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Autore: nals    16/10/2014    1 recensioni
Lui aveva provato a raccontartelo, in fondo, stringendoti la spalla con le dita – uncini d'ossa nella carne. Un “son felice” a strabordare dagli occhi, proteso in avanti, sulla linea delle ciglia e poi giù. Pelle chiara delle guance; labbra.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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Lui aveva provato a raccontartelo, in fondo, stringendoti la spalla con le dita – uncini d'ossa nella carne. Un “son felice per te” a strabordare dagli occhi, proteso in avanti, sulla linea delle ciglia e poi giù. Pelle chiara delle guance; labbra.
Denti dritti.
Sorriso.
“Sorridi”
Che poi, pensandoci, avrebbe potuto essere un “fa male” qualsiasi, o un “ho fame”, “devo andare al cesso”.
Un “Ah?” infilato tra i molari e poi giù, a ritroso. Esofago, stomaco, intestino, buco del culo.
Buco del culo.
Chissà.
Forse ha ragione tuo padre, quando ti dà del bambino e “vedi quel che vuoi vedere tu. Due porcelli sugli occhi, c'hai. Sollevale quelle palpebre che a forza di volerti far strada tra le biciclette rischi che ti passi addosso un tram.”
Quanti 'fanculo gli hai sputato addosso, senza una goccia di saliva, al tuo papà.
(lingua, esofago, retto, buco del culo)
“Son felice,” pensavi. SonfeliceSonfeliceSonfelice.
Una serenità presunta, ecco cos'era – astratta chimera. Fosfene in piena notte. Un benessere potente, distruttivo, da costringerti alla deficienza più assoluta per quel paio d'ore a settimana.
Ché avevi le sue mani tra i capelli, un fianco dolorante, il respiro nel tuo respiro.
Di contro, il grigio, quello che t'ha ingoiato per davvero, ti costringeva a visioni premonitorie chiare e disastrose.
Ma le stringevi le dita e le stringevi le e le stringevi e le e...
Dio se eri felice (ma davvero? Eh?)
Di quella serenità rovinosa da farti scordare... no, non il nome. Il cibo. Tanto da bere te l'offriva lei.
Lui aveva provato a raccontartelo, in fondo.
Soffiandoti favole di Cassandra all'orecchio, senza una parola.
Sarà che preferivi le tue, di storie, e le sue mani, oh, le sue mani. Dita calde e riproporti il profilo delle coste.
Quanti 'fanculo vorresti sputarle addosso, senza sprecare una parola.
Vederla accartocciarsi mortificata ai tuoi piedi e farsi piccola piccola piccola.
L'affereresti tra l'indice e il pollice, fissando la sua insignificante e pietosa figura nella retina, e la ingoieresti - GNAM – in un decisivo colpo di glottide.
Esofago, stomaco, intestino, buco del culo. Buco del culo.
E se, e se ti contaminasse le viscere? E se crescesse molesta e fastidiosa come un tentacolo.
Di quelli senza senso tra le dita. Di quelli senza il senso d'una vita.
Pur di strapparla via t'ingoieresti pure le tue, di dita.
Ché lui aveva provato a raccontartelo, in fondo, dannazione. “Mi preoccupa questo tuo giganteggiarla, sai? E' come se fosse l'unica e sola. Non è un po' come idealizzare?”
Ma cosa, ma come, ma quando mai. Mai.
Idealizzare un cazzo.
Ché le stringevi le dita e le stringevi le e le stringevi e le e...
Il peggio è stato averlo sempre avuto ben chiaro in testa, ma aver contributo in tutti i modi possibili ad infangarne l'evidenza. Tu esistevi, un po'. Lei esisteva sempre.
Ed era tutto così tangibile, come le ragantele ridisegnate dalla brina al mattino presto.
E invece...
Invece.
Hai continuato a crederci ancora, ai mozziconi di sillabe conditi all'elio.
Di quelli che volano, volano, volano.
Tipo spaghi d'aquiloni sfilati dalla dita. E cos'è che rimane? Cos'è che rimane?
Manco il filo.

E adesso ingoia, ingoiali ancora, tutti quei 'fanculo. Buttali come si butta giù la roba, ficcati le dita in gola – o entrambe le mani – e spingi, spingi.
Esofago, stomaco, intestino, buco del culo. Buco del culo.
Sei talmente piccolo e insulso che se solo ti ricapitasse di guardarla in faccia gli piangeresti un fiume.
Ingoia. Ingoia.
Lingua, esofago, stomaco,retto, buco del culo.
Buco del culo.










Ottobre s'è preso le coperte tutto per sé, lasciandoti ad ibernare all'angolo. Ché non si sa mai come comportarsi, alla fine. E' facile per il cervello urlarti che, diosanto, che coglione che sei stato, ché era tutto talmente ovvio che il tuo negarne l'ovvietà, non ha fatto altro che dimostrarti quanto tu sia deficiente. EH? Cos'è che dici? Ci sei ricascato. Non raccontarti storie. E continua, continua a credere alle favole e alle parole, che son sempre solo parole. Non come quelle tue, che hai paura di cacciarle fuori, come se a lasciarsene sfuggire un paio di troppo, rischiassi di vederti strappar via persino le budella.
La stronza te le ha masticate le budella, mentre ti fregava l'aria dalla bocca con la lingua. Te le ha sfilate con le dita, le budella; quelle che non ha ingoiato son finite chissà dove, sull'asfalto bagnato mentre una super luna ti diceva “ciao, deficiente, ciao” fissandoti dallo specchietto retrovisore. Dannata luna, dannata luna del cazzo. Non poteva parlare più forte e costringerti a piantarti sul sedile e starci immobile e fermo, mani apposto, distanza di sicurezza. Respiro ben sigillato oltre l'arcata di denti ben digrignati.




Che poi i 'fanculo è così bello e facile scriverli, ma tirarli fuori a voce è un gran casino.
Ché la gola se li ingoia e finisce che rimangano a marcirti dentro e tu muoia un po' per volta alimentando con pensieri - timidi bastardi - lo scuro che ha preso ad ammonticchiarsi in pancia.
   
 
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