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Autore: _Wild_Heart    26/10/2014    1 recensioni
"La vibrazione insistente faceva tremare il cuscino sotto il quale aveva nascosto il suo telefono sperando che a nessun altro potesse giungere quel richiamo all’avventura. Sì, avventura, perché era di questo che si trattava infondo. Nessuna certezza e nessuna raccomandazione. Solo una promessa che sembrava provenire da un’altra vita."
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo tre.
“I got lost”
 
   Dalla prima volta in cui Echo aveva guardato “L’attimo fuggente” con Simon, il suo migliore amico, sei anni prima, si era immediatamente e follemente innamorata di Neil Perry. Aveva sempre pensato, dall’età di tredici anni, che quando sarebbe cresciuta avrebbe avuto un ragazzo come Neil: un poeta barra attore barra futuro medico. Non importava che le sue fantasie fossero rimaste incatenate ai suoi sogni da tredicenne – e ora aveva da poco compiuto i diciannove anni - le piaceva sempre pensare che prima o poi il mondo le avrebbe regalato un Neil. Lo sapeva, dentro di se’; se lo sentiva. Ciò che non riusciva ancora a sapere o a sentire era perché in quella situazione, di fronte a James, lo guardava come si guarda per la prima volta un Neil Perry in tivù. E non capiva, piuttosto, perché James – che non c’entrava assolutamente nulla con il ragazzo ambizioso e pieno di voglia di fare che era Neil – la stesse fissando in quel modo. Nel momento in cui l’aveva visto accomodato su quella poltrona era sussultata per lo spavento e aveva lasciato cadere il libro di Edgar Lee Masters che aveva stretto fra le mani fino a poco prima. Si chinò per raccogliere i mille fogli che ne erano usciti, rinfilandoli alla svelta tra le pagine senza un preciso senso logico; quando tornò ad alzarsi, capì finalmente perché James la fissava: l’uomo che le aveva chiesto i biglietti poco prima stava ancora aspettando una sua risposta. Echo frugò nella borsa alla ricerca del pezzo di carta che avrebbe dato all’uomo corpulento e paffuto, mentre James si impegnava per cercare di capire l’intricato ghirigoro che aveva fatto l’uomo con l’obliteratore. Per una qualche strana ragione gli ricordava quello del Polar Express. Scosse la testa e guardò Echo – che improvvisamente, con la luce che entrava dal finestrino di emergenza grande e splendete, sembrava più bella del solito – e vide che ancora frugava invano nella borsa di stoffa senza tirarne fuori nulla di veramente utile, a parte una matita mangiucchiata, qualche foglio di carta, un pacchetto di fazzoletti e altri oggetti vari. James scosse la testa e la appoggiò al finestrino. Echo sussultò trovandosi fra le mani una foto scattata al suo gatto Fëdor pochi mesi prima, la rinfilò in una tasca della borsa e continuò a cercare fino a che, qualche secondo dopo, non si accorse che il biglietto non c’era. Non lo aveva perso, – come succedeva di solito – era soltanto sparito nel nulla. Intanto l’uomo, che portava una targhetta con scritto Joseph in stampatello sul petto, sbuffò spazientito e tirò fuori dal taschino un blocchetto blu. Echo sbarrò gli occhi e lasciò cadere la borsa sul sedile.
«Il biglietto c’era. Glielo giuro!» si affrettò a spiegare lei, spazientita.
«E io sono Babbo Natale»
In effetti, pensò James, le sembianze non erano poi così diverse. Scosse nuovamente la testa – cosa che aveva imparato a fare quando semplicemente non voleva ascoltare Brad o Tristan o Connor – e la sollevò dal finestrino; gli occhiali da sole a coprirgli le profonde borse sotto gli occhi.
«Fanno trentacinque euro» disse Joseph fiero di se’.
«Oh beh…» la voce di Echo era titubante, mentre la ragazza si infilava le mani nelle tasche per trovarle vuote.
La mano di James, che per qualche strano motivo sembrò muoversi da sola, come se fosse completamente scollegata al cervello, giunse fino alla tasca posteriore dei jeans e ne estrasse il portafogli di marca che i suoi genitori gli avevano regalato per i suoi vent’anni, estraendone due banconote da venti sterline. Non sapeva esattamente se la somma in sterline corrispondesse a quella in euro, ma non poteva fare altrimenti. Prima che potesse accorgersene, perciò, le stava già porgendo all’uomo che con sguardo incredulo – almeno tanto quanto lo era quello di Echo – fissava prima la mano e poi il viso del ragazzo. James scosse la mano guardando l’uomo.
«Avanti, li prenda!» disse sicuro.
«Non può pagare con quelli» balbettò Joseph.
James si strinse nelle spalle. «Beh è tutto ciò che ho»
Ed era vero: non aveva altro che qualche sterlina, nel portafogli. Le banconote ancora sventolavano fra le sue mani, quando Echo scosse la testa e si voltò verso l’uomo. Egli stava già accettando i soldi e li riponeva in uno strano marsupio che teneva bellamente stretto sotto la pancia trasbordante, creando così una strana arricciatura sulla camicia bianca. Quando si allontanò – accompagnando la sua uscita di scena portandosi l’indice e il medio alla fronte – Echo si rovesciò letteralmente sulla poltroncina con la schiena ricurva e le gambe distese, come se tutta quell’attività l’avesse sfiancata. James la guardò perplesso aggiustarsi i lunghi capelli bruni in uno chignon improvvisato e disordinato che le lasciava alcune ciocche ribelli ad incorniciarle il volto. Poi lei si rivolse a guardare il ragazzo con quegli occhi verdi e vitrei che non lasciavano trasparire altra emozione se non un velato rimprovero.
«Non avevo affatto bisogno che tu pagassi la multa per me!» gridò, quindi. Fortunatamente nella carrozza erano soli.
James si tolse gli occhiali da sole per guardarla negli occhi.
«A me sembrava di sì. E comunque tu hai pagato i nostri biglietti, quindi direi che siamo pari»
«Cosa? – strillò Echo – Davvero pensi che sia stata io a pagare i vostri biglietti?»
«Non è così?» balbettò James esitante.
Echo si lasciò scappare una risata, come se ciò che stava per dire fosse ovvio, e «certo che no!» esclamò.
James, quindi, si passò una mano fra i capelli già arruffati, sbuffò e si sporse in avanti incrociando le mani fra le ginocchia fino quasi a sfiorare quelle di lei coperte soltanto da un paio di calze nere. In quel momento in testa gli stavano rimbalzando talmente tante domande che faceva fatica persino a metterle in ordine logico. Si guardò intorno smarrito e tornò a fissare Echo che – come se avesse avuto un lampo di genio – si sporse verso di lui e recuperò la copia di 1984 che James teneva in grembo. Gli si era avvicinata così pericolosamente e velocemente che James non se ne era nemmeno reso conto per davvero. La ragazza vi infilò dentro un foglio scarabocchiato con quello che sembrava un ritratto; James non riuscì a capire bene di chi fosse, ma ricordava che la cameriera di Roma gli aveva detto che Echo era un’artista. Scosse la testa scacciando i pensieri e socchiuse gli occhi per evitare che il sole gli desse fastidio.
«Allora com’è che sei su questo treno con noi?» domandò in un sussurro.
Per un attimo Echo lo fissò con sguardo serio, poi sorrise e guardò fuori dal finestrino.
«È una storia troppo lunga, James. E non sono io che devo raccontartela»
C’era qualcosa, in quella voce, che spingeva una piccola parte di James a non fare più alcuna domanda. Ma l’altra parte di lui – quella più razionale e che moriva dalla voglia di capirci qualcosa – cercava disperatamente di aggrapparsi a qualunque informazione potesse ricondurlo ad un nome o ad un posto ben preciso; perché, nel profondo, James sapeva che Connor a Parigi non ce lo avrebbero trovato. Connor odiava la Francia.
«James – lo chiamò Echo – ma almeno mi stai ascoltando?»
Il ragazzo rimase a fissarle gli occhi per qualche secondo, poi le guardò le labbra che erano così carnose e rosa e leggermente screpolate per una ragione che in realtà non gli importava. Pensò a quanto avrebbe voluto sfiorarle con le sue in quel preciso istante, ma scosse nuovamente la testa. Era troppo presto. Ed Echo era anche più bella e fragile di quello che si era ritrovato a pensare.
Lei lo guardò sbuffando ed appoggiò stancamente le gambe sul davanzale del finestrino, stendendole per bene ed accavallandole.
«Dicevo – cominciò – che per una volta dovresti semplicemente fidarti di chi sa cosa sta facendo»
James aggrottò le sopracciglia; più passava il tempo e meno riusciva a capire di tutta quell’enorme faccenda.
«Che si fa una volta arrivati a Parigi?» domandò.
Echo scosse la testa e si strinse nelle spalle, un’abitudine che a James era molto nota. Avrebbe imparato a fare i conti con l’irritazione che deriva da quel minimo gesto. Si appoggiò nuovamente allo schienale del sedile e si rilassò, quando il suo telefono iniziò a squillare. Lo estrasse dalla tasca e se lo portò all’orecchio, mentre Echo lo fissava con occhi incuriositi. In realtà tutto ciò che riuscì a sentire fu: “Sì, mamma. Sto bene. Ci sentiamo presto. Sì. Ho capito. Ti voglio bene.”
Sorrise. Era molto tempo che non sentiva un ragazzo dire “ti voglio bene” a sua madre. In realtà era molto tempo che lei non diceva quella parola a sua madre. Per un attimo ripensò a Simon e a quanto avrebbe voluto averlo lì con lei. Era l’unica persona con la quale riuscisse a parlare di qualunque cosa e il fatto di non avergli detto dove sarebbe andata le faceva venir voglia di prendere il telefono e dirglielo. James ripose il cellulare nella tasca anteriore dei jeans.
«Perché leggi quella roba?» chiese, dunque.
Ed Echo vide che con il capo stava indicando il libro di poesie che aveva quando era arrivata.
«Mi piace la poesia americana del novecento. Ti crea qualche problema?»
«Cosa? Problemi? No!» James strinse le mani a pugno. Cosa diavolo c’era che non andava con lui? Perché riusciva sempre ad essere un cretino? Scosse la testa. Avrebbe dovuto dire qualcosa di intelligente, ma proprio non gli veniva in mente nulla. Tutte le lezioni extra-scolastiche di letteratura non erano servite assolutamente a nulla.
«Allora?» la voce di Echo non era alterata, ne’ lasciava trasparire alcuna irritazione. Era solo curiosa.
«Forse dovresti provare a leggere Frost» disse James timidamente, come se quella fosse la cosa più brillante alla quale la sua mente potesse avvicinarsi. Si schiaffeggiò mentalmente da solo. Non era così che avrebbe dovuto consigliare ad una bella ragazza di leggere il suo autore preferito.
Echo sorrise e per un attimo spostò il suo sguardo su quello di James. I suoi occhi erano attraenti come delle calamite e per un secondo Echo vi si sentì incatenata. Ancora una volta le era impossibile non confrontare James con tutti gli altri ragazzi con i quali aveva avuto a che fare; lui era così diverso. Ci pensò un attimo e si stupì di quanto James McVey fosse Neil Perry.
 
Brad era immobile sul sedile del treno da circa dieci minuti. Le parole della lettera ancora gli frullavano nella testa come se ce le avesse impresse a fuoco e Lucinda lo fissava con uno sguardo che lasciava trasparire irritazione. Lei volse lo sguardo dall’altra parte e fissò un bambino che beveva un succo di frutta. Sorrise; era così carino. Ripensò a casa, alla voglia che aveva di starsene da sola per un po’, lontana da tutta quella storia. Poi scosse la testa e tornò a guardare Brad, domandandosi per un momento perché la stesse fissando con quello sguardo assorto. In realtà Brad stava soltanto fissandosi in testa ogni minimo dettaglio del viso di Lucinda; non che ne fosse particolarmente attratto, in un primo momento. Solo che gli piaceva catturare i particolari di ogni volto per poi ricollegarli insieme in caso lo avesse rivisto. Per qualche strano motivo, però, Brad aveva la strana sensazione che avrebbe rivisto Lucinda per molto tempo; e non sapeva se essere felice o spaventato per questo.
Tirò su con il naso e si grattò una guancia, abitudine con la quale aveva imparato a fare i conti circa all’età di sette anni.
«Perché sei qui?» domandò incerto.
Lucinda sembrò risvegliarsi da uno stato di trance e scosse la testa, spaventata persino da se stessa perché era rimasta a fissarlo per troppo tempo.
«Mi è stato detto di farlo» ribatté lei secca.
«E di solito fai tutto ciò che ti viene detto?»
Lucinda spalancò gli occhi. Poteva essere provocatoria e presuntuosa quanto voleva, ma Brad lo era più di lei, in un modo o nell’altro. Alzò il mento e socchiuse gli occhi, incrociando le braccia sotto al seno. Ora i due stavano sedendo uno di fronte all’altra e la luce del sole del tardo pomeriggio che entrava dal finestrino illuminava la testa di Brad come se fosse un’aureola, facendo sembrare il suo cespuglio di capelli un semplice groviglio di fili neri.
Lucinda stava per ribattere quando il loro scontro silenzioso fu interrotto da un colpo di tosse proveniente da Tristan. Lucinda squadrò il ragazzo da capo a piedi e osservò la sua reazione. Sembrava  sorpreso, ma aveva un sorriso ebete stampato in faccia che le dava sui nervi. Doveva essere uno degli amici di Brad. Infatti la avevano avvisata che insieme con lui ci sarebbero stati altri due ragazzi. Doveva soltanto cercare di capire chi dei due fosse. Aveva visto anche delle loro foto, ma non riusciva  proprio a ricordare  se quel viso squadrato appartenesse a Tristan o a James. Brad, d’altro canto, si era tirato indietro sul suo sedile fino a schiacciarsi completamente sullo schienale. Sembrava come se tra lui e il nuovo arrivato ci fosse stato uno scambio di battute telepatiche perché Brad rispose con uno scuotimento del capo all’amico che aveva alzato il sopracciglio destro come per porgere una domanda silenziosa.
«Brad, chi è la tua amica?»
Brad tornò di nuovo a grattarsi la guancia e guardò Lucinda senza proferire parola.
«Sono Lucinda, ma non sono sua amica. Gli ho solamente portato la lettera»
Tanto valeva mettere subito le cose in chiaro. Lucinda sapeva perfettamente che tutti loro avevano già ricevuto una lettera, perciò sperava che una volta appresa la sua identità il ragazzo l’avrebbe in qualche modo congedata. Invece lui si accomodò con un balzo sulle ginocchia di Brad con tutta l’intenzione di voler fare conversazione.
«Quindi tu sei un'altra messaggera! Io sono Tristan, piacere!»
Tristan porse la mano a Lucinda che la strinse un po' titubante. Brad voleva scrollarsi di dosso Tristan e inoltre non riusciva a capire come egli potesse prendere così alla leggera tutti gli avvenimenti. In fondo il loro migliore amico era scomparso e delle ragazze con delle lettere continuavano a spuntare come funghi. Tristan invece sorrideva come un bambino, ma almeno stava cercando di estorcere delle informazioni a Lucinda. Forse estorcere non è il termine adatto. Subito dopo essersi presentato Tristan aveva iniziato a tempestare di domande la ragazza e ormai la cosa andava avanti da almeno cinque minuti. Lucinda rispondeva sempre con dei mormorii e aveva iniziato a balbettare. Brad pensò che evidentemente non era abituata ad essere al centro dell'attenzione in quel modo, e probabilmente non poteva o non voleva rivelare quello che sapeva. Brad provò un'improvvisa compassione per lei. Mentre Tristan continuava a parlare, Brad lo spintonò con forza facendolo alzare. Allora si era messo in piedi a sua volta e davanti allo sguardo confuso e scocciato dell'amico aveva preso per mano Lucinda e l'aveva trascinata verso l'ingresso dell'altra carrozza. Lucinda si era lasciata guidare senza dire una sola parola. Proseguirono quasi correndo fino alla carrozza ristornate. Una volta fermi Lucinda aveva staccato la sua mano da quella di Brad con rabbia.
«Mi spieghi cosa ti è preso?!»
«Non c'è bisogno di agitarsi! Volevo soltanto evitare ad entrambi una situazione imbarazzante. Non mi sembrava ti piacesse molto essere sottoposta ad un interrogatorio»
«Me la cavavo benissimo da sola. Non mi serve il tuo aiuto»
Brad la osservò con attenzione soffermandosi sulle sue labbra serrate in una smorfia nonostante il labbro inferiore le tremasse un po'. Brad credette anche di vedere i suoi occhi farsi lucidi quando lei si voltò per tornare indietro.
“Invece qualcuno crede che ti serva e, a quanto pare, quel qualcuno ha ragione.” Brad pensò tra sé tornando sui suoi passi tenendosi comunque a distanza da Lucinda.
 
Tristan si era perso. Aveva lasciato l’albergo circa venti minuti prima per tornare in stazione e recuperare l’iPhone che aveva perso pensando che gli fosse scivolato dalla tasca dei jeans mentre camminava in mezzo alla folla di persone. Purtroppo per lui, però, del suo telefono non vi era più traccia alcuna; avrebbe dovuto aspettarselo. Quindi, nel viaggio di ritorno a L'hôtel Particulier, aveva già passeggiato per venti lunghi e noiosi minuti intorno ad un insieme di palazzi dall’aria molto antica, senza sapere esattamente dove stesse andando. Era a Parigi, questo era sicuro. Era anche sicuro, però, che non si trovasse neanche lontanamente vicino alla via del suo albergo: lì gli edifici erano molto più particolari ed appariscenti di quelli, con colori sgargianti e finestre enormi. Tristan si fermò a riflettere su cosa stesse facendo e si appoggiò al muro di un palazzo di mattoni. Fortunatamente le temperature erano nettamente più basse di quelle italiane e Tristan in quel momento – con una felpa addosso – non soffriva il caldo neanche un po’. Per un attimo gli venne in mente l’idea di affidarsi al GPS del telefono, ma poi si rese conto che era proprio perché aveva perso il cellulare che si ritrovava in quella spiacevole situazione. Scosse la testa e si passò una mano fra i capelli disordinati e un po’ troppo lunghi; li avrebbe tagliati a breve, si decise. Non aveva portato un orologio da polso, ma poteva dedurre che fossero più o meno le quattro del pomeriggio e, considerando che l’hotel non era particolarmente distante dalla stazione, se si fosse incamminato in quel momento sarebbe arrivato alla stanza entro mezz’ora. Il problema era capire in che direzione andare. Per un attimo pensò anche di chiedere a qualche passante, ma innanzitutto non ricordava la via dell’albergo e poi non sapeva spiccicare nemmeno una parola in francese e dubitava che gli anziani parigini capissero l’inglese alla perfezione. Sospirò e calciò un sassolino davanti a lui. Poi gli venne in mente l’unica idea che forse era quella buona: entrare una cabina telefonica e chiamare da lì. Dato che nei dintorni non sembravano essercene, girovagò per qualche minuti nella via adiacente, fino a trovarsi davanti ad una cabina dall’aspetto molto antico ma molto curato. Tristan entrò; all’interno faceva molto più caldo di quanto ne facesse fuori, ragion per cui si tirò su le maniche della felpa fin sopra i gomiti.
Inserì qualche moneta che aveva in tasca – fortunatamente il cameriere sul treno gli aveva dato il resto della sua consumazione in euro – e compose alla svelta il numero del cellulare di James perché sapeva che era di gran lunga più affidabile di Brad e che avrebbe sicuramente risposto.
«Pronto?» chiese la voce dell’amico dopo qualche secondo.
«James, sono Tris»
L’amico controllò alla svelta il display del telefono per assicurarsi di chi fosse il numero, poi se lo portò nuovamente all’orecchio e con voce confusa domandò: «da dove stai chiamando, scusa?»
Tristan sospirò e si passò il dorso della mano sulla fronte.
«È una lunga storia. Mi sono perso. Venite a prendermi»
James sentiva la palpabile tensione nella voce dell’amico, ma nonostante ciò non perse la calma. Si limitò a pensare che da quando erano partiti non gliene era andata bene nemmeno una. Chiuse per un secondo gli occhi ed espirò.
«Va bene, dove sei?»
«Qui c’è scritto Rue Emile Gilbert» pronunciò Tristan con una pessima pronuncia francese. James sorrise.
«Ok, non ti muovere»
Tristan chiuse la chiamata appena in tempo prima che il traffico dato dal denaro che aveva inserito si esaurisse. Per un attimo si tranquillizzò; i suoi amici sarebbero andati a prenderlo da un momento all’altro. Tristan non era mai stato uno che si faceva prendere dal panico, – come invece lo era James – ma ritrovarsi in un posto sconosciuto, con persone sconosciute e per una ragione sconosciuta non era di certo una situazione che lo rassicurasse. Prima di uscire dalla cabina si appoggiò contro lo sportello di vetro e chinò la testa all’indietro. Vide, allora, un foglio di carta incastrato tra un pezzo di metallo e l’altro; prima che potesse accorgersene, l’aveva già preso e le sue mani lo stavano spiegando per leggerne il contenuto. Sapeva che non era una cosa da fare, molto probabilmente chi aveva lasciato quel biglietto voleva che il destinatario lo leggesse; ma la curiosità aveva avuto la meglio sulla sua parte razionale. Sul foglio a righe c’era scritto, con una calligrafia ordinata e corsiva:
A Tristan. Port de la Conférence. Ore 21.00
Tristan sbiancò.


Note delle autrici:
saaaaaalve!!!!! Scusate l'attesa per questo capitolo, ma abbiamo avuto un sacco da fare con la scuola e bla, bla, bla... come al solito. DUNQUE: per ora non ci sono altri nuovi personaggi, ma da quello che avrete intuito (speriamo) si capisce che nel prossimo capitolo succederà qualcos'altro di misterioso (DAN DAN DAN). Ovviamente non vi diciamo nulla perché no spoilers etc etc. Comunque speriamo che vi sia piaciuta questa parte anche se è un po' un capitolo di transizione. Speriamo anche di sentirvi presto, magari in qualche recensione.. A presto :)
  
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