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Autore: Nina Ninetta    23/10/2014    1 recensioni
*IN FASE DI EDITING*
L'avventura di tre giovani amiche - Teddy, Morena e Grimilde - si svolge in soli due giorni: un week end speciale che decidono di trascorrere in un resort per festeggiare l'addio al nubilato di Teddy, inconsapevoli che qui incontreranno i fantasmi del loro passato, con cui saranno costrette a confrontarsi, senza poter pių rimandare.
PS. Il titolo č tratto dalla canzone "Per Sempre" di Nina Zilli.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2



 
Morena si arrestò dinnanzi ad un palazzo di parecchi piani, una costruzione antica ma che veniva continuamente ristrutturata per mantenere intatta la bellezza del viale, dove passato e presente si mescolavano alla perfezione. Alti palazzi in pietra ospitavano centri benessere e boutique di importanti marchi esteri, lounge bar e locali (dove un cocktail avrebbe avuto lo stesso prezzo di una cena nei pub più modesti del Paese) illuminavano con luci soffuse i marciapiedi che assumevano così freddi colori pastello. Ovunque gente sorridente accerchiate da decorazioni natalizie.
Guardò Martin ancora addormentato fra le sue braccia che oramai non le dolevano neanche più, i muscoli si erano atrofizzati e si chiese se, quando l’avrebbe finalmente adagiato su di un letto, sarebbe stata ancora in grado di stendere le braccia. Lui le fu vicino, il suo borsone in spalla, il trolley di lei in una mano e quello per le cose di Martin nell’altra. Per un po’ rimasero così, con gli occhi all’insù, circondati da quel vocio così familiare, così rassicurante.
Erano a casa.
«Sei sicura che sia questo il palazzo?»
«Sicurissima»
Lui la scrutò. Sembrava sempre la stessa Morena, con quell’espressione corrucciata, come se volesse attraversare con raggi infrarossi le mente umana, per scovarne ogni pensiero. Era sempre la stessa Morena che non voleva sentire ragioni, che tutto ciò che faceva o pensava era la cosa giusta, l’unica cosa giusta da fare. La stessa Morena che non ti dava soddisfazioni, che sembrava infastidita anche solo dalla tua presenza, ma se la si guardava più attentamente si poteva notare una ruga all’angolo dell’occhio, lo sguardo un po’ spento e velato di tristezza – o forse era stanchezza? – braccia forti che stringevano Martin e che non lo avevano lasciato neanche per un minuto, eppure continuava ad avere quella fermezza che la caratterizzava, senza mai vacillare.
«Possono davvero permettersi un fitto del genere?»
«Non pagano nulla. Diciamo che è un regalo da parte del padre» lui fischiò, guardandosi attorno con circospezione, quindi ritornò su Morena:
«Pensi che saliremo prima o poi o resteremo in mezzo alla strada a contemplare le armonie architettoniche della costruzione?» Morena lo guardò e accennò un sorriso
«Armonie architettoniche? Dove l’hai sentita questa, Michelangelo!» e lui rise con lei. Questa era la Morena che ricordava e che adorava punzecchiare:
«Tu mi sottovaluti. L’hai sempre fatto» la ragazza gli lanciò un’occhiata di sottecchi, ripensando al loro passato tutt’altro che pacifico. In tutta risposta lui le sorrise, strofinandole la schiena e invitandola a seguirlo, quindi salì i gradini che precedevano il portone il quale, si meravigliò, era solo socchiuso. Lo spalancò con una spalla e lasciò che Morena vi scorresse oltre, poi il portone scivolò sui cardini silenziosamente e si richiuse alle loro spalle, con un tonfo ovattato. L’aria lì dentro era decisamente più fresca che fuori e Morena si curò di coprire meglio Martin, mentre il cuore del ragazzo che la osservava si intenerì a quel gesto materno e naturale.
Qualche altro minuto lo persero a fissare la porta in legno massiccio, dove una targa citava, in un corsivo tutte curve e riccioli, Fernando Lopez. Era senz’altro quella la porta a cui avrebbero dovuto bussare. Lui adagiò le valigie sulle mattonelle, si sgranchì le ossa e fece per suonate il campanello, ma la mano di Morena si chiuse con uno scatto intorno al suo polso, fermandolo. La fissò,  incredulo, notando da subito i suoi occhi lucidi e il fiato corto, non la vedeva in quello stato da quando gli aveva telefonato per chiedergli di raggiungerla, la voce rotta dall’emozione. Con i dottori assiepati intorno a lei, le aveva stretto la mano e sebbene fosse semicosciente a causa dell’anestesia, aveva mosso le dita e gli angoli delle labbra in qualcosa che rasentava un sorriso.
«Sono qui, Morena» le aveva sussurrato «Sono qui»
In quel momento, però, leggeva anche paura nei suoi occhi grandi e castani, paura di quello che non si conosce, paura che qualcosa fosse mutato in tutto quel tempo che era stata lontana, paura di non esser più accettata. Lasciare l’Italia le era sembrata la scelta migliore, ma adesso, probabilmente, iniziava ad avere dei dubbi, proprio lei che non ne aveva mai, o quasi.
«Fai un bel respiro profondo» le disse lui e lei obbedì «Brava» e suonò e a Morena quasi venne un infarto. Lo guardò male, dicendogli che non gli aveva dato ancora il via per bussare, ma lui sorrise e le disse che sarebbe andato tutto bene, ammesso che in casa ci fosse qualcuno. Inizialmente tutto tacque, poi Morena schiacciò il pulsante del campanello con maggiore insistenza e, ancora attaccata a questo, la porta si aprì e il tempo si fermò.
 
Sarebbe potuto essere chiunque, qualche vicino bisognoso d’aiuto, ragazzini che si divertivano a fare scherzi stupidi, un vagabondo in cerca di cibo o di denaro. Invece era Morena, con in braccio un bimbo piccolo di qualche mese. Morena, in camicia nera con le maniche a tre quarti e jeans scuri, con i capelli lunghi perennemente portati sciolti come un velo, con gli occhi grandi e lucidi e ansiosi, in attesa, con un sorriso mesto e quasi imbarazzato sulle labbra:
«Ciao Teddy» disse e quest’ultima si sciolse come neve al sole, come un ghiacciolo. L’abbracciò, senza riuscire a dire niente, sentendo il suo cuore battere forte e un groppo formarsi in gola. Grimilde dietro di loro saltellava chiedendo in continuazione chi fosse, urlando a Teddy di spostarsi per lasciarla vedere e, solo per evitare che le urla di Grimilde attirassero l’intero condominio, Teddy si fece da parte. Il viso della ragazza bionda s’illuminò d’improvviso, mentre una lacrima le scendeva lungo la guancia. L’asciugò, senza badarci, senza nasconderla, perché non c’era nulla di strano a piangere per un’amica che non vedeva da almeno un anno e mezzo. L’abbraccio di Grimilde fu meno avventato di quello di Teddy, più delicato e breve, poi circondò le spalle di Morena e insieme entrarono in casa, come se nessuno avesse notato il piccolo Martin fra le braccia di lei. O il ragazzo immobile sul pianerottolo.
Teddy seguì con lo sguardo le sue amiche accomodarsi sul divano, senza smettere quel sorriso di felicità genuina che le illuminava il volto, subitaneo si ricordò di Diego Torres, al quale non avevano rivolto neanche un saluto. Belle scostumate erano state, lei e Grimilde, così prese da Morena da dimenticare il suo fidanzato, ma quando il ragazzo che era stato fino ad allora alle spalle di Morena, in penombra, muto e silenzioso, avanzò fino a trovarsi a meno di un metro da lei, Teddy si sentì volteggiare la testa e il sorriso pian piano scemò.
Nicolas Antonio Romero la guardava con il capo chino, gli occhi si alzavano dalle mattonelle di marmo chiaro fino su di lei, poi tornavano bassi, mentre con una mano si carezzava i capelli tagliati a punta sul capo. Era stato uno sciocco: aveva avuto così tanto tempo per pensare a cosa avrebbe potuto dirle quando se la sarebbe trovata dinnanzi, proprio per evitare quell’imbarazzante silenzio che ora li teneva inchiodati uno di fronte all’altro.
L’allegra voce di Grimilde irruppe come una boccata d’ossigeno:
«Teddy, ma che stai facendo?» poi la sua amica raccolse il piccolo borsone del neonato, tutti pupazzetti azzurri e nuvolette bianche, ed entrò in casa. Grimilde sospirò scuotendo il capo, quindi sorrise a Nicolas, abbracciandolo e posandogli un bacio sulla guancia destra:
«Sei sempre il benvenuto» gli disse e lui annuì, scompigliandole i capelli proprio come lei detestava:
«Sei un mutande» le fece notare con un gran sorriso divertito. La biondina, come da copione, gli inviò un’occhiataccia mentre si lisciava i capelli con le dita sottili e bianche:
«Beh, tu avresti potuto avvertire che saresti passato a salutare» gli mostrò la lingua prima di contraccambiare il sorriso.
Sentiva che quel Natale sarebbe stato diverso.
 
Teddy pareva un’estranea in casa sua. Morena si sedette al suo fianco sul divano e le posò una mano sul ginocchio, fasciato da un paio di leggings scuri:
«Romero» come spesso Morena lo chiamava, restia a lasciare le abitudini della scuola «È stato indispensabile per me in questi mesi che sono stata lontana da voi» improvvisamente sentiva la necessità di spiegare la presenza del ragazzo, come se non avesse pensato all’effetto devastante che avrebbe potuto avere su Teddy, eppure aveva continuato a ripetersi, come un mantra, che quella era la cosa giusta da fare.
La biondina ritornò trotterellando in cucina, dopo aver indossato un paio di bermuda di cotone a tinta unita, sembrava al settimo cielo e Teddy, un pochino, provò un sottile fastidio per il suo atteggiamento esuberante. Fino a quindici minuti prima era nella sua camera a correggere temi scritti da bambini di terza elementare, ora si ritrovava seduta sul divano e costretta a fissarsi i piedi, perché se avesse alzato lo sguardo avrebbe incontrato il suo e non era sicura di avere la forza necessaria per sostenerlo. Grimilde saltò sul divano, scalza, e per poco non si rovesciò su Teddy che se la scrollò di dosso con una sorta di spinta,  obbligandola a sedersi sul bracciolo. Era una bambina o cosa quella ragazza?
Poi Morena parlò e l’attenzione fu tutta per lei:
«Sono contenta di vedere che state bene.»
A Teddy quasi si chiuse lo stomaco. Era stata talmente disorientata dalle emozioni che la vista di Nicolas le aveva provocato, e non meno felice di riabbracciare la sua amica,  che non aveva notato in quest’ultima le profonde occhiaie, gli zigomi pronunciati perché magri, il calo di peso, il suo sguardo spento, ma soprattutto quel fagottino che cullava fra le braccia. La ragazza fissò lo sguardo proprio su quest’ultimo, su quel ciuffo di capelli scuri che spiccava sulla testa, le palpebre chiuse, le manine grassocce:
«Morena, chi è questo bambino?» chiese poi.
Grimilde deglutì, il cuore prese a batterle all’impazzata e il silenzio di Morena era tutt’altro che rassicurante. Cosa era accaduto in questi due anni che erano state lontane? E perché Diego non era con lei? Perché mai c’era Nicolas e non il suo fidanzato in questo momento seduto al suo fianco? Una risposta a quelle domande si formò così chiara e nitida e spaventosa nella sua mente che quasi la fece cadere dal divano. No, non poteva essere …
Nicolas Antonio ascoltò senza spiccicar parola, era una questione che avrebbero dovuto risolvere da sole, lui doveva rimanerne assolutamente fuori. Seduto al canto di Morena di tanto in tanto lanciava degli sguardi a Teddy che le sembrava sempre la stessa, solo i capelli, quelli erano ricresciuti, proprio come piacevano a lui, lunghi e leggermente mossi oltre le spalle. Teddy aveva appena chiesto chi fosse quel bambino e Morena, come era auspicabile, indugiava nella risposta, ma quando la ragazza, che era stata anche la sua ex fidanzata, lo guardò, non poté fare altro che distogliere lo sguardo. No, non avrebbe avuto da lui quella risposta.
«Lui è Martin» disse Morena in un sospiro «Mio figlio.»
Grimilde si sporse in avanti, le sue paure stavano prendendo forma:
«Come tuo figlio? Non ci hai mai detto di essere incinta!» sbottò
«Non può essere tuo figlio! Che significa “è Martin, mio figlio?”» la voce di Teddy era un tremolio, si alzò di scatto ma fu costretta a risedersi, forse un capogiro:
«Mi dispiace, avrei voluto dirvelo ma …»
«Ma? Non ci sono “ma”, Morena! Una gravidanza non è una cosa di qualche giorno! Non è un raffreddore o un mal di denti!» Teddy si coprì il volto con le mani. Come aveva potuto tenerle all’oscuro di tutto. Di una gravidanza, di una cosa così bella come quella di diventare mamma. Si erano fatte delle promesse da ragazzine, a volte non verbali, ma infondo chi dice che le promesse debbano per forza essere verbali? Il più delle volte basta uno sguardo d’intesa, una stretta di mano, un abbraccio o un bacio. Si erano promesse che avrebbero condiviso ogni cosa insieme, bella o brutta, e ora, proprio Morena, era venuta meno ai patti.
«Lo so! Lo so! Sono imperdonabile, però credetemi …» la ragazza castana si sporse in avanti, premendosi una mano sul petto, gli occhi erano lucidi ma tutti i presenti in quella casa sapevano che non avrebbe mai permesso a nessuna lacrima di bagnarle il viso in presenza di altri. Istintivamente Romero prelevò Martin dalle sue braccia, si alzò in piedi e prese a passeggiare in tondo, cullandolo e sussurrandogli quella canzoncina sulla primavera che gli piaceva tanto. Teddy e Grimilde lo fissarono esterrefatte e spaventate.
Oramai la voce di Morena era diventata un sottofondo, quando la biondina le rivolse una domanda che raggelò tutti:
«È Nicolas il padre? È per questo che non ce lo hai detto prima?» 
  
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