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Autore: Nina Ninetta    16/10/2014    1 recensioni
*IN FASE DI EDITING*
L'avventura di tre giovani amiche - Teddy, Morena e Grimilde - si svolge in soli due giorni: un week end speciale che decidono di trascorrere in un resort per festeggiare l'addio al nubilato di Teddy, inconsapevoli che qui incontreranno i fantasmi del loro passato, con cui saranno costrette a confrontarsi, senza poter più rimandare.
PS. Il titolo è tratto dalla canzone "Per Sempre" di Nina Zilli.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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INIZIO SECONDA PARTE
 
Prologo
 

Morena aveva trascorso così tante notti insonni che oramai aveva perso il conto e quella, l’ennesima, sperò che fosse anche l’ultima.
La tenue luce dell’abat-jour filtrava attraverso la porta semichiusa della camera accanto, estendendosi sul parquet che rivestiva il pavimento del corridoio, fino a sfiorare il battiscopa. Morena poteva scorgerne l’ombra anche con la porta leggermente socchiusa, forse a causa della notte buia e priva di stelle, resa ancor più oscura dal cielo ricoperto di brutte nubi minacciose. Le parve di sentire un suono e rimase così, sospesa, trattenendo il fiato e contando fino a dieci – come era solita fare nelle lunghe notti in cui era stata sveglia a vegliare e a rimuginare – quando fu poi sicura che era stato solo uno scherzo della mente lasciò uscire l’aria che aveva represso, tornando a guardare Diego che dormiva nel letto – il loro letto – coperto fino a metà corpo.
Aveva passato intere notti seduta su quella sedia, alla toeletta che lui le aveva regalato per completare la mobilia della camera da letto dopo che si era trasferita lì in Italia con lui, a guardarlo dormire con l’orecchio perennemente teso per captare ogni minimo spostamento d’aria, mentre la sua mente si riempiva di domande che avrebbe voluto porgli, di dubbi che avrebbe voluto risolvere con lui, di paure che avrebbe voluto confessare alle sue amiche Teddy e Grimilde, senza mai trovare il coraggio di affrontare l’argomento. E, alla fine, aveva fatto una scelta, la più sbrigativa forse, la più semplice in un certo senso, ma non era riuscita a far altro.
Diego Torres aveva un respiro regolare, le palpebre abbassate erano leggermente schiuse, e se questo aveva spaventato Morena nei primi giorni di convivenza perché le sembravano gli occhi di un moribondo, adesso non le facevano più alcun effetto, dopo quasi due anni poteva dire di conoscere il suo compagno quasi quanto conosceva sé stessa. Tuttavia, la verità era diversa, completamente diversa: in quell’ultimo periodo non era neanche più molto sicura di conoscersi personalmente, figuriamoci se poteva essere così arrogante e affermare di conoscere un’altra persona. Pura fantascienza.
Intere notti a star seduta su quella sedia, fino a farsi dolere il fondoschiena, a fissarlo e a tormentarsi le mani, le unghie, mentre miriadi di timori le corrodevano la mente e il cuore, ma quella notte sarebbe stata l’ultima, non avrebbe più trascorso ore e ore senza dormire nell’attesa o nella speranza che la soluzione arrivasse da sola, senza dimenticarsi di tenere sempre un orecchio teso, per qualsiasi evenienza.
Alle sue spalle la sveglia scandiva i secondi, la guardò e si disse che era tempo di muoversi, a breve lui sarebbe arrivato; aveva già passato questa fase un quarto d’ora prima e un altro quarto prima ancora, senza tuttavia trovare la forza di alzarsi e abbandonare la camera, abbandonare la casa, abbandonare Diego. Questa volta, però, era davvero giunto il momento di smuoversi e salutarlo. Quando si alzò rimase ancora qualche secondo nel buio, la fioca luce dal pavimento si rifletteva fin oltre lo spiraglio di porta aperta, si figurava a chinarsi su di lui e posargli un bacio sui capelli, o sulla guancia, o sulla bocca, invece tutto ciò che fece fu voltarsi e lasciare la stanza, richiudendo la porta dietro di sé, con delicatezza.
Nel corridoio la luce era un po’ più forte di quella che traspariva nella camera da letto e rendeva l’ambiente decisamente meno freddo, più accogliente, quelle stesse mura color panna che Morena aveva imparato ad amare e che aveva sentito sue, ma che ora non riconosceva affatto, c’erano stati momenti in cui le aveva sentite stringersi intorno a sé, fino a toglierle il respiro, fino a schiacciarla. Seguì la luce e si affacciò nella stanza adiacente a quella matrimoniale, l’abat-jour con i personaggi della Disney proiettava le ombre di Winnie the Pooh sul soffitto dipinto di azzurro, le tendine di Qui Quo Qua erano chiuse. La ragazza si puntellò contro l’armadio di acero e sospirò, le braccia conserte come a volersi proteggere dall’onda che, inesorabilmente, l’avrebbe travolta.
Quasi urlò di spavento quando il cellulare riposto nella tasca dei jeans prese a vibrare – non si era dimenticata di abbassare a zero il livello della suoneria, aveva pianificato attentamente quella notte e non avrebbe lasciato nulla al caso. Il suo nome lampeggiava sul display e quando rispose era di nuovo nel corridoio, senza uscire dal cono di luce proveniente alle sue spalle:
«Sei qui?» gli chiese con un filo di voce
«Puntuale come uno sposo» scherzò lui e per Morena non fu difficile immaginare il sorriso che gli stava increspando le labbra
«Lo sai che hai un pessimo senso dell’umorismo, vero?!» bisbigliò e lo sentì ridere
«Vuoi che salga per aiutarti con i bagagli o con Martin?»
«No» fu la risposta categorica di lei «Aspettami giù» e la conversazione si chiuse.
Dopo aver alzato di peso il trolley, per evitare di trascinarlo lungo il pavimento e quindi rischiare di svegliare Diego, tornò indietro un’ultima volta a prelevare Martin dalla sua culla, sussurrandogli una ninna nanna per evitare che si destasse e cominciasse a piangere. Un’alta ombra si ergeva nel salone, era l’abete addobbato, con qualche regalo impacchettato sotto i grandi rami, uno di sicuro era per lei, Torres gliel’aveva lasciato intendere chiaramente e Morena si era illusa che un regalo potesse risolvere o almeno attenuare la situazione, purtroppo si era dovuta ricredere.
Lanciò un ultimissimo sguardo alla casa, con un piede dentro e l’altro oramai fuori dalla soglia, la luce dell’abat-jour si espandeva ancora nel corridoio, ma oramai non poteva più tornare indietro a spegnerla, oramai era fuori e lui la stava aspettando.
 
E lui aspettò, con le mani infilate nelle tasche del giubbotto e il naso all’insù, a cercare di scorgere una stella in quell’ammasso informe di nuvole e oscurità. L’umidità nell’aria aveva reso quella notte meno fredda delle altre, in attesa che il cielo riversasse tutta l’acqua di cui era capace, ma tra poco il maltempo sarebbe stata l’ultima delle preoccupazioni, lì molto probabilmente ci sarebbe stato il sole ad accoglierli o comunque temperature estive, lì il problema era decisamente più materiale e … umano.
Il rombo del taxi parcheggiato e in attesa – come lui – rompeva quel silenzio altrimenti naturale a quell’ora della notte. Guardò l’orologio al polso, scostando il polsino di maglia del giubbotto, erano le tre, tra poco più di mezz’ora il loro volo sarebbe decollato.
Il rumore dei passi che echeggiavano alle sue spalle lo indussero a voltarsi e sorrise alla ragazza che gli stava andando incontro, abbracciandola quando fu alla sua portata. Sorrise a Martin beatamente addormentato fra quelle braccia che lo stringevano e, in automatico, lo cullavano. L’autista del taxi, un uomo di mezza età con pochi capelli e molta pancia, salutò Morena con un inchino appena accennato, chiedendole se poteva prendere i bagagli che portava con sé. Lei annuì, ringraziandolo nella sua lingua madre, nonostante avesse imparato l’italiano velocemente, stupendo addirittura sé stessa, ringraziare le persone le veniva ancora difficile, forse a causa della somiglianza di suono fra le due parole: grazie e gracias.
Montò sui sedili posteriori, con Martin fra le braccia e durante i pochi chilometri che la separavano dall’aeroporto, lasciò che il tassista e il ragazzo, che le sedeva accanto, parlassero di sport (e di cos’altro altrimenti?). Ogni tanto lo scorgeva lanciare uno sguardo a Martin e un sorriso a lei, lei che si stava perdendo nelle luci dei lampioni al neon, continuamente tormentata dal senso di colpa, continuamente in lotta con l’istinto che aveva di tornare indietro e sdraiarsi al fianco di Diego, di abbracciarlo e accoccolarsi a lui. Di amarlo ancora, nonostante tutto.  
 

Capitolo 1


 
Il suo abito da sposa era bellissimo.
Il corpetto finemente lavorato le sorreggeva il seno e assottigliava la vita, cadendo morbido e flessuoso, lasciando dietro di sé un lungo strascico che a Teddy aveva sempre ricordato, dal momento in cui lo aveva indossato per la prima volta in quella boutique, la coda di un cigno, bianco e candido, elegante. Le braccia erano nude e lisce, i capelli raccolti sulla testa in uno chignon, decorato da nastri dorati che ricadevano sulle spalle, un velo di trucco le sfiorava le guance e incorniciava gli occhi, le labbra lucide. Teddy fissava quell’immagine eterea, quasi idilliaca, nello specchio a muro, chiedendosi chi fosse quella persona e perché si trovasse lì.
Qualcuno bussò alla porta alle sue spalle e lei non si voltò a guardare chi fosse, rimase immobile a fissare quella figura. La voce di sua madre le giunse come da lontano:
«Vieni» le ordinò calma e Teddy raccolse l’abito per evitare di inciamparvi dentro, oltrepassò la donna che era più alta di lei di una spanna ma magra alla stessa maniera, e si avviò lungo corridoi pochi illuminati.
La Chiesa era gremita. Scivolando sul tappeto blu vide sguardi sconosciuti fissarla e sorriderle, avvertì il tocco di mani raggrinzite dalla vecchiaia toccarle le braccia e congratularsi con lei. Gli occhi di Teddy passarono velocemente in rassegna l’intera parrocchia, con l’ansia di non vederle, temendo che qualcosa fosse andato storto e loro non erano lì, a sostenerla come sempre. Poi le vide, le sue amiche, Morena e Grimilde, in lunghi abiti dorati e setosi che richiamavano i nastri che aveva nei capelli, le vide e fu tentata di correre ad abbracciarle o di alzare una mano in segno di saluto, invece, semplicemente, rivolse loro un sorriso tremolante colmo di speranza, ma queste non ricambiarono, si limitarono a fissarla, prive di espressione, prive di emozioni.
E Marcelo era lì, sull’altare, con la mano protesa verso di lei, affiancato dai compagni che aveva scelto come testimoni di nozze. Le stava sorridendo e Teddy pensò che almeno lui sembrava felice. Quando posò la propria mano nella sua, la sentì fredda e sussultò quando la stretta di Marcelo diventò salda e quasi dolorosa. Le stava ancora sorridendo, ma il suo sorriso era cambiato, adesso somigliava molto più a un ghigno. Guardò di nuovo le due ragazze sulle sinistra, accennando loro un sorriso imbarazzato, ma ancora una volta queste non ricambiarono. Fu poi la voce del parroco a richiamare la sua attenzione, quando lo sentì pronunciare la Manifestazione del consenso al Matrimonio, saltando tutto quello che il rito normalmente prevede. Teddy lo fissò a bocca aperta, non ricordava neanche quando aveva cominciato la litania, se mai l’avesse fatto. Provò ad interromperlo più volte:
«Se dunque vostra intenzione di unirvi in matrimonio» la voce del prete, un lontano parente della famiglia di Marcelo, era pacata e Teddy vide che aveva le mani protese al cielo e gli occhi chiusi, tentò di dire qualcosa ma lui proseguì « … datevi la mano ed esprimete davanti a Dio … » a quella parola lei si allarmò, voltandosi verso Marcelo che fissava il parroco, lo chiamò a bassa voce, lo scrollò per la spalla, ma lui cacciò la sua mano come se fosse stata una mosca fastidiosa « … e alla sua Chiesa il vostro consenso»
Solo allora Marcelo la guardò, il ghigno era tornato sul suo volto, prese entrambe le mani di lei nelle sue e in quel momento a lei venne in mente il bouquet di fiori d’arancio che avrebbe dovuto portare con sé per poi consegnare a Morena a fine cerimonia, come una sorta di passaggio di consegna. E le fedi? Dove cavolo erano finite quelle fedi?
«Lo sposo può baciare la sposa!» il prete aveva caricato decisamente di troppa enfasi quell’esclamazione, ma non era quello il punto.
Il punto era che tutto stava accadendo troppo velocemente, saltando diversi passaggi e lei non aveva neanche proferito il fatidico sì. Il punto era che le sue amiche le avevano voltato le spalle e che non aveva portato con sé il mazzo di fiori che avrebbe dovuto dare a Morena per la sua nuova avventura in Italia; il punto era che non voleva sposarlo.
Ma ogni pensiero svanì nel nulla quando le labbra di Marcelo toccarono le sue, erano morbide e calde e rassicuranti, continuando a tenere le mani intrecciate la tirò verso di sé e le loro bocche aderirono alla perfezione. Teddy si rilassò per la prima volta da quando si era vista con addosso quell’abito bianco, dimentica delle persone che la circondavano, del prete sull’altare a qualche metro di distanza, di Morena e Grimilde alla sue spalle che non le avevano sorriso mentre attraversava la navata della Chiesa, di Marcelo e del suo ghigno.
Quelle labbra e quelle mani erano l’unica cosa che contavano e che la rassicuravano. Ogni dubbio era svanito, ogni sensazione di assurdità per l’intera situazione era scomparso. Lentamente la realtà riprese consistenza, le bocche si allontanarono e le palpebre si risollevarono, ma l’uomo che aveva appena baciato – o che aveva creduto di star baciando – non era più Marcelo. L’uomo che adesso le stava di fronte, con gli occhi scuri e sorridenti, in smoking nero, era Nicolas Antonio Romero.
 
Teddy scattò all’indietro sulla sedia e il gomito urtò il libro aperto alla sua destra, il quale finì sul pavimento, spandendo i tanti foglietti che custodiva fra le pagine. Lei lo guardò come se fosse l’oggetto più strano e alieno che avesse mai visto. Sbatté le ciglia un paio di volte e si strofinò la pelle delle braccia, nonostante le temperature aveva i brividi. Si chinò a raccogliere il libro e i biglietti sparsi qua e là, adesso le ritoccava riordinarli, posizionando ognuno nella pagina di riferimento, come se non lo avesse già fatto altre volte.
Era da settimane che quel sogno la tormentava, credeva di aver passato quella fase, quella durante la quale non riusciva ad addormentarsi per cinque minuti senza sognare il suo abito da sposa macchiato il giorno del suo matrimonio, Marcelo che non si presentava alla cerimonia, quello di sognare Nicolas, dopo aver fatto un lungo respiro ed aver detto a Marcelo di non amarlo.
Già, perché era proprio quello che era accaduto, né più né meno, era uscita dal bagno dentro il quale si era rinchiusa dopo che il suo allora fidanzato le aveva dato la notizia che l’atleta della nazionale di pallavolo cilena aveva divorziato dopo appena sei mesi di matrimonio. Quando Marcelo l’aveva vista sulla soglia della porta, ancora con i vestiti del viaggio addosso, era scattato dal divano come una molla, fraintendendo il suo sguardo serio in qualcosa di buono per lui. L’aveva raggiunta e le aveva passato una mano dietro la schiena per stringerla a sé e sussurrarle a denti stretti:
«Oh, che bimba cattiva che sei» Teddy aveva odiato ogni singolo vezzeggiativo che usava per apostrofarla quando era eccitata, o quando era contenta, oppure arrabbiata. Lui si era sporto in avanti per baciarla ed è stato in quel momento che lei gliel’ha detto:
«Non ti amo, Marcelo» ma a lui evidentemente era sembrato uno scherzo perché aveva abbozzato un sorriso e si era avvicinato ancor di più «Non è un gioco erotico» la stessa Teddy si era meravigliata della sua voce ferma e fredda «Non ti ho mai amato.»
Marcelo allora l’aveva guardata con un gran punto interrogativo sul volto, indietreggiando di qualche passo fino a quando non aveva incontrato il divano a sbarrargli la strada:
«Ma noi dobbiamo sposarci fra pochi giorni»
«Mi dispiace, ma non sposo chi non amo.»
E poi aveva atteso l’arrivo di Morena e Grimilde nel caffè sotto casa, sollevata.
 
Posò il libro sulla scrivania, dove si era appisolata per qualche minuto, e vi diede un’occhiata veloce: i temi che aveva assegnato come compito in classe ai suoi bambini di terza elementare erano ancora lì, di quindici solo un paio erano stati corretti e archiviati con un visto, il resto l’attendeva per passare insieme tutta la notte. Consultando l’ora sospirò, le ventidue erano passate solo da dieci minuti, ma prima di riprendere il lavoro le serviva carburante e una boccata d’aria. Uscì dalla sua stanza e si trascinò in cucina, dove prese ad armeggiare con la macchinetta per il caffè, sbadigliando rumorosamente:
«Cavolo Teddy! Ma che ti è successo?» la vocina allegra di Grimilde la sorprese a metà sbadiglio e sorrise dinnanzi all’espressione grave della ragazza bionda, il cui viso faceva capolino oltre la grossa spalliera del divano:
«Vuoi un caffè?» le chiese di rimando Teddy, provando a scacciare l’impulso di raccontarle il sogno che continuava a tormentarla. La biondina scattò in piedi e si stiracchio, avvicinandosi al tavolo dove Teddy aveva adagiato un vassoio con due tazzine fumanti. Quest’ultima non poté fare a meno di notare come la sua amica, in mutandine e canotta di Hello Kitty, priva di trucco sul viso, somigliasse più ad un’adolescente che non ad una quasi trentenne. Grimilde si sedette dinnanzi a lei, abbandonando il libro che stava leggendo sul tavolo, Teddy si sporse per leggerne il titolo “Cinquanta sfumature di Nero”, sorrise:
«Ancora con questo schifo?!»
«È l’ultimo della trilogia. Tu sapevi che esistono degli aggeggi sferici che se inseriti nel corpo della donna …» Teddy si coprì le orecchie e strizzò le palpebre, tra l’indice e il medio destro aveva una sigaretta
«Grimi per favore!» la ragazza bionda ridacchiò e bevve un po’ del suo caffè, sperando di riuscire a chiudere occhio nonostante la caffeina ingerita a quell’ora. Vide la fiamma dell’accendino avvicinarsi alla sigaretta e Teddy inspirare a fondo, per poi far uscire il fumo attraverso le labbra. Si sorrisero:
«Hai tutti i capelli in disordine» Teddy vi passò le dita per districarli, a volte si meravigliava di sentirli nuovamente lunghi, seguì quindi lo sguardo di Grimilde, attratta dall’albero di Natale, un abete finto che avevano scelto e comprato insieme poco meno di due anni fa, quando avevano deciso di vivere insieme. Gli scatoloni riesumati dalla soffitta, quella mattina stessa, erano ancora sigillati e su ogni lato avevano ciascuno una dicitura in stampatello NATALE – ALBERO; NATALE – CASA. Quello era il secondo Natale che avrebbero trascorso in quella casa, da sole, al massimo con qualche familiare, ma senza Morena.
Dopo aver mandato all’aria il matrimonio con Marcelo, il già fragile rapporto di Teddy con i genitori era andato peggiorando a vista d’occhio, per non parlare del fratello che viveva in Canada da quando aveva compiuto venti anni e che oramai sentiva solo di rado. I genitori di Grimilde, invece, erano divorziati da quando questa aveva circa quindici anni e se il padre era sempre in viaggio per lavoro, come se la figlia – la sua unica figlia – non sapesse che in verità aveva un’altra famiglia in Inghilterra, la madre non si era fatta problemi a dirle che oramai la sua vita era con il nuovo compagno e i due figli maschi che aveva avuto da quest’ultimo.
Teddy e Grimilde erano, dunque, l’una la famiglia dell’altra e Morena vi avrebbe sempre fatto parte, nonostante la distanza.
La cenere cadde silenziosa nel posacenere di pochi pesos che Grimilde aveva regalato a Teddy perché stanca di scopare la polvere delle sue sigarette che il vento talvolta portava dentro casa quando fumava sul terrazzino. Il balcone aveva le ante spalancate e una leggera brezza soffiava contro le tende chiuse, oltre le quali si potevano scorgere le luci della città. Dabbasso si udiva il vociare di giovani ragazzi e lo sghignazzare di giovani donne, il rombo dei motori delle auto, il graffiare di una motocicletta da cross a cui veniva dato gas, in lontananza la sirena di un’ambulanza. Teddy spense il mozzicone nel posacenere, schiacciandolo per bene con il polpastrello per evitare che il fumo si diffondesse nella casa e ne rimanesse impregnato l’odore, fece per dire a Grimilde che aveva ancora una pila intera di temi da leggere e correggere per l’indomani, ma quando ci provò le parole le morirono in gola: il campanello della porta tuonò.
Si scambiarono un’occhiata interdetta, la domanda inespressa era però palese sul viso di entrambe. Grimilde si alzò lentamente, sorreggendosi al tavolo e fissando la porta d’ingresso, quasi aspettandosi di vederla saltare all’aria da un momento all’altro:
«Aspetti visite?» chiese a Teddy
«Alle 10.30 di sera?» fu la risposta sarcastica della ragazza castana, il timore insinuato nella voce, poi il campanello suonò ancora, questa volta con maggiore insistenza e Teddy si mosse:
«Ehi, che fai?» Grimilde le andò dietro
«Apro.»
 
  
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