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Autore: Birdcage D Swan    26/10/2014    5 recensioni
«Ha mai sentito parlare di Lightning L-Drago?» Il suo sguardo sembrò illuminarsi.
«Ehm…più o meno.»
«Mi dica tutto ciò che sa su quel bey.»
Vi giuro, non ho mentito. Sapevo perfettamente di cosa stesse parlando…quasi.
«Dunque, è un bey proveniente…dalla costellazione…del Drago.» “You don’t say, Paschendale?”.

[…]
Affilati, circondati da folte ciglia nere.
Quelle iridi ristrette, all’interno delle cornee bianche, gli conferivano un aspetto spaventoso, quasi assatanato.
Quelle iridi dello stesso colore dell’oro, il più brillante esistente.
Tutto ciò che mi rendesse umana, ogni idea, paura, sentimento. Tutto svanì.
In quello sguardo, appena accennato.
Erano gli occhi più terrificanti e incantevoli in cui mi fossi mai specchiata.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Ryuga, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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XXII
𝔘𝔬𝔪𝔬 𝔡𝔦 𝔡𝔬𝔩𝔬𝔯𝔦
"Release the wave
Let it wash over me"
 
«Che stavi facendo?» Aveva una voce calma, roca per la veglia del tutto inaspettata.
“Che sto facendo io? Che stai facendo tu, piuttosto!” avrei voluto urlargli. Mi ero solamente accoccolata a lui, alla ricerca di un po’ di conforto, ma mai avrei immaginato tanta ostilità. Quell’atteggiamento improvviso trascinò i miei pensieri giù, nel profondo di un abisso in cui non mi ero mai imbattuta.
«Volevo…» bisbigliai. Le sue mani mi spingevano contro il materasso, il peso del suo sguardo mi condannava all’oblio più buio. «Volevo…del conforto.»
Nonostante la mia voce flebile, talmente flebile da essere a malapena udibile da me stessa, lo spaventai. Ebbene sì, glielo lessi in volto. Per la prima volta da quando lo conobbi, notai una paura chiara e distinta nei suoi occhi.
Si allontanò, si sedette sul letto e mi diede le spalle. A differenza sua, non riuscivo a fare proprio un bel niente. Fissavo il soffitto, le gambe tese e le braccia lungo i fianchi. La mente era svuotata, totalmente. Ero tanto spaventata da rifiutarmi di pensare. Riecco quella sensazione, quel sentimento che credevo aver ormai abbandonato. Mi sembrò di regredire alla prima volta che c’eravamo visti. I miei “progressi” nei confronti di Ryuga erano svaniti in seguito a quell’occhiata minacciosa. Un’occhiata tale che per un po’ credetti potesse trapassarmi il cranio e navigare nella mia mente; proprio per questo, smisi di pensare.
Chissà per quanto rimasi lì immobile. Ricordo solo che bastò una semplice parola a ridestarmi.
«Vattene» pronunciò con voce cavernosa.
Una manciata di secondi passò, il tempo necessario per far assumere al mio corpo un minimo di reattività. Appoggiai il peso sui gomiti, finché non mi ritrovai seduta.
Perché voleva che me ne andassi? Cosa gli avevo mai fatto? Peccato però che non riuscii a chiederglielo.
«Ryuga, io…»
«Vattene, se ‘sta notte vuoi dormire.»
Soffocai un singhiozzo non causato, purtroppo, dalle vicende di quel pomeriggio.
Con movimenti lenti e tremolanti mi alzai dal letto e mi ripresi le chiavi lasciate sul comodino.
Ero certa che Ryuga mi avrebbe voluto fuori dalla stanza nel giro di pochi secondi, ma a causa della stanchezza e, soprattutto, della situazione, mi era del tutto impossibile andare più in fretta.
Dopo chissà quanti passi, raggiunsi l’uscita e lo lasciai da solo, nell’oscurità di quella camera.
 
 
Come dice il proverbio: “La notte porta consiglio”.
Non so spiegarmi il perché, ma la mattina seguente fu diverso. Molto diverso.
Riuscii a dormire profondamente, senza incubi o strane visioni delle spiacevoli vicende trascorse. Quando mi svegliai, in me non vi era alcun sentimento d’odio o tristezza, ma unicamente un temperamento tiepido e incurante nei confronti di ogni cosa.
Che fosse stato tutto un sogno? No, impossibile! La mia mente non era solita cadere in tali cliché.
Dopo essermi preparata, mi recai in mensa.
Sorseggiavo il caffè-latte con una lentezza esasperante. Ero immersa in una sorta di coma mattutino, spiegabile forse grazie al sonno un po’ troppo breve – cosa che ormai si ripeteva già da alcune notti. Non ricordo nemmeno se qualcuno mi avesse rivolto la parola quella mattina, ma tanto, anche se fosse successo, non avrei avuto la momentanea facoltà di rispondere o reagire.
 
Una volta terminata la colazione, decisi di recarmi nuovamente in camera mia con l’intenzione di recuperare il sonno perso. Come spesso accadeva in quei giorni, non avevo molti impegni in fatto di allenamenti, fatta differenza per un breve test clinico nel pomeriggio – almeno, così ero stata informata.
Camminai lungo il corridoio, un po’ intontita, la mente svuotata.
Poi…un presentimento. Ero già stata in quel corridoio giorni prima. Ebbi tale deja vu nel passar di fronte a una diramazione di quel passaggio poco illuminato.
“La palestra” mi ricordai.
Vi era la luce accesa che poteva significare una sola cosa.
Non ci pensai due volte (anche se per me pensare il quel momento era gran cosa) e mi avviai.
Sì, era giusto: era proprio la palestra ed era esattamente come me la ricordavo, con la differenza che Ryuga stava facendo i pesi.
Sembrava non essersi minimamente accorto della mia presenza all’entrata di quella stanza, ma sicuramente, data la sua reattività proverbiale, era del tutto probabile mi stesse semplicemente ignorando, come suo solito.
Lo osservai; più lo facevo, più un sentimento in me cresceva. All’intorpidimento del mio cervello, si aggiunse un nodo all’altezza dello stomaco, la vista sfocata che aumentò.
«Non ti dispiace neanche un po’?» Proprio non riuscii a stare zitta.
«Per cosa?» rispose mantenendo lo sguardo basso, concentrato sull’allenamento.
«Per avermi tratta in quel modo.»
«No» affermò in tono chiaro e tondo, senza un minimo d’esitazione.
«Lo sai che ieri era il mio compleanno?» Incrociai le braccia. Mi appoggiai allo stipite della porta. Tentai di non essere scossa da tali parole, anche se nel profondo lo ero. «Sono stata costretta a festeggiarlo da sola, e adesso ti unisci anche tu a spingere il mio morale sotto le scarpe.»
Sperai nello sfizio di strappargli un’espressione compassionevole, invece fuoriuscì una risatina divertita.
«Almeno tu hai un compleanno, io non so nemmeno quando sono nato» Si alzò dalla panca, prese l’asciugamano e si asciugò il sudore dal viso. «E se anche lo sapessi, non avrei nessuno con cui festeggiarlo.»
E così, tutte le mie speranze svanirono. Appena avevo iniziato quella conversazione, ero sicura di abbattere quel suo fastidioso atteggiamento arrogante e di farlo sentire in colpa. Ma non fu così, anzi, accadde il contrario.
Il colpo di grazia arrivò nel momento in cui afferrò il pacchetto di sigarette che aveva appoggiato sul davanzale di una piccola finestra. Portò quell’oggetto cancerogeno di carta, catrame e tabacco alle labbra. All’altra estremità avvicinò la fiamma scaturita dall’accendino e inspirò profondamente.
Rimasi basita. Per un ragazzo che faceva tutta quell’attività fisica, il fumo era senz’ombra di dubbio il suo peggior nemico.
«Non dovresti fumare, fa male alla salute» mi limitai a dire.
E poi, una risposta inaspettata, più agghiacciante della precedente.
«Feh! È dura tirare avanti quando il tuo organismo non può nutrirsi.»
Non sapeva quand’era nato.
Il suo organismo non accettava la presenza di cibo.
Si nutriva solo di fumo e farmaci.
Passava le giornate ad allenarsi.
La sua mente era concentrata su un’unica cosa: Lightning L-Drago. Avrebbe fatto di tutto per quella trottola di metallo, persino rinunciare a quel poco che gli restava di umano.
A una persona normale avrei potuto dire: “Sei pazzo? Non puoi vivere così! Puoi fare scelte migliori. Stare a contatto con altre persone, allenarti in modo sano, mangiare, bere, studiare cose nuove. Ti insegnerò io! Ti aiuterei io!”
Parole vuote. Tutte parole vuote.
Solitamente bisogna lottare per vincere, ma in tali condizioni, ogni partita sarebbe stata persa. Non avrebbe mai compreso una vita normale e il modo in cui gestirla.
Era condannato a quell’esistenza, che però non sembrava turbargli.
Non sarebbe stato incuriosito da nulla di diverso rispetto alla sua classica routine.
Era come un pesce rosso, abituato alla solitudine, che ne attacca un altro quando si trovano nella stessa boccia.
Io e la normalità del mondo eravamo il pesce nuovo, e Ryuga ci avrebbe rifiutati entrambi.
«Che cosa volevi?» domandò nel notare la mia continua presenza, nonostante il lungo silenzio trascorso dall’ultimo dialogo.
«Sto cercando di capire» risposi e mossi un passo nella sua direzione.
«Capire cosa?» domandò in parte incuriosito, in parte divertito.
«Se mi capiterà lo stesso» Tirai fuori una lingua biforcuta che nemmeno sapevo di avere. La compassione da me provata sparì, nascondendosi chissà dove, probabilmente tramutatosi in nervosismo e voglia di suonargliele con le parole. «Se anch’io perderò la mia umanità solo per lanciare una trottola un po’ più forte delle altre. Perdere la conoscenza di me stessa, la necessità di mangiare e tutti coloro a cui ho voluto bene. E, nel caso accadrà davvero, se ne sarà valsa la pena. Perché notando la tua arroganza e il tuo egocentrismo, credo che nemmeno il più grande premio al mondo possa ripagare una vuotezza simile.»
Non me ne pentii, nemmeno per un secondo. Quello che dissi era anche ciò che pensavo. Avrebbe potuto farmi qualsiasi cosa, ma mai avrei negato quelle parole. Mai al mondo.
Neppure quando mi afferrò la collottola e mi spinse contro il muro. Il forte colpo al naso mi fece lacrimare gli occhi, ma mi costrinsi a non piangere, a non cadere e a non soffrire.
Mi guardava con occhio truce. Sostenetti il suo sguardo, lo sguardo più minaccioso con cui mi avesse mai guardato. Purtroppo o per fortuna, il sangue che mi colava dal sopracciglio mi appannò la vista e aiutò a non sentirmi ancora più spaventata.
La sua mano premette alla base del mio collo e mi spinse contro la parete. Annaspavo, ma tentavo in tutti i modi di nascondere la mia ricerca d’aria – non doveva capire che mi faceva paura.
La tipica frase “Gli uomini non si devono azzardare a toccare una donna” in quel frangente non sarebbe servita a nulla. Ryuga non era più un umano. O forse, non lo era neanche mai stato.
La sua mano si spostò a sinistra fino a raggiungere la clavicola. La ferita sanguinava. Solo in quell’istante percepii un forte bruciore in quel punto preciso, non causato dal pericoloso impatto con il muro.
Un denso fumo grigio m’inondò il volto. In parte scese nella gola, bruciandola.
Spostai gli occhi dalla clavicola a quelle pozze dorate, ora calme e fiere, ed ecco raggiungermi un’altra boccata di fumo.
«Va’ ad allenarti, ragazzina» Mi spinse via. Non caddi, però barcollai.
Come se non fosse accaduto nulla, tornò ai suoi pesi, dopo aver buttato la cicca a terra.
 
La luce blu riusciva a filtrare addirittura oltre gli occhi chiusi, incredibilmente fastidiosa. Doji aveva detto di rilassarmi e, se ci riuscivo, provare a dormire, ma nonostante tutto quel sonno arretrato, la situazione rendeva impossibili entrambe le cose.
«Ti farà un po’ male…» disse il Presidente di Nebula Oscura. Non bastò nemmeno un secondo che una forte fitta colpì le braccia. Serrai palpebre e labbra in seguito a quel dolore pungente.
«Abbiamo quasi finito.»
Fu inutile opporre resistenza ai lacci che mi stringevano gli arti superiori.
«Ecco fatto.»
Riaprii gli occhi. Sia la luce che i dolori erano cessati. La parte superiore della capsula che mi conteneva si riaprì, lasciandomi respirare aria pulita.
Una volta seduta, osservai le braccia all’altezza del gomito: vi era un cerotto su entrambe.
«Cos’hai fatto?» domandai a Doji, occupato a rimettere a posto gli oggetti utilizzati.
«Ho prelevato tre provette di sangue dal sinistro per controllare i valori dell’organismo. Mentre nel destro ho iniettato un siero, affinché tu possa fronteggiare al meglio i prossimi test.»
«Gli stessi sieri che assume Ryuga?»
Nelle sue iridi violacee apparve un lampo d’interesse, che poi divenne derisione. «Mpf! Tu e Ryuga siete su piani completamente diversi. Se assumessi uno dei suoi sieri, andresti sicuramente in overdose.»
“Overdose? È così lontano da essere un umano?” pensai.
«In che cosa consistono i suoi farmaci?»
Doji accennò un sorriso, dopodiché parlò. «È necessaria una certa compatibilità tra un beyblade oscuro e il suo blader. Ryuga non ha mai posseduto un bey, al contrario di te, Paschendale. Ciò ti avvantaggia molto a livello di compatibilità, mentre Ryuga ti supera certamente in forza e strategia.
«Il processo per aumentare la compatibilità di un individuo è piuttosto lento, per questo deve essere avviato alla nascita del diretto interessato, affinché diventi un blader perfetto, ma rinunciando ad alcune caratteristiche tipicamente umane.»
«E riguardo a me…» chiesi in tono duro nel rialzarmi dalla mia postazione.
Doji assunse nuovamente quell’espressione intermedia tra il sorpreso e l’interrogativo. «Non ti seguo.»
«Cambierà qualcosa all’interno del mio corpo?»
Le sue labbra si arcuarono in un sorriso di commiserazione. «Te l’ho già spiegato a cosa servono questi test: devi fronteggiare alcuni esperimenti. Il siero che ti è stato immesso è comunque molto potente; essendo la prima iniezione, il tuo organismo si dovrà abituare al suo effetto, quindi ti verrà una febbre piuttosto alta a breve.»
«Tutto qui?» Feci spallucce, disinteressata al pensiero della febbre.
«Credimi, non sarà una semplice febbre a 38.»
Senza dire una parola, e con ancora troppe poche risposte, mi avvicinai all’uscita, pronta per dirigermi in camera e attendere la febbre.
«Paschendale?» mi chiamò nuovamente.
Mi bloccai sulla porta, in attesa.
«Se pensi di intralciare gli allenamenti di Ryuga facendolo riavvicinare al suo originario status di essere umano, sappi che è solo tempo sprecato.»
Completamente. Il suo tono di voce cambiò completamente. Era duro, intimidatorio. Il suo sguardo severo e lievemente agitato. Tentai di imitarlo, nonostante non avessi nulla da difendere, quando una goccia di sudore, scivolando dalla fronte, tradì la mia calma. Un improvviso cerchio alla testa attanagliò il cranio, la vista s’offuscò e una vampata avvolse il mio corpo.
 
Anche la maglietta, come quasi tutti gli indumenti che indossavo, venne buttata con noncuranza sul pavimento della mia stanza.
Non ero nella posizione più aggraziata del mondo: braccia buttate sopra la testa e gambe ampliamente divaricate; occupavo tutta la superficie del letto matrimoniale.
Le coperte stavano diventando appiccicose a causa di tutto il sudore che versavo.
Il caldo soffocante mi costringeva a respirare talmente forte e talmente profondamente che, molto probabilmente, ero udibile persino da lontano.
Mi sarei tolta anche la biancheria intima se fosse servito a qualcosa.
Dio mio! Era da secoli che non avevo la febbre, e mai nella vita era stata così alta. Sapevo di dovermela misurare e prendere delle medicine, ma non avevo nessuna voglia di alzarmi. Stesso discorso quando qualcuno cominciò a bussare alla porta. Inizialmente tentai d’ignorare quel suono incredibilmente fastidioso, peccato che poi dovetti cedere, soprattutto a causa del mio odio verso i suoni che si ripetono, come lo squillo del telefono, campanelli, allarmi e tonfi alle porte.
Infilai la vestaglia lasciata sulla sedia e mia avvicinai alla porta con tutta la calma del mondo.
Ryuga sembrava impaziente. Non so dire se fosse l’unica oppure l’ultima persona che volevo vedere in quel momento. Al contrario, ero certa di avere un aspetto orribile – nonostante non me fregasse un tubo –, cosa che lo fece sorridere.
«Non mi aspettavo ti venisse la febbre» affermò incuriosito. Non gli risposi, cosa avrei mai dovuto dirgli? Quel poco che avevo aperto lo diminuii ancora di più con un gesto veloce, finché un ostacolo non impedì la chiusura della porta, facendola spalancare inaspettatamente. Il contraccolpo mi fece letteralmente volare a terra. Battei forte testa e sedere sul pavimento.
«Che diavolo vuoi da me?» gli urlai contro sollevandomi sulle braccia, piena di rabbia.
Girò la chiave, la mise in tasca.
«Ti aspetto in bagno.»
Il mio sguardo minaccioso lo seguì finché non girò l’angolo.
Sbuffando mi tirai su dal pavimento, irritata.
 
«Vai sotto la doccia» affermò deciso senza nemmeno aspettare che entrassi in bagno.
Logicamente, mi domandavo il perché delle sue richieste senza senso e del suo comportamento sempre più scorbutico. Avrei voluto urlargli un bel “No!”, ma appena aprii la bocca, m’inquadrò con i suoi occhi severi, costringendomi involontariamente alla più totale obbedienza.
Su di lui mantenni uno sguardo minaccioso, le braccia incrociate. Con passo lento lo superai, mi sedetti sul piatto della doccia e aspettai che il getto mi colpisse.
«Di solito la doccia la fai da vestita?» domandò sarcastico.
Avevo la vestaglia ancora addosso. Il togliermela mi avrebbe fatto sentire vulnerabile e piena di vergogna, ma non avevo scelta; almeno sotto quell’indumento mi era rimasta la biancheria intima. Nello sfilarmi la vestaglia, avvicinai il più possibile le ginocchia al petto nel tentativo di coprirmi il più possibile. La gettai noncurante lontano da me con un gesto secco.
Abbracciai le ginocchia e vi nascosi il volto. Strinsi le gambe e avvicinai le caviglie tra loro.
Il freddo mi colpì la nuca, per poi scivolare lungo la schiena, il collo, lo stomaco, le gambe. Sollevai il capo e spostai i capelli dal viso.
«Resta lì per un quarto d’ora. A quel punto la febbre dovrebbe essersi abbassata.»
Il muro d’acqua davanti agli occhi rendeva le immagini sfarfallanti, ma riuscii a vedere Ryuga spostarsi verso la porta.
«A… Aspetta!» bisbigliai. «Non andare via, per favore.»
Un bel gesto, causato chissà da che cosa, dopo tutto il tempo che mi aveva maltrattata. Accidenti a me! Gli bastava un qual si voglia gesto gentile, anche non nei miei confronti, per rivalutarlo del tutto e desiderare con tutta me stessa di riaverlo al mio fianco.
Mi chinai in avanti per allontanare il viso dal getto d’acqua e con una mano asciugai gli occhi. Lo vedevo molto meglio: fermo in piedi davanti all’uscita. Sembrava teso, tremante. Strinse entrambi i pugni, lentamente e forse con un pizzico d’incertezza. Al suono scrosciante dell’acqua, si unirono i suoi sospiri, profondi e agitati. Con poche falcate fu alla mia sinistra, la schiena appoggiata al muro, lo sguardo perso nel vuoto, il sudore dalla fronte e i muscoli tesi come corde di violino. Capii subito la somiglianza tra quel preciso istante e la scorsa notte, e come se non bastasse anche la situazione era simile: io che dimostravo di tenere a lui.
S’infilò le mani in tasca. Dopo alcuni movimenti velocizzati da una buona dose d’agitazione – scaturita da chissà che cosa ­– tirò fuori un flaconcino di vetro arancione. Mentre ne svitava il tappo bianco, si sentiva un ticchettio, come tanti sassolini. Rovesciò parte del contenuto in una mano, il cui palmo colpì la bocca aperta, seguito da una veloce alzata di testa. Deglutì.
Dopo pochi istanti, il tremito cessò, così come il sudore e la tensione. Estrasse dalla tasca accendino e sigarette.
Perché si comportava in quel modo? Perché ogni volta che gli facevo una richiesta, sembrava sul punto di morire? La mia curiosità per quei suoi comportamenti era oltre l’immaginabile, ma non trovavo ancora il coraggio di domandarglielo.
«Non credo sia il metodo più convenzionale per far passare la febbre» chiesi nel tentativo di avviare una conversazione.
Espirò un denso fumo grigio. «Semplicemente perché non è una febbre comune.»
«Come facevi a sapere che…» “Che non stavo bene?” avrei voluto concludere la frase.
«Doji mi ha ordinato di tenerti d’occhio finché non ti saresti sentita meglio. Sono stato costretto, altrimenti avrebbe alterato il mio programma di allenamento in modo a me non congeniale.»
Avvertii nel suo tono di voce una nota di disprezzo. Per Ryuga, gli allenamenti erano qualcosa di fondamentale. Il fatto che mi odiasse era più che logico.
«Quello era il tuo pranzo?» domandai con leggera ironia, riferendomi ai farmaci ingeriti.
«No» rispose impassibile. «Per quello bastano le sigarette.»
Espirò nuovamente, fissando un punto impreciso davanti a lui.
Feci spallucce. «Allora cos’erano?»
Quando i suoi occhi incontrarono in miei, mi pentii per la mia sfacciataggine.
Perché diavolo continuavo ad essere così invadente?
«Lo vuoi davvero sapere?».
Sul suo viso apparve un’espressione di sfida che non serbava niente di buono, ma non esitai ad annuire.
«Sono poche le emozioni compatibili con L-Drago: odio, rabbia, orgoglio, sicurezza. Tutto ciò che vi si allontana, non fa altro che rallentare il mio processo d’allenamento…e deve stare alla larga dal mio sistema limbico*.»
Le sue parole mi fecero rabbrividire più della febbre e dell’acqua.
La sua incapacità di nutrirsi erano il minimo.
La sua incredibile forza non era nulla.
Aveva perso tutto, tutto ciò che poteva esistere in un essere umano.
Continuai a osservare quel contenitore indistruttibile, riempito solamente con orgoglio e rabbia.
Deglutii, indecisa se fargli anche poche delle centinaia di domande che avevo in mente.
«Da quanto tempo sei così?»
«Da sempre.»
Proprio come immaginavo. Probabilmente l’avevano riempito di farmaci fin da quando era entrato in quella maledetta organizzazione.
Tuttavia, quelle sue improvvise paure: quando l’avevo abbracciato, oppure un attimo prima, quando desideravo che restasse con me finché non mi sarei sentita meglio. Erano scaturite dal timore di sentirsi umano, anche sono per poco tempo.
«Ma… Quella volta che mi hai dato la tua giacca…quella…quella volta all’oasi…» Le rare, rarissime volte che era stato gentile con me, le stesse in cui mi sentivo fortunata, felice che lui mi trattasse così.
«Assumevo una dose troppo bassa. Costrinsi i medici ad aumentarne i valori.»
Ecco il perché del suo allontanamento. Del suo atteggiamento violento nella palestra. Della durezza delle sue parole giorno dopo giorno.
Abbassai il capo, nascondendolo nuovamente in mezzo alle ginocchia. Avrei voluto piangere mentre mi davo dell’illusa, mentre mi promettevo che non avrei mai e poi mai desiderato qualcosa in vita mia. Rimasi sospesa in quel momento, nei miei pensieri e nei miei dolori, quando l’acqua cessò di cadere. La forte calura provocata dalla febbre sembrava essere scomparsa; almeno quella era l’unica cosa positiva che provavo.
Alzai il capo appena, gli occhi che affioravano sopra le ginocchia. Il viso di Ryuga era a una ventina di centimetri dal mio, impassibile, come al solito.
«Fammi indovinare…» bisbigliò. Allungò una mano versa la mia clavicola sinistra e l’appoggiò sulla ferita. Feci un’inoccultabile smorfia di dolore.
«Ti brucia il sapermi così inumano, non è così?»
Che fosse dispiaciuto? Che fosse soddisfatto? O che mi stesse sfidando?
“Non posso essere veramente attratta da un contenitore.”
«È passato un quarto d’ora» Si rialzò in piedi. Parlò come se non ci fossimo detti nulla.
Guardandomi dall’alto in basso, attendeva che mi alzassi in piedi e me ne tornassi a letto, ma mi rifiutai di muovermi. Che lui ci fosse o no, non avrebbe influito su quel momento. Ero sola e senza energie, bloccata dal mio corpo e dai miei sentimenti.
Un braccio mi cinse le spalle, l’altro passò sotto le ginocchia. Il fatto che avesse vicino una ragazza inerme e mezza nuda, sicuramente, non gli dava nessun effetto, non potendo provare alcun desiderio sessuale.
Mi fece sdraiare sul letto, le coperte ben presto s’inzupparono.
Ormai era buio, e se voleva essere pronto per l’allenamento del giorno dopo, sarebbe dovuto andare a dormire tra poco, a meno che non potesse fare nemmeno quello, data la sua umanità ormai inesistente.
Mosse un passo verso la porta.
Le mie energie erano poche. Avevo freddo, la vista annebbiata e un cerchio alla testa, ma riuscii ad afferrargli il polso, appena prima che uscisse dal mio raggio.
Stranamente, non strattonò in nessun modo; rimase fermo in piedi, con l’unica eccezione che girò il capo nella mia direzione.
Strisciai, fui seduta.
I miei occhi non smettevano di fissare i suoi. Gli strinsi il polso con tutta la mia forza, nel tentativo di alzarmi in piedi.
Con la sua altezza mi sovrastava, non me n’ero mai accorta.
Non avevo nemmeno mai osservato i suoi occhi così da vicino. Credevo fossero tendenti all’ambra, invece erano ancora più chiari, più sull’oro.
I muscoli del suo viso erano tesi, ma non accennavano a tremare.
Le sue labbra erano ferme, chiuse in una linea dritta, e sempre più vicine. Più vicine. Più vicine…
 

* Centro delle emozioni all'interno dell'encefalo.

Ciao gente!!! :D
Quattro mesi di attesa per un capitolo. Mh... Mica male!
*Guarda in faccia alla realtà*
Santo cielo, sono pessima >.<
Allora, che dire, le parti che mi hanno preso di più nel corso della stesura sono state l'incontro in palestra e la parte finale. Lo so che mi odierete a causa di questi cliffhanger, ma voglio incuriosirvi e incitarvia nella lettura di questa storia che, ahimé, sta giungendo alla fine. Oddio, "ahimé", magari siete stufi di avercela tra le scatole...
Ci tengo inoltre a precisare che, preferendo di gran lunga la narrazione in terza persona, so di non essere troppo brava nell'esprimere i pensieri di Paschendale, nonostante noti che molti di voi apprezzano. Infine, chiedo scusa se, soprattutto negli scorsi capitoli, le regole riguardanti «,», . , e via discorrendo sono usate A CASO; ma non disperate ;) appena avrò tempo sistemerò tutto.
Concludo RINGRAZIANDOVI DI CUORE PER AVER LASCIATO BEN SETTE RECENSIONI ALLO SCORSO CAPITOLO! SETTE!!!!!! NON AVEVO MAI RICEVUTO SETTE RECENSIONI IN NESSUN ALTRO CAPITOLO DI TOTD!!! Vi giuro, non avrei mai pensato che dopo tutto questo tempo vi avrei riincontrati così in tanti. Allora vi piace questa storia! ^^
Un ringraziamento va anche a myojo_sama che ha recensito lo scorso capitolo. Chiedo anche scusa a Lady_Light_Angel per non aver ancora risposto alle sue recensioni per "Goodbye Metal Saga!" – la ringrazio inoltre per aver lasciato tutte quelle recensioni. ^^
Ringrazio anche tutti coloro che mi aggiungono tra gli autori preferiti e inseriscono TOTD tra preferite/ricordate/seguite.
Grazie! Grazie di cuore!
Spero davvero che per voi sia valsa la pena tutta quest'attesa. Fatemi sapere cosa pensate del capitolo nuovo.
Al prossimo capitolo!

Vi voglio bene! :D
  
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