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Autore: slytherin ele    20/10/2014    1 recensioni
Tyler Delarto è un poliziotto, cinico nei confronti della vita. Poi tutto cambia, il licenziamento lo colpisce come uno schiaffo e inizia la sua nuova vita forse migliore o forse... semplicemente diversa.
Storia partecipante al contest a turni: "Hell's Writing Kitchen" indetto da gufetta 1989.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tyler Delarto era uno sbirro

 

Little Italy è grande, chiassosa e sporca.

A meno che tu non sappia dove andare, ti perderesti in un attimo, peggio… verresti ucciso. Questo quartiere è casa solo per i malviventi, è sicuro solo per alcuni di loro: i capi-clan. Per la gente normale, è il covo di Satana, è la linea che ti accorgi di aver sorpassato un secondo in ritardo e sai già di non avere speranza, è il punto di non ritorno. Per me, è il luogo in cui lavoro.

Nessun interesse a essere parte di uno dei clan, ma ormai parte integrante della famiglia Gambino, pur non avendolo chiesto.

Sono Tyler Delarto, la guardia del corpo di John Joseph Gotti junior, e la mia vera esistenza è iniziata il 25 novembre 1978. Il resto della mia vita non me lo ricordo più… forse.

 

Era il 16 novembre 1978 quando il capitano Simon Kess mi convocò nel suo ufficio, era scuro in volto e aveva lo sguardo afflitto di chi non vorrebbe compiere ciò che sta per fare.

“L’autodifesa è una buona cosa, così come lo sono i tuoi riflessi, Tenente, però…” Non sarebbero state necessarie le parole seguenti che pronunciò, quel però significava che il mio servizio come poliziotto finiva in quel momento e la frase “si tratta di un congedo temporaneo” che sentii dopo mi sembrò talmente falsa, che lo guardai con fare derisorio, mentre mi passavo una mano tra i capelli neri, allora tagliati corti da perfetto soldato; in gergo temporaneo voleva dire che eri fuori, che potevi evitare di attendere inutilmente di essere richiamato e cercarti un altro lavoro.

Un errore… no, l’istinto di sopravvivenza mi era costato la carriera, fortunatamente non tutti i miei colleghi, ma questo allora non lo sapevo.

Posai la pistola di ordinanza sulla scrivania, insieme al distintivo.

-Mi devo svestire, qui o posso portarvi la divisa in seguito?!- pensai, sarcasticamente. Mi morsi la lingua un attimo prima di pronunciare realmente quella frase; non volevo rendere la situazione più complicata di quella che era, né rischiare di finire dentro per offesa a pubblico ufficiale; il capitano non era mai stato un individuo dotato di grande senso dell’umorismo, me l’avrebbe fatta pagare.

 

Non ero mai stato una persona particolarmente solare, che si rallegra per ogni piccola cosa e vede sempre il bicchiere mezzo pieno, ma quella giornata si era rivelata essere buia e vuota. La mia vita sembrava essere finita: non ero preparato, non c’era un piano B e, senza uno stipendio, di lì a poco non mi sarebbe rimasto neanche un posto dove vivere. Ero solo, anche per colpa mia, lo sapevo, ma… i rapporti interpersonali non erano mai stati il mio forte. Andavo d’accordo solo con Jack Xandley, il mio partner in polizia: un ragazzo di venticinque anni, sei in meno di me, appena salito di grado, che nessuno degli altri aveva avuto la voglia di prendere sotto la sua ala. Errore loro, avevo pensato sin da subito: Jack era sveglio, simpatico e molto capace nel nostro campo. Mi sarebbe mancato, ma non ero il tipo da addii strappa lacrime o lettere di scuse fasulle. Chi volevo prendere in giro? Jack doveva essere stato il primo a essere informato e non aveva fatto nulla, neanche un ultimo saluto prima che la mia vita finisse. Forse mi ero illuso che la nostra fosse amicizia, forse ero solo un collega, neppure un mentore, per lui.

 

Nel mio appartamento in Canal Street, nella Lower Manhattan, a due passi dal quartiere italiano, mi fermai poco; il tempo di prendere la mia arma di riserva, la Colt M1911, e di bere un bicchiere di Grignolino, il preferito di mio padre, acquistato nel giorno della sua morte e intoccato da allora. Erano già passati cinque anni, eppure mi sembrava che, a volte, fosse ancora lì a parlarmi: della traversata per arrivare negli Stati Uniti, quando aveva otto anni, della vita difficile, del lavoro dei nonni, dell’incontro con la mamma, della mia nascita, del matrimonio veloce e obbligato, ma felice e di quanto io fossi fortunato a non aver sofferto nulla della sua miseria, di essere nato dopo. Non mi aveva mai accusato di essere stato un peso, anche se lo ero stato, mi rimproverava solo di essere un po’ pessimista e cinico nei confronti della vita, poi scuoteva la testa e diceva: “Non è colpa tua, mio padre era così. Un gran lavoratore, certo! Ma vedeva sempre tutto nero.”

Mi mancava, la sua morte mi aveva segnato, nonostante me la aspettassi; aveva un cancro allo stomaco, sarebbe sopravvissuto per ancora qualche mese in ogni caso. Era l’ultima persona cara che mi era rimasta e mi ero preso cura di lui fino all’ultimo, me ne era grato, anche se non me lo aveva detto, io lo sapevo. Guardai la foto in bianco e nero, incorniciata, che ritraeva i miei genitori il giorno del matrimonio: potevo vedermi sullo sfondo, in lontananza, di pochi mesi, in braccio alla nonna mentre dormivo tranquillo, inconsapevole di quello che mi accadeva intorno.

Mi tolsi la divisa e la infilai in uno scatolone, poi presi una camicia azzurra e un paio di pantaloni neri dall’armadio, li indossai e mi rimisi il cappotto.

Uscii di casa, con passo veloce, cercando di allontanarmi il più in fretta possibile da Canal Street: in quei giorni, a Little Italy, a due passi da casa mia, due clan si stavano sfidando: c’erano state diverse sparatorie. Non era più un problema mio!

Mi diressi veloce verso il centro di Manhattan, facendo forza su me stesso per non tornare indietro a vedere l’accaduto; non ero più uno sbirro, non dovevo più risolvere la faccenda! Non che qualcuno ci avesse provato veramente: il distretto della parte bassa della città sembrava l’unico pilastro rimasto, che non aveva ancora ceduto alla generosità di una delle famiglie.

Un colpo di sparo, due, tre… il quarto fu talmente vicino che quasi lo sentii fischiare nelle orecchie, ma non mi fermai.

“Togliti!” ricevetti una spallata in piena regola, che però non mi spostò di un millimetro. Un energumeno abbronzato dalla aria truce, armato, mi passò davanti e ghignò nella mia direzione. Poi si fermò, alzai lo sguardo, mentre caricava il fucile e le vidi: due macchine nere si fronteggiavano in un tipico scontro tra mafiosi, i conducenti che tentavano di non sbandare e i passeggeri che si sparavo a vicenda.

Successe tutto in un attimo, l’individuo che mi stava vicino aveva caricato il suo Remington 870 e prendeva la mira verso il finestrino posteriore dell’automobile più lontana, più di 800 metri di distanza e un solo colpo prima di scatenare l’inferno, la mia mano destra scattò sulla Colt carica e il secondo successivo la nuca dell’uomo sanguinava e lui si ritrovava a terra, ormai morto. Non seppi dire perché lo avessi fatto, forse per tutti i civili che vivevano in quelle case e che si trovavano vicino a quel luogo? Non ero mai stato così nobile, né misantropo. Probabilmente lo feci per me, perché ne avevo bisogno.

 

“Veloce! Sali!” sentii una voce urlare nella mia direzione. Ebbi appena il tempo di muovermi verso la macchina che mi aveva affiancato, prima che un proiettile scheggiasse una piccola parte della portiera. L’auto partì a tutta velocità, mentre l’uomo di fianco a me, che non avevo avuto ancora il tempo di guardare, rideva a squarcia gola. Con il cuore che batteva a mille e l’indice ancora sul grilletto mi chiedevo che cosa mi fosse saltato in mente: come avevo potuto mettermi così platealmente contro un clan? Mi avrebbero sciolto nell’acido, probabilmente da vivo.

Mentre pensavo a come sarebbe avvenuta la mia dipartita, mi accorsi che mi trovavo su una delle due auto, coinvolte nello scontro e che l’uomo, sedutomi vicino, mi fissava tra l’incuriosito e il beffardo.

“O sei pazzo o sei masochista.” Disse tranquillo, accendendosi un sigaro e fumandolo con calma, come se l’attimo prima qualcuno non avesse tentato realmente di ucciderlo. Non era stato la sua voce ad avermi chiamato, ma di sicuro era stato un suo ordine “Comunque sia, sei stato bravo, utile. Oserei dire!” Solo in quel momento misi a fuoco la figura che avevo davanti e il mio cervello mi mandò una risposta: John Gotti, capo-clan della famiglia Gambino; ecco chi era la vittima, ecco chi avevo salvato.

La mia parte di poliziotto si rivoltò, causandomi una smorfia, che dovetti celare immediatamente. Se Gotti la vide, non ci fece caso o pensò che fosse dovuta alla paura.

“Mi serve uno come te.” Disse, poi, con tono piatto, incolore. “La mia guardia del corpo, Beppe, un brav’uomo, ha subito una ferita grave, nello scontro di due giorni fa. Potrebbe riprendersi, ma non posso rischiare. Mi serve qualcuno che abbia l’istinto.” Mi guardò di sbieco, quasi consapevole che io stessi leggendo tra le righe. “Mi capisci, vero?” chiese un attimo dopo, facendomi sghignazzare i due uomini davanti, che fino ad allora non avevo calcolato.

“Ci stai?” chiese poi diretto, facendo sparire quell’espressione bonaria di un attimo prima.

Repressi il bisogno di deglutire a vuoto e annuii debolmente.

Non si usciva vivi dal rifiutare un’offerta del genere, chiunque ne era conoscenza, e avevo disperatamente bisogno di un lavoro. L’etica non era più parte della mia persona e non mi avrebbe fermato; avevo delle priorità e le avrei messe dinanzi a un’ideale.

 

Sono le sette meno venti di mattina e mentre mi dirigo verso il numero 22 di Mott Street, mi fermo davanti a una buca delle lettere. É l’undici del mese. Tiro fuori dalla tasca del mio lungo cappotto nero una busta bianca e la imbuco. Riprendo a camminare verso l’edificio dove abita Gotti. Sono ormai due mesi che lavoro come sua guardia del corpo: la paga è buona e finora non mi ha fatto troppe domande, spinge solo sul fatto che io stia aspettando troppo a trasferirmi più vicino a lui, in modo che mi sia più facile raggiungerlo, ho ignorato l’argomento per un po’, fingendo di averne tutte le intenzioni, ma non potrò tirare ancora la corda per molto.

Anche se il fatto non mi va a genio: dovrò lasciare Canal Street.

 

Entro dal portone principale e salgo due piani di scale, ormai conscio che il capo sia già in piedi, così come la sua famiglia. Busso tre volte alla porta del suo ufficio e vedo uno dei suoi vice aprire la porta e spostarsi per farmi entrare. Come immaginavo Gotti è già in compagnia del suo consigliere e dei due vice, più altri due uomini che non ho mai visto, forse degli scagnozzi con un compito simile al mio. Sorride e fanno cenno di avvicinarmi.

“Delarto, vieni, vieni.” La sua voce accondiscendente e fintamente bonaria mi fa accapponare la pelle, come ogni volta. Non porta nulla di buono, ne sono ormai consapevole. “Vorrei farti alcune domande, se permetti.”

“Certo, capo.” Rispondo, sicuro e lui ghigna.

“Siedi, allora.” Mentre mi accomodo, chiedendomi quali saranno i quesiti che vuole pormi, fa un cenno agli altri uomini di andarsene. Rimaniamo in tre nella stanza: Gotti, il suo consigliere, Frank LoCascio, e io. Lo sento, questo è il momento in cui verrò giudicato: se sarò giudicato affidabile e utile farò parte della famiglia, in caso contrario… morirò, perché pur non avendo collaborato quasi per nulla, per il capo so già troppo.

“Tyler Delarto, di origini italiane, quindi. Da parte di padre, immagino?” Mi aspettavo fosse Gotti a parlare, per questo sono incerto quando la domanda mi viene posta da LoCascio

Annuisco. “Mio padre, sì, italiano di nascita, era Giorgio Delarto. Originario del nord Italia. Mia madre, Janet Jemson, era statunitense, di Brooklyn.”

Il consigliere annuisce, scrivendo poche righe e comincio a chiedermi se ci sia una qualche politica di cui non ero a conoscenza; forse Gotti non accetta essere circondati da americani? Oppure bisogna essere italiani di origine per essere integrati nel clan? Comincio a rendermi conto che, forse, il mio precedente lavoro mi sarebbe riuscito meglio se avessi osservato più da vicino il mio nemico e considerato dettagli che mi erano sembrati irrilevanti.

Gotti sorride e l’altro uomo continua a parlare: “Dovevi fare un lavoro piuttosto pericoloso prima, a giudicare da come ti trovi a tuo agio con le armi?” Occhieggia la Colt, all’interno del cappotto, che ho dovuto appoggiare alla sedia: se ne vede solo l’impugnatura. Poi sposta lo sguardo sulla mia caviglia destra, appoggiata sul ginocchio sinistro e mi pare quasi che possa vedere il piccolo pugnale, legato con due fibbie al polpaccio; deve essere solo un’impressione.

“Facevo lo sbirro.” Mi sembra inutile mentire, lo scoprirebbero comunque e non me ne vergogno. Il modo in cui lo dico deve piacere a Gotti che scoppia a ridere e parla, precedendo il sottoposto.

“Distretto 12, ragazzo?”

Faccio segno di diniego: “Distretto 14.” E ghigno, quando batte le mani e esclama: “Finalmente qualcuno del 14, sono fin troppo duri quelli lì.”

Per essere il capo di una famiglia mafiosa è meno crudele di quello che pensavo, sembra essere quasi simpatico; ma non siamo in una situazione da manuale, come le chiamava il capitano Kess. Sono sicuro se ci fosse l’orgoglio della famiglia o la vendetta di mezzo diventerebbe anche lui un carnefice.

So che mi ha detto qualcos’altro nel momento in cui mi chiede se lo sto ascoltando. Mi scuso. “Dovresti stare ad ascoltare, Tyler. Vi dico solo cose importanti, a tutti voi.” Fa un gesto ampio con il braccio sinistro, come a indicare una moltitudine di gente, che in realtà non c’è e poi mi chiede: “Hai degli amici in polizia, non è così, Tyler?” Il suo tono e il suo sguardo mi comunicano che se non darò la risposta che si aspetta, non mi riterrà necessario.

Do il beneficio del dubbio sia a me stesso che a lui e sorride complice.

Mi fa cenno di alzarmi e raggiungerlo e so che ho passato la prova, che vivrò ancora qualche giorno.

La mia mente lavora febbrilmente, mentre Gotti parla con LoCascio: la prima cosa che farò arrivato in Canal Street sarà pensare a come contattare Jack, sperando che non mi abbia già chiuso fuori dalla sua vita.

 

 

   
 
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