e i suoi occhi corsero verso il luogo in cui, poco prima di incontrare Fabian, aveva visto l’assembramento di uomini. Ora, nel punto in cui Diego era solito consumare il suo pasto, non c’era più nessuno: anche quei minatori dovevano aver raggiunto gli altri seguendo il richiamo del corno, e la roccia dove avrebbe dovuto trovarsi seduto il vecchio servitore era vuota. Si chiese se anche lui avesse seguito gli altri, o se, quel giorno, non si trovasse affatto alla cava.
 
***

Amauròs si voltò di scatto. Era appena riuscito a prendere sonno quando i colpi lo svegliarono. Qualcuno stava bussando alla sua porta con una tale violenza che si precipitò giù dal letto e si preparò a difendersi da un eventuale assalitore. Protese le mani in avanti in direzione dell’ingresso e trattenne il respiro. Poi le grida disperate di una donna gli bloccarono le parole del maleficio in gola.
“Mio signore, apri, ti prego!”
Riconobbe subito la voce di Ivetta. Si portò il palmo della mano verso il petto, e poi, con un gesto ampio e rapido simile ad uno schiaffo, colpì l’aria.
Come se fosse stata afferrata dalle sue dita, la porta si spalancò sbattendo con tanta forza sulla parete da rimbalzare per ben due volte.
Sulla soglia la donna in lacrime era accompagnata da Orbiana che la tratteneva per un braccio.
Amauròs s’irrigidì non appena percepì la presenza del Segugio. I suoi occhi spenti si spostarono su di lei, come se potesse vederla. Non parlò, ma una smorfia disgustata gli si disegnò sul viso.
“L’ho trovata all’ingresso della città che gridava il tuo nome.” esordì Orbiana. La sua voce era simile ad un rantolo gorgogliante.
Amauròs mosse il capo lentamente finché gli occhi neri giunsero a sfiorare la schiava.
“Perché sei qui?” le domandò calmo.
“Giona. Non riescono a trovarlo. Temono che si sia perso in una delle gallerie. Mio Signore, tu puoi aiutarli, ti prego…” singhiozzò la donna. “E’ giorno… i Vermi…” un grido soffocato spezzò le sue parole, mentre, artigliandosi alla tunica dell’uomo, si gettava in ginocchio ai suoi piedi.
Orbiana scoppiò in una risata stridente. Poi si rivolse al mago.
“Oh, ora ti precipiterai a salvare il moccioso, immagino.” lo derise.
“Perché no?” le rispose gelido Amauròs, piegando le labbra in un riso maligno. Poi si chinò e, afferrando Ivetta per le braccia, la costrinse, con poco garbo, a rimettersi in piedi.
“Perché Diego non è con te?”
“Io… Io non lo so, sono tutti impegnati nelle ricerche, forse anche lui. Non sono riuscita a trovarlo. Io… Io, non ho pensato… Mi sono precipitata qui.” scosse il capo. “Non sapevo cosa fare, ti prego, mio Signore, tu devi trovare il mio bambino. Ti prego!”
Amauròs poggiò la mano sulla spalla della donna e la spinse di lato, frapponendosi tra lei e Orbiana.
Sollevò il mento con aria di sfida.
“La tua presenza non è più necessaria, accompagnerò io Ivetta alla cava.”
L’altra allungò il collo, finché il suo naso non si trovò a pochi centimetri dal petto dell’altro che la superava in altezza.
“Stai attento a non inciampare, cieco!” gracchiò.
“Non accadrà, a meno di non trovare sulla mia strada le tue ossa rinsecchite.” rispose e, afferrando la porta, la sbatté sulla faccia della strega che si ritrasse appena in tempo per non essere colpita.
Amauròs si diresse con sicurezza verso una cassapanca alla sua destra. Si mise in ginocchio e sollevò il coperchio. Frugò all’interno finché coi polpastrelli riconobbe la trama grossolana e ruvida di un sacchetto.
Lo afferrò, soppesandolo. Il tintinnare delle pietre all’interno gli confermò l’esattezza della sua scelta. Se lo legò alla cintura poi, senza voltarsi, disse alla donna:
“C’è un cofanetto sul tavolo dietro di te, prendilo!”
Ivetta fece quello che l’altro le aveva chiesto e poi gli si avvicinò.
Amauròs la udì singhiozzare.
Sospirò, maledicendo mentalmente quell’infausta giornata, le grotte, quel mondo, e persino se stesso, sentendo tutto il peso della speranza che quella donna riponeva in lui. Una speranza inutile, purtroppo ne era certo.
Pur non avendo la sensibilità dei Segugi, le sue preziose pietre e i suoi poteri di Geomante l’avrebbero aiutato a ritrovare il bambino, ma solo se fosse stato ancora vivo, cosa di cui dubitava fortemente. Giona conosceva molto bene le miniere e il fatto che non fosse tornato poteva significare solo una cosa: era stato attaccato.
Sentì la rabbia e l’odio crescere. Quelle bestie maledette erano ormai diventate l’incubo degli abitanti del mondo sotterraneo, non passava mese senza che non giungesse la notizia di una nuova vittima. Ivetta era arrivata lì inutilmente, l’assenza di Diego, non faceva che confermare i suoi timori, purtroppo. Non riusciva a capacitarsi del fatto che il vecchio fosse rimasto alla cava, lasciando che la madre di Giona si avventurasse da sola in città, finendo nelle mani dei Segugi, e correndo il rischio di essere rimandata indietro senza poterlo raggiungere. L’unica spiegazione che riusciva a darsi, l’unica ragione possibile era che l’avessero allontanata volutamente dalle miniere, perché non vedesse l’epilogo della tragedia.
Al posto di quegli uomini avrebbe agito allo stesso modo.
Molti anni prima, aveva visto un Verme uccidere un uomo, scosse il capo, no, una madre non avrebbe mai dovuto trovarsi di fronte una scena simile.
Chiuse il baule e si rimise in piedi.
Era certo che, una volta giunti alle grotte, avrebbero trovato Diego e gli altri ad aspettarli, il corpo del bambino già pietosamente ricomposto, se non addirittura nascosto, perché Ivetta non potesse vederne lo scempio.
Si trovò a benedire gli Dei per la sua cecità e un sorriso amaro gli si disegnò sulle labbra: mentre l’assurdo pensiero si formava nella sua mente.
“Andiamo!” disse avviandosi verso l’uscita. Ivetta lo seguì in silenzio. Poi appena fuori, Amauròs si mise da una parte lasciando che la donna lo sorpassasse. Appoggiò la mano sulla spalla di lei e si lasciò condurre verso le scale, le dita si strinsero nervose mentre il senso di impotenza si impadroniva sempre più di lui. Impotenza, ma allo stesso tempo rabbia e voglia di vendicare quell’ennesima morte. Se, come era certo, fosse accaduto il peggio, le sue capacità sarebbero servite almeno a trovare l’assassino del piccolo Giona: i Vermi delle Grotte non erano difficili da scovare, degli animali così grossi scuotevano l’equilibrio magico di quel mondo come un terremoto. Quella orrenda bestia non aveva scampo. Un gusto acre gli riempì la bocca, mentre contava i gradini sperando che l’ultimo non giungesse mai.
 
  
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