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Autore: Beatrix Bonnie    17/10/2014    1 recensioni
-Seguito de L'orologio d'oro-
I tempi spensierati sono finiti: con il ritorno di Colui-che-non-deve-essere-nominato, Mairead, Edmund e Laughlin, insieme ai loro amici del FIE, dovranno affrontare il crescente clima di razzismo dell'Irlanda magica, tra ansie per gli esami finali, nuovi caos a scuola e un Presidente della Magia che conquista sempre più potere. Per Edmund non sarà un'impresa facile, soprattutto visto che il ragazzo sarà anche impegnato nella ricerca di un leggendario manufatto magico di grande potenza, che potrà salvarlo dalla maledizione impostagli da Sigmund McFarren. Ma dove lo porterà la sua ricerca? E questo oggetto esiste davvero o sono solo farneticazioni di un vecchio?
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Trinity College per Giovani Maghi e Streghe'
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CAPITOLO 9
Un salto indietro nel tempo II
Il burattinaio e la torre






Il castello era cupo e silenzioso. Era stato costruito dal primo Conte all'epoca della risistemazione delle nobili schiatte, per cui la sua principale funzione era quella di rappresentare la grandezza della famiglia. Una funzione che assolveva a dovere: il castello imponente, di pietra grigia e scura, posto sulla sommità di una collina, era un chiaro segno del potere di cui godevano i Conti. Anche gli interni rispondevano alla medesima logica: stanze e corridoi, austeri e cupi, mettevano in soggezione qualsiasi ospite, gradito o meno che fosse. Perfino gli occupanti dei pochi ritratti e arazzi appesi alle pareti partecipavano del medesimo clima, mantenendo un composto silenzio per buona parte del tempo.
Meccorin Deamundi, terzo Conte di Con Cetchthach, se ne stava seduto a capotavola ad osservare un enorme foglio di pergamena su cui era rappresentato l'albero genealogico della sua famiglia. Meditava in silenzio, contemplando i nomi che vi erano scritti. Anche lui si era assuefatto al clima della sua dimora, assumendo un comportamento serio e taciturno. In un certo senso, aveva modificato la sua indole in base al luogo in cui era stato costretto a vivere. Aveva fatto tutto ciò che era necessario per assolvere al suo compito di guida della comunità magica irlandese: aveva assunto un comportamento austero, aveva recato lustro alla sua famiglia raggiungendo brillanti risultati nello studio, aveva sposato la sua promessa e aveva avuto con lei una figlia. Aveva portato a termine il suo dovere, secondo il desiderio di suo padre.
Ma ora era arrivato il momento di agire secondo i suoi piani.
«Padre?» Una vocina sottile lo strappò dai suoi pensieri. La piccola Abaigeal entrò in punta di piedi nello studio.
Meccorin cercò di fare uno sguardo duro, anche se gli riusciva sempre difficile con la sua piccolina. «Abaigeal, che cosa ti ho insegnato?»
La bambina abbassò gli occhi a terra. «Che devo bussare prima di entrare» rispose con un filo di voce.
«Esatto.» Meccorin le sollevò il mento con un dito. «Per questo ora esci e bussi per chiedere permesso.»
La piccola trotterellò indietro, per eseguire l'ordine del padre. Bussò alla porta ed attese che l'uomo la invitasse ad entrare.
«Molto bene, bambina mia» si complimentò Meccorin. Sua figlia era un piccolo fiore: grandi occhioni blu e teneri boccoli castani che le incorniciavano il visino paffuto. Ma la bellezza non era la sua unica virtù, perché era anche una damina a modo, con una mente vispa e un grande cuore. Sarebbe stata perfetta per portare lustro alla casa Deamundi, ma era una femmina e non avrebbe mai potuto ereditare il titolo di Contessa. Meccorin aveva bisogno di un erede maschio.
Sua moglie era morta di vaiolo di drago due anni prima. Gli serviva una nuova moglie, una madre per Abaigeal e una donna fertile capace di dargli degli eredi sani e forti. Se suo padre Cassian fosse stato ancora vivo, certamente gli avrebbe consigliato una nobildonna di buona famiglia, grazie alla quale rinvigorire vecchie alleanze.
Ma, quella volta, Meccorin aveva in mente un altro piano.
«Padre?» pigolò piano Abaigeal, per paura di indispettirlo nuovamente.
«Dimmi, figliola.» Meccorin sapeva di essere troppo tenero con la bambina, ma non gli riusciva di essere freddo perché la amava come solo un genitore può amare.
Abaigeal gli mostrò un foglio di pergamena su cui aveva disegnato quella che sembrava una famiglia: un mago e una strega con una bimba per mano. «È per voi.»
Meccorin non riuscì a evitare di sorridere. «Questa sei tu?» le chiese, indicando la bambina.
Abaigeal annuì. «E questo siete voi, padre» spiegò, posando il dito paffuto sulla figura del mago.
Meccorin spostò la sua attenzione sulla strega dai capelli rossi che la figlia aveva disegnato. I capelli della sua defunta moglie erano biondi. «E questa chi è, Abaigeal?»
«È la signorina Elizabeth» rispose Abaigeal, deliziata. «È stata tanto carina con me, l'ultima volta che è venuta qui: mi ha regalato un pupazzo a forma di drago.»
Meccorin sentì un lieve tepore invadergli il petto. La sua bambina era un piccolo angelo. «Abaigeal» la chiamò piano, quasi commosso. «Ti piacerebbe se la signorina Elizabeth diventasse la tua matrigna?»
La bambina sorrise estasiata. «La volete sposare, padre?» Probabilmente si immaginava un matrimonio come quello delle favole.
Meccorin deglutì. «Sì.»
«Ne sarei molto contenta» rispose Abaigeal, sognante.
Meccorin trattenne a stento un singhiozzo di commozione. «Bene, bambina mia.» Sospirò. «Ora torna dalla tua governante.»
Abaigeal fece un buffo inchino come commiato, poi si affrettò a raggiungere la sua tata.
Meccorin si concesse il lusso di chiudere gli occhi per qualche minuto, il capo appoggiato allo schienale della sedia e le braccia abbandonate sui braccioli. Non avrebbe mai immaginato che i suoi piani si potessero attuare in un modo così limpido, senza intoppi di sorta. Persino la piccola Abaigeal approvava la sua scelta.
Finalmente avrebbe potuto sposare la donna che amava. L'aveva amata da sempre, da quando l'aveva ammirata entrare nel cerchio magico del Trinity per farsi destinare alla sua stessa casa, quella dei Nagard. I suoi capelli rosso fuoco, quell'energia travolgente, i sorrisi ammiccanti e la sua risata cristallina. Non c'era niente di convenzionale in Elizabeth O'Brian, niente che un uomo rispettabile del suo calibro avrebbe dovuto apprezzare. Eppure lui l'amava. E sapeva anche che non sarebbe mai potuta essere sua, almeno non fin tanto che ci fosse stata un'ampia differenza sociale tra i due. Lui era nobile e per di più patriarca di una delle più antiche famiglie irlandesi; lei era figlia di un mercante arricchito. Per quanto suo padre fosse ormai morto e lui fosse rimasto vedovo abbastanza a lungo, non poteva permettersi di farsi parlare alle spalle dall'intera comunità magica d'Irlanda perché voleva sposare una donna del popolo. Per questo motivo aveva ideato un piano. Un piano che gli consentisse allo stesso tempo di sbarazzarsi dei suoi due principali nemici e di liberare un posto tra le nobili schiatte per quella di Elizabeth.
Sarebbe filato tutto liscio. Nessuno avrebbe mai osato sussurrare il nome dei Deamundi nel caos diplomatico che stava per scatenare. Lui era come un invisibile burattinaio che muoveva i fili dei suoi pupazzi. Ognuno avrebbe giocato il suo ruolo, consapevole o meno di essere parte di un piano più grande. Mentre a lui non restava altro che osservare.
Un pigolio lo riscosse dai suoi pensieri. «È arrivato il signor Howt, signore» pigolò il suo minuscolo elfo domestico.
«Fallo entrare» ordinò Meccorin, alzandosi in piedi per ricevere il suo ospite.
L'elfo domestico sparì in una profusione di inchini, per tornare poco dopo seguito da un uomo biondo di mezza età. Hoser Howt indossava un completo da mago blu notte, che nel complesso gli dava un'aria dignitosa, ma la sua faccia banale e acquosa e i capelli che ricadevano flosci sulle spanne non ne facevano un uomo carismatico. Tanto più se si ritrovava a stringere la mano a Meccorin Deamundi, terzo Conte di Con Cethchtach, le cui spalle larghe erano ricoperte da una sontuosa veste con le maniche ampie e il cui volto esprimeva sicurezza di sé e autocontrollo.
«Signor Conte.» Howt si esibì in un inchino impacciato.
«Hoser Howt di Tir Eoghain.» rispose al saluto Meccorin, con un cenno del capo. «Sediamoci» lo invitò, indicando il tavolo, su cui fece apparire due bicchieri e una bottiglia di Whisky Incendiario Irlandese.
Howt sembrava a disagio. Si sedette sulla punta della sedia e cominciò a guardarsi in giro con circospezione.
«Avete valutato la mia proposta?» gli domandò Meccorin, versando da bere per entrambi.
Howt si stropicciò le mani. «Signor Conte...» cominciò, con evidente imbarazzo. «Siete sicuro che sia una buona idea?»
Meccorin sorrise. «Capisco le vostre perplessità, messer Howt. Ma sarebbe un atto ben più grave non cercare di fermare con ogni mezzo i nostri avversari.»
L'altro lo guardò finalmente negli occhi, in un moto di coraggio. «Non sono miei avversari» ebbe l'ardire di rispondere.
Meccorin bevve un sorso di Whisky. «Non personalmente, forse» ammise serio. «Ma sono nemici dell'Irlanda.» Si sporse verso l'altro, come per confidare un temibile segreto. «Secondo i miei informatori, O'Donnel e O'Neill possiedono una fonte di potere potentissima e hanno intenzione di scatenarla contro chiunque si opponga loro.» Meccorin non aveva mentito; non del tutto, almeno. Si vociferava che i due Conti nascondessero qualcosa, un potere magico straordinario, e Meccorin temeva che questo ulteriore punto di forza aumentasse la loro ascendenza sulla comunità magica. Non poteva permetterlo. I Deamundi dovevano essere la più influente famiglia d'Irlanda, senza rivali. Eliminare gli O'Donnel e gli O'Neill faceva parte del suo grande piano per diventare l'esponente di spicco della nobiltà e per poter sposare la sua Elizabeth. Con un solo colpo avrebbe raggiunto due obiettivi. E senza nemmeno sporcarsi le mani.
«Conte Deamundi...» borbottò Howt, ancora incerto. «Non esiste un altro modo...?»
«Dovete fidarvi di me, messer Howt.» Meccorin lo scrutò con i suoi profondi occhi blu. «È l'unico modo. L'unico modo per salvare l'Irlanda.»
Howt abbassò lo sguardo e diede un debole segno d'assenso con il capo. «Farò come dite» concesse alla fine.
Meccorin si rilassò. Il sorriso che gli increspò gli angoli della bocca fu il primo sincero che rivolse al suo interlocutore. «Non temete, messer Howt» aggiunse, allungando verso di lui il bicchiere di Whisky che non aveva nemmeno toccato. «Avrete la vostra ricompensa, per aver scelto la strada giusta. Dopotutto, con gli O'Neill fuori gioco, siete voi gli ultimi rimasti della schiatta di Tir Eoghain.» Meccorin fece una pausa strategica, poi concluse: «Conte Howt.»
La naturale ambizione dell'uomo gli fece sollevare gli occhi da terra quando si sentì chiamare con un titolo che non gli spettava. Non ancora, almeno. Fin tanto che ci fossero stati di mezzo gli O'Neill, il titolo di Conte era ereditato dai figli maschi primogeniti di quella famiglia; ma nel momento in cui la stirpe degli O'Neill fosse stata messa fuori gioco, il diritto di essere chiamati Conti passava naturalmente agli Howt.
Questo Hoser Howt lo sapeva bene. E lo sapeva bene anche Meccorin che aveva deciso di far leva su quel fattore, per convincere ulteriormente l'uomo a compiere fino in fondo il destino che aveva scelto per lui.
Howt chinò leggermente il capo in segno di commiato. «Non dovete temere, signor Conte» lo rassicurò prima di uscire dalla stanza. «La mia lealtà va all'Irlanda... e a voi.»
Meccorin sorrise. «Non avevo dubbi, messer Howt.» Ritornare all'uso del titolo che gli si confaceva era un modo sottile per ricordargli che quello di Conte avrebbe dovuto guadagnarselo. E Meccorin era abbastanza convinto che fosse più che altro quello il vero muovente che aveva spinto Howt ad aderire al piano per eliminare O'Donnel e O'Neill. Comunque fosse, era bene che compisse il suo dovere.
Prima di essere a sua volta eliminato.
La ritrovata solitudine di Meccorin non durò a lungo. Dopo pochi minuti che Howt se n'era andato, il suo elfo domestico condusse nella stanza, attraverso un'entrata secondaria, una donna altera dai bellissimi capelli rossi.
«Conte Meccorin.» Elizabeth si inchinò in una reverenza educata, ma le sue gote arrossate e il tono trepidante nascondevano una maggiore complicità di quanta non ne volesse ammettere quel gesto formale.
L'uomo le si avvicinò, le prese entrambe le mani e se le portò alle labbra, per un baciamano leggero e insieme appassionato. «Mia dolce Elizabeth» la salutò con voce calda. «Tutto sta procedendo secondo i piani.»
Gli occhi verdi di Elizabeth brillarono. «Anche con Howt?» domandò accorata.
«È stato qui poco prima di voi» confessò Meccorin. «E ha accettato di seguire il mio suggerimento.»
Elizabeth si lasciò sfuggire un sospiro, mentre gli occhi le si inumidirono. Il sorriso timido e speranzoso che le si disegnò sulle labbra era così stonato sul suo viso solitamente sprezzante, eppure la faceva apparire bella come una dea della mitologia norrena. «Signor Conte, siete un uomo meraviglioso» sospirò.
Meccorin le baciò nuovamente le mani, senza distogliere i suoi occhi blu da quelli verdi di lei. «Sono solo un uomo che sa come ottenere quello che vuole.»
Elizabeth si beò di quello sguardo. Ce l'aveva fatta, ormai era suo. Sapeva che erano destinati uno all'altra, l'aveva saputo fin dal primo momento in cui l'aveva ammirato, il primo giorno di scuola al Trinity, nella sua divisa rossa dei Nagard, con la coccarda da dictator e quello sguardo cupo riservato alle nuove reclute della casa. Le sue compagne l'avevano presa in giro: le dicevano che non era altro che una sciocca infatuazione di una ragazzina per il bel nobilotto tenebroso di turno. Ma quelle non potevano capire. Elizabeth si era innamorata del conte Deamundi, non come una dodicenne alla sua prima cotta, ma come un'anima che riconosce la sua simile e capisce di voler passare tutta l'eternità insieme. Solo tra le sue braccia forti sarebbe stata felice e al sicuro, solo guardando attraverso i suoi occhi blu avrebbe potuto scorgervi il loro futuro, solo con la mano stretta nella sua sarebbe andata avanti nel cammino. Erano destinati a stare insieme.
Così però non la pensava il resto della società magica. Rory O'Donnel, per esempio, suo coetaneo al Trinity, che aveva sempre schernito i suoi vani tentativi di essere all'altezza del Conte Deamundi. Per O'Donnel lei non era altro che una vipera, una languida arrivista che, in virtù del suo aspetto grazioso e degli abiti costosi, pensava di poter attrarre nella sua rete chiunque potesse esserle utile nella sua scalata sociale. Anche suo padre Alvar le aveva pazientemente spiegato che in nessun caso avrebbe potuto concedere la sua mano al figlio di un Conte, mentre Cassian Deamundi aveva costretto Meccorin a sposare una donna nobile. Ma Elizabeth non aveva intenzione di cedere, soprattutto non ora che lui era rimasto vedovo; l'amore che li legava era assoluto, totale e non ammetteva ripensamenti. Elizabeth aveva capito che se lui non poteva abbassarsi al rango della plebe, si sarebbe innalzata lei a quello della nobiltà. Dopotutto, suo padre Alvar era diventato ricco più di molte famiglie della nobiltà stessa e la loro schiatta era pura almeno quanto le otto aristocratiche. Era tempo che il Nobile Consiglio ammettesse la purezza della schiatta di Mael Duib. Se le schiatte dovevano essere necessariamente otto, bene, significava che era tempo di eliminare qualcuno per permettere alla sua di essere elevata al rango dell'aristocrazia.
Lei era come il simbolo che si era fatta disegnare sullo stemma degli O'Brian. Lei era una torre, forte, determinata e resistente a qualsiasi colpo. Lei era la torre del gioco degli scacchi, non uno dei pezzi fondamentali, non quello che si cerca di salvare fino alla fine, ma il pezzo con la forza maggiore e il cui potenziale è spesso sottovalutato. Anche i suoi avversari avevano fatto l'errore di sottovalutarla.
Girava voce che le famiglie O'Donnel e O'Neill fossero in accordo da secoli perché condividevano un segreto terribile, come se fossero i custodi di un qualche potere ancestrale. A Elizabeth non importava il motivo per cui le due stirpi fossero sempre state vicine e associate tra loro: se anche fosse stato vero che custodivano un potere nascosto, pure lei aveva qualche dote di cui gli altri non si erano mai accorti. Era scaltra e soprattutto determinata a vincere. Avrebbe buttato fuori dalla nobiltà Rory O'Donnel, con quel suo faccino perbene da purosangue, così forse avrebbe smesso di guardarla dall'alto in basso. E visto che la sua famiglia era legata da qualche patto segreto a quella degli O'Neill, la stessa sorte sarebbe toccata anche a quel vecchio rompiballe di Hugh O'Neill. Meccorin aveva insistito per metterli fuori gioco entrambi. Elizabeth sospettava che quella scelta andasse oltre la possibilità di liberare una schiatta nobile per permettere l'ascesa sociale agli O'Brian: probabilmente aveva colto al volo l'opportunità di sbarazzarsi di due avversari con colpo solo. Dopotutto, era innegabile che l'antichità e il prestigio delle famiglie O'Donnel e O'Neill frenasse parecchio l'egemonia cui i Deamundi aspiravano da tempo.
A Elizabeth non importava. Per lei era sufficiente dimostrare il suo valore, elevare la sua famiglia al rango della nobiltà e soprattutto avere la possibilità di sposare Meccorin.
Quella sera, quando tornò a casa, trovò sua madre affaccendata in cucina. Non un elfo domestico si era presentato alla porta di casa O'Brian, per quanto la famiglia fosse diventata mediamente più ricca di qualsiasi altra stirpe nobile. Loro erano solo dei plebei.
Per poco ancora.
«Madre» salutò Elizabeth, entrando in cucina. «Come sta mio padre?»
La donna le lanciò uno sguardo compassionevole. «Quest'oggi non è riuscito ad alzarsi dal letto» confessò a malincuore.
La frase non era ancora finita, che già Elizabeth si era catapultata fuori dalla cucina. Salì le scale che portavano al piano di sopra due gradini alla volta, l'ampia gonna sollevata più di quanto una nobildonna per bene potesse permettersi. La stanza da letto di suo padre era buia e maleodorante di pozioni curative. Elizabeth si avvicinò al capezzale per accarezzargli una guancia, ma bastò quel semplice gesto a svegliare il vecchio mago.
I suoi occhi erano offuscati, il viso pallido e stravolto, eppure riuscì ad accennare un sorriso quando riconobbe la figlia. «Bambina mia» sussurrò, tendendo la mano verso di lei.
Elizabeth afferrò la mano del padre tra le sue. «Non sono più una bambina, ormai.» Sospirò, nel vedere come la malattia avesse consumato quell'uomo un tempo energico e pieno di vita.
Suo padre chiuse gli occhi, con un sorriso. «Sei una donna, lo so.»
«Una donna che sta per sposarsi» rivelò Elizabeth. Il medico aveva detto che Alvar O'Brian non sarebbe vissuto ancora a lungo, per cui era giunto il momento di rivelargli qualche dettaglio del piano. Almeno se ne sarebbe andato con la consapevolezza che ai suoi figli era riservato un futuro grandioso.
«Con chi ti sposi?» si informò il padre, come se fosse consapevole di non aver concesso la sua mano a nessun pretendente.
Elizabeth si sedette sul bordo del letto. «Con l'uomo che amo da sempre» rispose. «Il Conte Deamundi.»
Alvar si mosse tra le coperte, in difficoltà, come se cercasse di mettersi a sedere ma fosse troppo debole per quell'operazione. «Elizabeth...» mormorò alla fine, in un soffio di fiato.
«Non dovete temere, padre. So cosa stavate per dirmi: che non è alla mia altezza.» Il volto di Elizabeth si contrasse in una smorfia. «Non per molto ancora.» Una vena di preoccupazione attraversò gli occhi del vecchio malato.
La figlia strinse ancora più forte la mano di lui tra le sue. «Non dovete temere» ripeté. «Nessuno più ci guarderà dall'alto in basso, nessuno più ci dirà che qualcosa non è alla nostra altezza, che siamo solo gente di popolo arricchita. Presto la nostra schiatta rientrerà fra quelle nobili e gli O'Brian saranno chiamati Conti di Mael Duib.» La voce di Elizabeth si fece più forte, determinata e frenetica per l'emozione. «Vostra moglie diventerà una nobildonna riverita e onorata da tutti, io sarò una dama d'alto rango e potrò sposare il Conte Deamundi e dargli un erede in cui scorrerà il sangue degli O'Brian, il vostro sangue.»
Alvar cominciò a piangere, grosse lacrime silenziose che gli attraversavano il volto ormai pallido e incavato. Da qualche parte, era certo che la vita lo stesse abbandonando. Con la poca forza che gli restava in corpo, strinse la mano della figlia.
«Padre.» Anche il viso di Elizabeth venne attraversato da calde lacrime. «Padre, gli O'Brian avranno un nome rispettabile, saranno guardati con rispetto nella comunità magica.»
Alvar fu colpito da un fremito, una fitta di dolore che lo costrinse a contrarre il viso in una smorfia e che gli scosse tutto il corpo.
«Padre...» Ormai Elizabeth piangeva come una bambina. «Vostro figlio Stephen si sposerà non appena avrà finito il Trinity e darà avvio ad una stirpe fiera e orgogliosa. I vostri discendenti erediteranno da voi la determinazione, la forza e la fierezza. E avranno tutti i vostri occhi.»
Alvar O'Brian allungò la mano sinistra verso il volto della figlia per accarezzarlo un'ultima volta, ma un ultimo spasimo lo colse e il braccio ricadde inerte sul letto. La vita lo aveva abbandonato.
Elizabeth si portò alle labbra la mano che ancora stringeva tra le sue, per un bacio umido di lacrime. «Tutti gli O'Brian avranno i tuoi occhi» promise al padre ormai sordo nella morte. «Tutti gli O'Brian avranno tuoi occhi verdi.»









Buongiorno a voi!
Come promesso, questo capitolo è stato un po' dedicato ai "cattivi" della storia... ma scommetto che ora vi sembrano un po' meno cattivi. Il personaggio di Meccorin è stato il più sofferto: era nato come perfido calcolatore, un po' golpe un po' lione alla maniera Machiavelli, ma mi sono detta che questa caratterizzazione mi ricordava già qualcuno... tipo McPride? Già. Così ho pensat di farne un nobile ancorato ai suoi ideali di purezza... ma così veniva una copia sbiadita dell'attuale conte Deamundi. L'idea per inserire un elemento umanizzante come il suo amore per Elizabeth mi è venuta all'improvviso. Così sarebbe diventato un cattivo più originale: tutto preso dalle sue macchinazioni per eliminare gli avversari, ma mosso non solo dall'ambizione bensì anche dall'amore. Spero vi sia piaciuto!
Quanto a Elizabeth, è un po' una vipera, come crede Rory O'Donnel, ma anche lei ha i suoi perché: borghesia arricchita che aspira alla nobiltà, certo, ma anche l'amore che la lega a Meccorin. La morte del padre mi è servita come tocco finale per rompere qualsiasi indugio nell'attuazione del piano: in un certo senso, ora Elizabeth vuole anche rendere onore alla memoria del padre. n.b. ovviamente sarà Stephen O'Brian, fratello di Elizabeth, il capostipite di una stirpe di maghi dagli occhi verdi! I cui discendenti, immagino, rendano piuttosto fieri gli antenati! ;)
Per questa volta, solo un paio di immagini:
QUI il castello dei Deamundi.
QUI l'immagine del capitolo, ovvero Meccorin Deamundi, sua figlia Abaigeal e ovviamente Elizabeth, in tutto il loro splendore Seicentesco!

Del prossimo capitolo ho scritto circa mezza pagina, quindi in linea di massima aggiornerò fra 3 settimane, venerdì 7 novembre.
Alla prossima,
Beatrix B.

   
 
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