Film > Frozen - Il Regno di Ghiaccio
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Autore: Eriok    18/10/2014    2 recensioni
Dopo un'anno circa dalla famosa "estate ghiacciata", Elsa ed Anna dovranno affrontare problemi molto più "scottanti" dell'inverno pungente di quest'anno.
Elsa, regina di Arendelle, incontrerà i nuovi emissari del neonato regno "Le Terre del Fuoco".
Con una sovrana dai poteri molto - troppo - simili a Elsa. Facendole nascere dubbi su di sé e sul mondo che l'ha circondata fino a quel giorno.
Genere: Angst, Avventura, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri, FemSlash | Personaggi: Anna, Elsa, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 3.

 

Il sole era sorto in modo pacato quel giorno, e la brina ancora disturbava la superficie dell’erba nata nel cortile interno alla reggia di Arendelle. La regina si era svegliata stanca, memore della nottata passata a sognare strane cose di cui non ricordava la trama. In veste da camera, si stava dirigendo con calma alle cucine per una leggera colazione quando, passando davanti alle vetrate del corridoio, vide con sorpresa qualcuno allenarsi con foga al piano terra, in giardino.

Elyce, dopo aver dormito qualche ora in modo pesante, si stava allenando con foga con una spada lunga e bianca in mano, lanciando fendenti mortali ad un nemico inesistente. Elsa sorrise, perdendosi a guardare i suoi movimenti fluidi, studiati e composti. Veloce e scattante, e talmente presa nel combattimento da non notare il fatto di essere osservata.

Si fermò per tergersi il sudore e si girò a guardare la regina, sentendo la sua presenza alle spalle. Era in veste da camera, una lunga vestaglia azzurra, impreziosita con ricami.

«Buongiorno.» disse, il volto leggermente dorato di rosso.

«Buongiorno.» rispose Elyce, con il fiatone. Rifoderò la spada, e cercò di rendersi presentabile. L’elegante treccia della regina contrastava con i capelli ribelli e disordinati della bruna, non ancora toccati da quando era scesa dal letto.

«È una bella giornata, no?» la regina guardò il cielo, libero dalle nuvole.

«Già.» mormorò Elyce, guardandola. Era incantevole, e bellissima, anche di prima mattina. «Almeno, per me è bellissima.» ribadì, sogghignando. Lo sguardo della regina si colorò di curiosità.

«E come mai, di grazia?» chiese, notando l’atteggiamento con cui l’aveva detto.

La mora si avvicinò.

«Perché siete voi a renderla tale.».

Elsa rimase muta, imbarazzata di nuovo dalle parole fuorvianti e allo stesso tempo maliziose della donna.

«Avrei una domanda da farle, Elyce, se non le dispiace.» la donna non capì quel suo atteggiamento chiuso, e con un cenno le chiese di continuare. «È consuetudine, dalle vostre parti, parlare ad una donna in questo modo...?» aveva soppesato le parole, ricercandole, per paura di offenderla, o peggio. Ma stranamente Elyce, invece di offendersi, iniziò a ridere.

«Dalle mie parti, come dite voi, Elsa, non è consuetudine che una donna si comporti e si vesta da uomo, che porti un’arma, che sappia usarla e che parli con le donne in modo malizioso come faccio io.» disse, sogghignando. Elsa era ancora più confusa. E le si leggeva in volto.

«E allora come mai...?».

Elyce la interruppe fermando il suo parlare con un dito appoggiato alle sue labbra, vicinissima al suo volto.

Le cinse una mano intorno alla vita, portandola aderente al suo e Elsa, presa alla sprovvista, non la fermò nel suo agire.

«Perché, Elsa...» le parlò, accarezzandole il volto. «...io posso.». e sorrise, ridendo.

Elsa si staccò, contrariata. Si aspettava una risposta diversa da quella.

Ma guardarla ridere, mentre cercava di scappare da una palla di neve improvvisata le cancellò il fastidio prima provocato. Dopotutto era vero.

Lei era o non era la regnante della Terra del Fuoco?

Si avviarono verso la cucina ridendo, mentre dal lato della montagna un uomo incappucciato con in mano un binocolo aveva osservato la scena per intero.

Una donna bionda si avvicinò, sensuale ed elegante. I capelli ricci si muovevano fluenti e liberi sulle spalle, trattenuti da una coda. Gli occhi, verdi, trasmettevano energia e leggeri brividi a chi li fissava.

«Allora, che si fa? Io mi sto annoiando.» disse seccata all’uomo appostato, più anziano della giovane donna che aveva parlato. Gli accarezzò una spalla, dolcemente.

«Non ti preoccupare, tesoro mio. Il momento propizio si sta avvicinando.» disse, e baciò con foga la giovane bionda. «Dobbiamo solo aspettare un altro po’, promesso.» negli occhi della ragazza si poteva leggere il desiderio, e il bisogno.

Ma negli occhi di lui, neri come la pece, si poteva leggere un solo sentimento. La vendetta.

 

 

 

Tre mesi fa – Terre del Fuoco

 

«So di non essere perfetta, Elyce, ma per favore credimi! È stato solo un equivoco!» la donna parlava alla figura di fronte a lei, era bionda, con una coda elegante che faceva scivolare i capelli ricci sulle spalle in modo sinuoso, le vesti in disordine, colpevole la troppa fretta nel metterli. Il collo mostrava evidenti segni di succhiotti, e di morsi.

Ad ogni sfuggevole sguardo rivolto a lei scivolava dagli occhi – così verdi, emanavano una scossa di vita che adorava sentire sulla pelle – alla palese dimostrazione del suo tradimento. Quei morsi, qui baci, quelle labbra rosse che non erano più suoi.

«Un equivoco.» disse, la voce fredda come non lo era mai stata. Non era mai stata così glaciale, lei che il fuoco ce l’aveva nell’anima.

«Sì! Ti prego, non mi lasciare!» piagnucolò la donna, prendendole il braccio. Lo scatto di Elyce la sorprese, si videro divampare scintille dallo scatto. Era la scossa che aveva acceso il suo orgoglio ferito.

«Non mi toccare.» scandì ogni parola con forza e autorevolezza. Ora i suoi occhi vibravano di fuoco nero, più nero della pece, e di odio. Rabbia, invasione della sua anima fino alla più piccola scintilla di essenza.

Lo poteva sentire, divamparsi in lei, la sensazione del tradimento, dell’onore e dell’orgoglio ferito.

Anzi no, del cuore spezzato.

«Tu mi hai tradito!» urlò, le lacrime scivolavano dal suo viso con prepotenza e così calde, scendendo sul suo viso distrutto dal dolore. Soffriva, come raramente le succedeva, e ancor di più mostrava la sua debolezza più grande alla persona che prima credeva l’amore della sua vita.

«Elektra, tu mi hai tradito con MIO FRATELLO!» sbraitò, le fiamme insorsero dalle sue braccia, l’odore di bruciato si poteva sentir vorticare nell’aria, l’odore di zolfo bruciava nei polmoni come se fossero nel centro più rovente di uno dei vulcani che circondavano le loro terre. Gli occhi dal castano si evolsero in cerchi irradiati di fuoco. Sembrava un mostro di indicibile paura e forza proveniente direttamente dall’inferno.

«Io ti ho dato tutto, ed è così che mi ripaghi?!» le fiammate si alzavano dal suo corpo, come se l’animo che ora irradiava la sua anima – la rabbia e il furore del dolore – uscisse letteralmente da ogni poro della sua pelle.

I capelli iniziarono a muoversi di natura propria, l’anidride carbonica stava letteralmente togliendo l’aria dai polmoni di Elektra. Un bruciore intenso la colpì alla spalla, e si accasciò a terra, stringendo l’arto ferito. Un odore di carne bruciata vibrava nell’aria, come accusa. Come punizione. Anche se non era solo la sua, di pelle ferita. E la mano che l’aveva ferita era di lei, che ora la guardava con occhi di fuoco.

Elyce stava letteralmente divampando, e la pelle si scioglieva ed evaporava, di fronte agli occhi increduli di Elektra. Il dolore era fulminante nel suo corpo, ma non come il suo animo.

«Se tu fossi stata più presente tutto questo non sarebbe successo.» rispose, fredda e fulminea. Le mani iniziarono a stridere, si sentiva nell’aria una tensione più potente del resto. Elyce, avvolta nelle fiamme, da rosse diventarono blu, e la voce cavernosa e gutturale, la pelle rossa e a tratti nera, mostravano i muscoli scattanti bruciati sotto la pelle ormai inesistente, i vestiti che lentamente si logoravano.

«Non darmi colpe che non ho! Tu mi hai tradito, non io!» e con il braccio indicò con forza la porta, che come toccata da una forte fonte di calore si aprì di scatto, come implodendo su se stessa.

«Vattene! E non farti più vedere!» sentenziò, e la ragazza si rizzò su in piedi, come presa da una scossa, si avvicinò talmente tanto da rischiare di essere bruciata dalle fiamme blu.

«Non dirmi cosa devo fare! Io me ne vado perché ti lascio!» e si sentì come il rombo di un tuono, nella stanza, pochi istanti e un lampo blu aveva scaraventato Elyce, completamente spenta della sua furia contro il muro, facendo cadere suppellettili vari e quadri.

«Tu sei un mostro, e io non mi farò rinchiudere in un castello fatto di mura di fuoco solo perché tu hai paura del mondo esterno!» sbraitò la donna, alle lacrime. La spalla urlava di dolore, ma piangeva di più la sua anima. E le lacrime che scendevano non si contavano più ormai. Il corpo vibrava, come presa da una scossa continua di dolore. Poteva sentire l’elettricità scorrerle nelle vene, a malincuore. Odiava quel suo aspetto fulmineo e immediato. E soprattutto, quel suo dannato potere.

Elyce, come niente, si tirò su, ferita nel corpo così come nell’anima.

«Se io sono un mostro, Elektra...» disse, guardandola mentre la pelle tirava su tutto il suo corpo. L’odore di bruciato impregnava la stanza così come la rabbia nella sua anima. Si sentiva tremare il cuore, e sentiva che non poteva resistere a molto, ma doveva scagliare quell’ultima lancia, e avrebbe ferito lì, dove non basta qualche benda e unguento a curare il male: il cuore. «Tu, che cosa sei?».

Sentì come un vetro spezzarsi, rompersi in mille pezzi e scagliarsi comprimendosi nell’aria eterea della sua anima, sentì il quadro – che traeva loro due, insieme, abbracciate e felicemente innamorate – cadere sul suolo del suo cuore, spezzarsi e spargere scaglie di dolore e lacrime.

Elyce sentì l’effetto che aveva provocato e le aveva gelato il cuore. E così come erano nate, le fiamme che ricoprivano il suo corpo svanirono, lasciandola lì, ferita e dolorante.

Si alzò in piedi, la pelle tirava e faceva male, ma così come era andata a fuoco, lei si erse come una fenice che rinasce dalle ceneri. E dal dolore.

«Vattene via, Elektra. E non tornare mai più.» la pelle, che lentamente tirava, si ricostruiva creando un rumore frivolo di pelle che lentamente scivola su qualcosa di rovente.

Elektra scattò, e fuggì, piangendo.

Quelle poche vesti, e quei capelli disordinati e ancora memori dei momenti di passione sparirono dietro lo stipite della porta bruciacchiato, i piedi nudi che rimbombavano per il corridoio di pietra scura.

Elyce si girò, guardandosi le braccia.

«Tsk.» mormorò stizzita, odiando quel suo scoppio. Si cambiò velocemente, rivestendosi alla meno peggio.

Guardò i danni intorno a lei, e fu come se fosse tornata su quel campo di battaglia.

 

Il vessillo che cade, e il dolore che si irradia. Sentì scoppiare in lei qualcosa come una bolla di odio e rabbia.

Non ricordava molto altro, a parte il dolore e l’odore di carne bruciata. Quando rinvenne suo fratello la guardava con in mano uno scudo fatto di metallo rozzo ricoperto di nero, fumante. Intorno a lei solo terra bruciata. I cadaveri sprigionavano fumi di odore acre e pungente dalle bocche nere e alcuni ancora sfrigolavano. All’inizio non intuì, ma poi capì cosa era successo. Enos la guardava con occhi spaventati, così come non l’aveva mai guardata. Era completamente nuda, in mezzo a quella desolazione di solo fuoco, alcuni focolai erano ancora accesi, poco lontano. Il vento iniziò ad alzare le ceneri dei morti. Quel giorno venne chiamato il Giorno Grigio. Sopravvissero solo loro due.

Si odiò, e si maledì. Non doveva succedere, non doveva.

Eppure lei era li, e la madre aveva visto giusto nei suoi occhi.

 

«Tu hai il fuoco dentro di te, Elyce, figlia mia. Non reprimerlo.» Elyce eluse la sua frase, ignorandola. Non voleva accettare quella maledizione che incombeva su di sé. Erano nella tenda del loro accampamento, tra poco avrebbero iniziato la battaglia finale, la disfatta del tiranno e finalmente l’unione delle Terre di Fuoco sotto il loro casato e protezione. Sotto il casato di suo padre.

«Ho dato alla luce una brava figlia, ma ho acceso qualcosa di molto più grande che una sola vita. Elyce...».

«Madre. Ti prego. Basta...» mormorò la ragazza. Non sopportava queste sue parole dolci. A lei, che era un mostro. I suoi poteri erano una menomazione del dono degli dei. Sua madre veniva da un casato molto alto, ma il padre era un semplice guerriero. Era una nobile sporca di nascita. Quei poteri non erano una benedizione, ma bensì una maledizione. Era una punizione degli dei stessi. Per ricordarle che non c’era posto per i mezzosangue in mezzo al banchetto dei guerrieri.

 

Ancora persa nel guardare l’ultimo spiraglio del fantasma del suo passato – Elektra - suo fratello entrò trafelato, si teneva le lenzuola attaccate al corpo nudo, i capelli scompigliati e gli occhi strabuzzati, scorgendo lo scompiglio e l’odore di bruciato. La guardò, impaurito.

«El...».

«Taci.» disse, con il tono spento. «Lasciami sola.» mormorò, con la voce stanca. Il volto, era stanco. Gli occhi erano rossi per le lacrime, e rivestita di stracci bruciacchiati, si inginocchiò a terra, stringendosi il petto.

«Elyce, scusami, io...».

«VA VIA!» urlò, e sentì di nuovo quella vena di orda entrarle nei polmoni e premere, per uscire. Ma non poteva. Le lacrime offuscavano la sua vista, e appoggiò la testa a terra. Il respiro affannoso e breve, sempre più veloce e corto, e il corpo scosso da convulsioni forti che la facevano sussultare sul posto.

Pulsava, il suo cuore, e straripava di marciume e dolore, ripiena di disgusto per se stessa, riscoprendo la vena del mostro che pulsava in lei, che usciva e feriva ciò a cui teneva di più.

Ma no, tutto poteva bruciare: lei, il suo castello, il mondo, tutto poteva bruciare.

Tutto, ma non suo fratello.

Tutto può bruciare, ma non lui... non di nuovo.

 

Quando il vessillo cadde Enos sentì l’esplosione di un urlo. E riconobbe la voce di Elyce.

E poi ci fu il fuoco, una fiamma alta e nera, come se un vulcano si fosse risvegliato in lei. Sgorgava fuoco e morte, e poteva sentire il calore propagarsi fino a lui. Lo scudo che portava al braccio lo protesse dalla prima ondata di fuoco esplosa da lei. I nemici caddero, spaventati.

«Un mostro, aiuto!» inveivano, correndo via, spaventati. Ma Elyce non ebbe pietà, per nessuno di loro.

Continuava a urlare, sua sorella, e il dolore si poteva udire ovunque, come delle unghie che grattano contro la superficie interna della sua anima, inondandolo di rabbia, sporcandola di sangue e lacrime, sperperando la voce al di là del Velo e richiamandoli dall’aldilà. Ma la madre non rispondeva all’urlo disumano di sua figlia.

Riuscì a scorgerla, da lontano, e per la prima volta in vita sua, Enos ebbe paura di lei.

Era avvolta da questa fiamma nera, che aderiva al suo corpo come magma che scorre sulla sua pelle, ricoperta di rosse ventate che la sollevavano da terra e – come se il destino volesse prenderla in giro – queste folate rosse disegnavano dietro di lei delle specie di ali, che la tenevano sospesa a mezz’aria. Un angelo del dolore, e del fuoco.

Gli occhi non erano che piccole scaglie bianche nel nero, così come quando scaldi talmente tanto il ferro da irradiare una luce da accecarti.

In quel contesto, dove il sangue evaporava e i corpi si carbonizzavano all’istante ad ogni ventata, Elyce sembrava un demone proveniente direttamente dall’inferno.

«Elyce...» mormorò, come chiamandola. Stava piangendo, di nuovo, e le lacrime solcavano il suo viso. «Scusami...» si inginocchiò, perdendo per un secondo la cognizione di dov’era e cosa stava succedendo.

La seconda ondata di calore lo irradiò, prendendolo di sorpresa. Era così potente e bollente che il braccio a contatto con il ferro dello scudo prese fuoco, bruciandolo. Quest’onda d’urto colpì tutta l’area, bruciando i fuggiaschi e chi – ancora – era vivo dalla prima ondata.

Il suo urlo, così come improvvisamente era iniziato, finì d’un botto.

La vide crollare a terra. Si guardò intorno, ferito e dolorante. Lo scudo – stranamente – era sopravissuto.

Era l’unico, in piedi, e vivo. Solo lui e sua sorella. Il silenzio ora era diventato assordante. Niente urla, niente voci di persone che scappavano. Solo il suo respiro affannato. E il vento.

Si avvicinò al suo corpo, o almeno così sembrava. Era raggrinzito, carne bruciata, eppure ancora respirava. La sentiva, rantolare, stesa a terra. E poi, lentamente, la vide rinascere dalle ceneri, la pelle che ricresceva, nuova e lucente. Pochi minuti e Elyce era lì, distesa a terra, a respirare, completamente nuda. Lui si avvicinò un altro po’, spaventato e cauto, con lo scudo ormai nero e bruciato, pronto a difendersi ancora una volta, il braccio pulsava di dolore.

Aprì gli occhi e si alzò, Elyce, e si guardò intorno.

Per un breve secondo non comprese cosa era successo, e poi capì tutto. Si girò cercando il fratello, e se lo vide di fianco, sporco e sanguinante.

«Enos...cosa...» e poi ricordò, il fuoco. E il mostro che aveva in sé, sempre represso, intrappolato, che aveva trovato la libertà nel suo dolore. Nella morte dei suoi genitori.

«No...» piagnucolò, e vide il suo braccio, completamente ustionato. «O mio dio, Enos, cosa ti ho fatto!» scattò, avvicinandosi, e lui d’istinto si ritrasse, spaventato che potesse essere ancora rovente.

Elyce si raggelò, vedendo come la guardava, e come si comportò.

«O mio dio...» disse, portandosi la mano alla bocca, stringendosi mentre le lacrime scorrevano. «Stai lontano da me!» disse, alzandosi, cercando di allontanarsi da lui, e inciampò in un corpo, ritrovandosi distesa in mezzo a scheletri neri. E la fissavano.

L’accusavano.

«Elyce, scusa io...».

«Stai lontano da me!» urlò, rialzandosi, sporca di ceneri. Le ceneri dei suoi nemici. Delle sue vittime. «Sono un mostro! Sta lontano da me! Ti prego.» lo guardava piangendo.

«Non posso sopportare di farti del male...ancora.» biascicò, cadendo in ginocchio stringendosi il petto. La testa appoggiata a terra. L’odore di cenere tutta intorno.

Il respiro diventò veloce e agitato, e il corpo preso di sussulti.

Il suo pianto riempì il vento che volava, placido, lungo la radura, trasportando le ceneri in ghirigori gentili nell’aere.

 

Enos, alla richiesta della sorella si allontanò, e lei lo vide. Il suo braccio, ormai guarito, era ancora ricoperto da quella patina traslucida della pelle bruciata. Ancora, nel suo cuore, maledì quel giorno e maledì se stessa. Odiandosi, e stringendosi cercò di contenere il dolore. La rabbia. Si rialzò, dopo così tanto tempo che le ossa e le giunture facevano male. Si cambiò e uscì. L’arte della spada l’aveva sempre calmata.

Enos guardava dalla finestra con occhi tristi sua sorella, mentre perdeva sudore nel muovere quella spada troppo pesante per le sue braccia. L’unica cosa rimasta di suo padre fu quel pezzo di ferro.

Una spada a due mani molto pesante, forgiata direttamente da lui, che prima era un fabbro, uno dei migliori.

Vi era inciso sopra il simbolo del loro casato, quello della loro madre.

Era l’unica cosa che possedeva, Elyce, e che usava per cercare conforto e allo stesso tempo punizione.

Lui, d’altro canto, aveva tenuto lo scudo. Era un regalo della madre, che reputava il figlio troppo impulsivo. Sorrise dolcemente all’idea che quello scudo lo aveva protetto non dai nemici ma dalla propria sorella.

Elyce cadde per terra, stremata, il sole ormai stava calando, e la sera stava giungendo.

Ma il suo volto non era cambiato, aveva la stessa espressione di prima. I loro occhi si incrociarono, per un secondo.

Enos li fuggì. Conscio dell’errore commesso. Di tutte le donne che poteva avere, aveva scelto quella più sbagliata. L’unica scusante – se non mezzo per cercare di ridurre il proprio senso di colpa – era il fatto che aveva bevuto troppo quella sera. Non ricordava nemmeno cosa era successo durante la notte, con lei.

Ma non serviva a niente, Elyce non parlava. E non lo fece, per settimane.

Alla fine, la vide sorridere, una mattina. Stava parlando con la nuova ragazza addetta alla cucina. E sorrise anche a lui. Fu un perdono sottile, e lento. Senza parole.

Ma è sempre stato così. E ci passò sopra, il ragazzo.

Inconsapevole del fatto che la sorella non aveva perdonato se stessa di ciò che era successo. E che si era convinta del fatto che lui non c’entrasse niente con tutto ciò. Era stato un mero strumento nelle mani della ragazza. Questo Elyce lo sapeva per certo.

“È una maledizione, quello che mi porto dentro. Sarebbe così facile, liberarsene. Ma non posso.”.

 

«Elyce, tesoro mio...» la madre la chiama dolcemente, la luna brilla opaca, ma è la madre che illumina la stanza. Il suo potere è sempre stato la luce. Dove voleva, ovunque andasse, rischiarava di luce. Ed era bella, illuminata durante la notte, ed era dolce e calda, quel brillio tenue che si portava dietro. Come la sua pelle, e il suo sorriso.

«Sì, madre?» la bambina gioca con il dito guardando quel fagotto piccolo nella culla, il nuovo erede dato alla luce.

«Mi fai una promessa?» chiese la madre, guardando la figlia, con i denti mancanti e il sorriso a groviera. I capelli ribelli e spettinati, come un ragazzino senza padrone.

«Certo, madre!» disse alzando la voce squillante, e il fagotto si mosse disturbato. La bambina, preoccupata, abbassò il tono e sussurrò uno “scusa” flebile e debole, quasi impercettibile. Non sapeva come mai, ma le era molto a cuore il benessere di quel bambino un poco cicciottello.

«Devi badare a tuo fratello, quando crescerà. È questo quello che fa una sorella maggiore, sai?». La bambina la guarda, stranita. Non capisce.

«È il tuo dovere di sorella, devi stare attenta che lui non si faccia male e che stia bene.» cercò di spiegare, sorridendole. Il bambino stringe a pugno il dito della sorellina.

È destino.

«Sì madre. Starò attenta.».

 

“Ti ho fatto una promessa, mamma. E la manterrò.”.

 

«Elyce, scusami se ti faccio questa domanda, ma è da ieri che ci penso.» Elsa era passata velocemente al tu, così come la mora, che camminava di fianco a lei verso le cucine.

«Dimmi.» e le sorrise dolcemente. Sentire il suo nome pronunciato dalla voce dolce ed elegante della bionda la inebriava.

«Quest’uomo che è scappato, che cercate, sapete chi è?». Lo sguardo di Elyce si ombrò, e Elsa si rammaricò della sua curiosità. Ma non poteva ignorare ancora a lungo quel discorso, prima o poi doveva affrontarlo.

«Quest’uomo che cerco, scappato alla giustizia del mio paese, che ha ucciso mia madre e mio padre in una imboscata e che fu il primo a dare inizio alla guerra civile, sì, lo conosco. E molto bene, purtroppo.» disse, con un velo di tristezza ma anche di dolore. Di rabbia. Le fiamme dei suoi sentimenti si potevano leggere al di là delle sue parole. Li sentiva ardere nel suo animo, e Elsa notò il suo cambiamento di postura – più rigida – e del parlare, più concitato. Si domandava sempre di più come mai questa donna, dall’animo così focoso e istintivo, riuscisse a contenere tutto dentro di sé, lasciando trasparire ciò che prova solo con gli occhi.

«Quest’uomo...è mio zio.».

 

 

 

 

   
 
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