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Autore: Sheep01    26/10/2014    7 recensioni
E dire che gli mancavano meno di tre mesi alla pensione. Meno di tre fottutissimi mesi. Aveva programmato tante di quelle cose da fare per soffocare l’angoscia di finire come tanti ex colleghi che andavano a smaltire gli ultimi, pigri anni di vita in qualche bettola, a sfondarsi lo stomaco di whisky a giocare a carte, a raccontare le storie dei bei tempi andati, a lamentarsi del tempo e del degrado della gioventù odierna. E invece guarda un po’ che cosa gli doveva capitare.
Una di quelle robe che era sicuro di non aver visto nemmeno in Vietnam quando non era che un ragazzino irascibile, strafatto di canne. Morti ne aveva visti tanti, certo. Morti che ritornavano in vita e sembravano guardarti come fossi un cheeseburger, proprio mai.
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Atlanta: un misterioso esperimento scientifico si conclude bruscamente con un incidente dalle conseguenze inaspettate.
Nel giro di pochi giorni, un'epidemia mondiale prende a serpeggiare per il paese, cominciando a decimare la popolazione...
Genere: Avventura, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 2

 

Regola N. 37: Liberatevi pure di tutto ma non del fucile, ma la regola n. 1 è: Trovate un compagno con le palle!

(Zombieland)

 

Paris, Kentucky

Quaranta giorni dopo il contagio

 

“Che posto di merda.”

Il giudizio di Barney era sempre così definitivo che spesso Clint si sentiva in dovere di ribattere aspramente a riguardo. Tipo rispondere, questa volta, che: sì, era un posto di merda, ma solitario e desolato in modo distensivo. Nessuna minaccia presunta o imminente nel raggio di chilometri. Un evento tanto straordinario quanto fortuito sul quale non era esattamente il caso di sputare.

Ma non era ispirato per una diatriba di qualsiasi tipo.

Non quel giorno. Non dopo aver macinato miglia per arrivare a una schifosa cittadina del Kentucky che con la sua parente francese aveva ben poco da spartire. Non che ci fosse mai stato, sia chiaro, gli sarebbe piaciuto, certo; magari se avesse continuato a studiare…

Le recriminazioni di fine giornata gli riuscivano sempre piuttosto bene.

Nessuna sorpresa nello scenario. Campi a non finire, staccionate, basse villette tutte uguali, persino una chiesa battista dall’aria abbandonata. Dovevano essersela data a gambe tutti quanti poco dopo l'inizio dell'epidemia a giudicare dalla difficoltà riscontrata nel trovare mezzi di trasporto... di qualsiasi tipo.

Avevano ucciso un paio di quei mostri che sembrava quasi li stessero aspettando all’ingresso della cittadina, a fauci (letteralmente) spalancate e poi… il deserto, come quelle località nei film di Clint Eastwood dove ci si sarebbe aspettati di veder passare, nella pigra attesa d’inizio estate, una balla d’erba secca, a rotolare solitaria per la via principale.

Avevano lasciato la macchina a qualche miglio a est di Paris. La batteria li aveva abbandonati sul più bello e avevano deciso di proseguire a piedi. In più, girare in macchina stava diventando scomodo… e oltretutto complicato. Le strade principali bloccate dalla statica fuga di tutte quelle persone che avevano sperato di poter fuggire da qualche parte prima di venir investite dall’epidemia di quei morti camminanti. Nessuno di loro, ovviamente, era sopravvissuto.

Come non era sopravvissuto neanche un solo cittadino di Waverly. O almeno quelli che si erano ostinati a rimanerci fino all’ultimo respiro, come quei vecchietti che non avevano alcuna intenzione di schiodarsi dalla loro terra natia, in attesa di una serena morte.

Barney era dovuto scendere a patti con la consapevolezza che non sarebbero diventati ricchi (perché a che servono i soldi quando le cose le trovi in giro gratis?) né tantomeno eroi nazionali (signori delle mosche, al massimo). Usava le banconote per soffiarsi il naso: una sera ne aveva fatto un bel falò… lasciando che i suoi sogni di gloria andassero a disperdersi come cenere nel vento.

A quel punto avevano deciso di spostarsi.

Prima che canali tv e radio tirassero definitivamente le cuoia, qualcuno aveva vaneggiato di un ritorno ad Atlanta. Della possibilità di una cura, di un centro di recupero messo in piedi direttamente dall’esercito.

Clint non si fidava. Aveva sempre creduto poco alle stronzate che raccontavano in televisione, e troppo poco persino nell’esercito, ma tant’è: non è che avessero niente di meglio da fare, comunque. E poi c’erano tutte quelle baggianate filosofiche sugli obiettivi che ti mantengono in vita, che la speranza è l’ultima a morire, che a… caval donato non si guarda in bocca. Insomma una sequela di proverbi che non aveva mai compreso del tutto. E che per l’appunto, probabilmente, usava persino a sproposito.

 

Barney stava armeggiando con i cavi di un vecchio furgone che, verosimilmente, a giudicare dall'aspetto, avrebbe fatto la stessa identica fine del precedente mentre Clint teneva stretto fra le mani il suo arco, proteggendolo da qualsiasi sgradito attacco.

“Se ti dicessi che cosa mi manca di più in tutto questo scenario apocalittico di morte, non ci crederesti.”

Clint scacciò via una mosca che sembrava aver preso in simpatia il suo naso.

“Le donne?”

Nell’aria solo il ronzio degli insetti e il fremito delle foglie, in cima agli alberi.

“Ma che bella risposta…” Barney emerse dal furgone, un po’ congestionato, “… del cazzo!”

Il fatto che Clint non avesse sentito il rassicurante scoppiettio del motore poteva solo voler dire che il furgone era andato a farsi benedire.

“Batteria andata…” la risposta del fratello alla sua espressione confusa, “dai, tenta ancora…”

Lo aveva riavvicinato e recuperato la sacca che custodiva, gelosamente, tutti i loro (pochi, pochissimi) averi. Bisognava viaggiar leggeri.

Clint appoggiò l’arco alla spalla e rinfoderò la freccia.

“Non lo so… le partite di baseball degli Iowa Hawkeyes?”

“Ding, ding, sbagliato”, accompagnando le parole con una fastidiosa botta in fronte, “ritenta, sarai più fortunato.”

Lo scacciò via con un gesto secco della mano. Barney barcollò appena, prima di scoppiare a ridere.

“Da quanto il mondo si è riempito di Ganasce, hai perso tutto il tuo senso dell’umorismo.”

“Che cazzo sono le Ganasce?”

“Denti marci, budella al vento, puzza di vomito e spazzatura? Ganasce.” E nel dirlo aveva imitato, in modo inquietantemente simile, il rumore di denti che preannunciava l’arrivo di quei morti viventi.

“Ganasce…” Clint adesso era perplesso, “chiamarli zombie ti faceva schifo?”

“No. Però è scontato. E poi a me fa venire in mente il genere che s’è inventato Romero… un fottuto veggente del cazzo, se mi passi il francesismo.”

“Te lo permetto Benny, siamo a Paris.”

“Ah! Vedi che quando ti ci impegni…” si rallegrò Barney. In realtà bastava sempre poco a rianimarlo, “Insomma, Romero: immaginatelo lì, seduto alla sua scrivania di sceneggiatore del cazzo, davanti alla sua macchina da scrivere…” del cazzo?

“E’ da un pezzo che gli scrittori non usano più macchine da scrivere, Barney…”

“No? Vabbè lui è uno a cui piacciono le cose antiquate, lo si capisce dalla faccia… e quindi usa una cazzo di macchina da scrivere.” se non si fosse capito a Barney piaceva enfatizzare le cose, “Romero sta seduto davanti alla sua antiquata macchina da scrivere di quel modello che aveva la signorina Richards, te la ricordi la signorina Richards dell’orfanotrofio?”

E come dimenticarla la signorina Richards? Un povera, onesta segretaria, dai vizi un po’ torbidi, invischiata in quel marcio sistema statale. Poi l’avevano beccata con uno dei ragazzi più grandi in uno dei bagni del secondo piano a fare cose... ed era stata licenziata. Era mancata un po’ a tutti, la povera, docile signorina Richards.

Fece quindi cenno di sì con la testa, per permettere a Barney di portare a termine il suo intricatissimo monologo.

“Ecco, di quel modello lì... e immaginati Romero: l'accendino in mano per la sigaretta celebrativa della conclusione della sua ultima sceneggiatura zombie, un bicchiere di brandy nell'altra, quando parte il servizio alla tv che annuncia che in giro è pieno di esseri uguali a quelli di cui ha sempre scritto lui. Immagina la sorpresa. E lo shock. La sigaretta che gli penzola dalle labbra, l'occhio sgranato e l'orrore nello stomaco. Lui quell’apocalisse l’aveva prevista. Da anni. Un po’ come veder realizzato un sogno… o un incubo; cazzo ne so cosa sogna Romero.”

Clint osservava Barney dare la sua versione della reazione di Romero, con un misto di divertimento e ammirazione.

“Avresti dovuto fare lo scrittore.”

“Non prendermi per il culo.”

“No, dico davvero... ne sai inventare un sacco...”

“Bè...” Barney stava gongolando in un sorriso.

“… di stronzate.”

“Ma vaffanculo!” il pugno se lo era meritato. “Parlare con te è come dare le perle ai porci.”

“Guarda che sono tuo fratello, se io sono un porco, questo fa di te…”

“Il porcaro.”

“Non mi hai ancora detto che cosa ti manca di più dall’inizio dell’epidemia.”

Barney aprì la bocca per parlare, quando fu costretto a richiuderla... e tendere l’orecchio, così come aveva fatto Clint.

Da lontano, avevano sentito il rombo di un motore in avvicinamento.

 

*

 

Erano passate quarantotto ore dall’ultima volta che Natasha Romanoff aveva chiuso gli occhi per dormire.

Quarantotto ore di delirio più o meno allucinato.

Aveva finito la sua dose, tutta la sua dose: se non avesse trovato una farmacia al più presto non sarebbe stata in grado di arrivare alla settimana successiva. Come aveva potuto essere così stupida? Così avventata?

Forse quell’inseguimento di morte che l’aveva colta poco dopo aver varcato il confine con il Kentucky? Quel gruppo di zombie che le era, letteralmente, crollato addosso mentre riposava al piano terra di uno studio dentistico che aveva straordinariamente trovato, protetto e deserto?

Il soffitto marcio proprio non lo aveva notato. Nell’oscurità di una notte senza stelle e con la stanchezza che ti piomba addosso come un sudario non aveva proprio avuto modo di controllare anche quel dettaglio. Aveva sparato un paio di colpi in aria per accertarsi che il locale fosse sicuro. Quei mostri tutti denti tendevano a notare uno sparo e ad agire di conseguenza, come uno stormo di uccelli risvegliati dal torpore durante la stagione di caccia. E invece le aveva risposto il rassicurante silenzio della solitudine, una costante in quegli ultimi giorni. La razza umana si stava lentamente assottigliando.

Aveva appena preso sonno quando aveva udito lo schianto. Il soffitto che crollava e quattro di quei cosi che si dimenavano sotto le macerie, imbiancati di calce e mattoni. Non aveva avuto la forza di ucciderli, aveva preferito allontanarsi. Montare sul pick-up che aveva sottratto all’officina di McCallan (ormai un mese prima) e fuggire nella notte, lontano da quella maledetta cittadina.

Le sembrava di essere in viaggio da una vita. Una vita che non riusciva più a riconoscere come propria da quando aveva visto venir meno, una dopo l’altra, tutte le certezze che l’avevano sempre accompagnata. Nemmeno la rassicurazione di Ivan, che sapeva sempre come tranquillizzarla nei momenti più difficili.

Ma Ivan era morto, tutti i suoi fratelli e tutte le sue sorelle, la sua vera… o presunta famiglia erano morti. Tutti morti. Doveva convivere con l’idea di essere rimasta sola, completamente sola… al mondo. Un pensiero che le faceva accartocciare lo stomaco, un pensiero che un tempo, forse, non avrebbe mai preso in considerazione. Si era sempre vantata di essere una persona dal contegno ineccepibile, dalle reazioni contenute, dallo spirito calcolatore, ma era anche vero che niente l’aveva mai preparata a quello.

Avere a che fare con la gente di malaffare era una cosa, un ambiente con cui aveva avuto a che fare fin dalla più tenera età, ma approcciarsi a un branco di mostri da romanzo horror… no, a quello non era mai stata addestrata. Come non era mai stata addestrata ad uccidere, di nuovo, cadaveri.

Un ossimoro spaventoso.

Forse se lo era meritato. Prima o dopo lo sapeva che sarebbe stata messa di fronte all’orrore che aveva da sempre accompagnato la sua vita, che ne avrebbe dovuto pagare il giusto prezzo ma… di certo non in quel modo. Ne aveva fantasticato, a volte, e le sue peggiori prospettive la vedevano avvolta in qualche sacco della spazzatura a galleggiare per le torbide acque del fiume Hudson, non a rivivere gli incubi che la mettevano davanti alla prospettiva di dover affrontare tutte le persone che aveva sulla coscienza. Da quelle che aveva dovuto raggirare, minacciare… uccidere. Uccidere per conto terzi. Uccidere armandosi di quella freddezza che aveva perso, nei primi visionari attimi di quella sua nuova vita.

Una vita che non le regalava più la protezione o l’anonimato dell’organizzazione, ma la solitudine. E la paura. La paura costante, l’incertezza dietro ogni angolo, l’orrore di avere a che fare con qualcosa che non era abituata a gestire, della loro costante, ineguagliabile imprevedibilità.

Anche se qualcosa l’aveva capita: che l'unica soluzione era quella di trattarli così come si abbatte un nugolo di insetti particolarmente grossi.

Un colpo in testa. Serviva giusto una buona mira e una certa dose di concentrazione o di forza, a seconda dell’arma.

 

Il problema adesso però era un altro. Era rimanere in vita. E non per la minaccia di corpi barcollanti in avvicinamento, ma per la mancata somministrazione della sua… dose.

Aveva solo bisogno di una farmacia.

Una farmacia o qualcuno che, in casa, avesse una cassetta del pronto soccorso particolarmente fornita. Ben… fornita. Dettagliatamente fornita.

La vista aveva preso a farle brutti scherzi, l’arsura a corroderle la gola come se la saliva si fosse fatta di vetro.

Serrò le mani sul volante e sterzò per evitare una macchina con roulotte, ferma proprio in mezzo alla strada. Le porte spalancate e un paio di cadaveri dal cervello spappolato riversi al suolo.

Qualcuno doveva esser passato di lì prima di lei.

Registrò a malapena l’informazione perché il cuore le balzò in gola: un cartello le dava il più caloroso benvenuto a Paris.

Ma Paris… non era in Francia una volta?

Diede un'ultima sgasata al motore e si lasciò guidare dalla strada.

 

*

 

Barney aveva frenato giusto in tempo, appena svoltato l’angolo, per immettersi nella via principale della città, dove avevano sentito il rombo del motore. Si fermò prima di perdere l’equilibrio, la suola degli stivali a scivolare sui sassolini dell’asfalto.

Clint lo seguiva placido, le armi in pugno. Il rumore di un motore non poteva e non doveva fomentare facili entusiasmi, per quanto l’idea di incontrare un essere umano dopo giorni di solitudine fosse piuttosto elettrizzante. Certo, a meno che le Ganasce (ma nemmeno per il cazzo si sarebbe mai fatto sorprendere da Barney a chiamarli così) non avessero imparato improvvisamente e straordinariamente a guidare, scarsamente dotati come erano di lucido intelletto.

Era un vecchio pick-up Ford, color petrolio, quello che si trovarono di fronte. Un bel veicolo – di certo in migliori condizioni di quello che avevano lasciato in mezzo alla statale – anche così, mezzo schiantato contro un palo della luce.

Ottima mira il conducente, niente da dire.

Il fumo che usciva dal motore non era molto rassicurante, comunque.

Barney gli fece capire di volersi avvicinare, Clint annuì appena, prendendo la mira, cercando di rimanere poco esposto.

Sembrava quasi che al posto di guida non ci fosse nessuno. O forse era solo un nano. O un fantasma.

Barney avanzava con passo felpato, ferino. Per quanto fosse massiccio, nel complesso, era sempre stato piuttosto agile nei movimenti e flessuoso, un po’ come un gatto. Si era appena sporto per controllare dai finestrini che qualcuno, qualcosa, aveva aperto la portiera, con una violenza tale che Barney si era letteralmente cappottato all’indietro, con un grido di dolore ad aleggiare per la via.

“Merda!” Clint era scattato tanto velocemente da aver scacciato in un istante l’apatia che aveva accompagnato quell’ultima tappa del viaggio.

Una testa di capelli rossi era balzata giù dal pick-up e avventata sul povero Barney, brandendo qualcosa che alle percezioni di Clint parve una pistola.

“No!” gridò una sola volta, prima di rallentare. Una mano a imbracciare l’arco, l’altra a incoccare una freccia. Mezzo secondo di concentrazione, pura e semplice. Prese la mira e c’entrò, per chissà quale ispirazione divina, la mano di quel demonio rosso fuoco, trapassandogliela da parte a parte. Disarmandola.

“Barney!” l’uomo era rotolato di lato, le mani alla testa, come se avesse paura di essere preso per uno di quei mostri.

“Sono ancora vivo!” un grido stridulo quasi comico nell’esecuzione.

La testa rossa era crollata di lato: sdraiata al suolo, si teneva la mano ferita, gemendo sommessamente.

Clint estrasse una seconda freccia.

“Fermo!” la voce di Barney a ridestarlo dalla concentrazione alla quale sarebbe seguito il colpo, “non è una di loro!”

“Che cazzo stai dicendo? Ti è appena saltato addosso!” e di nuovo a riprender la mira mentre, lentamente, realizzava che quel coso era in realtà una cosa e che più che un demonio sembrava una ragazzina.

“E’ viva! Fin troppo viva… se me lo chiedi.” Il fatto che Barney si fosse rimesso in piedi, giusto un po’ acciaccato dal colpo, il naso che stillava sangue come una fontana, gli diede la giusta persuasione per non ripetere immediatamente l’operazione.

Si era però avvicinato e continuava a tenerla sotto mira.

“Ehi.” Il tono era secco, brusco. Doveva aver dimenticato come ci si relazionava con gente viva.

La risposta fu solo un gemito e poi la cascata di capelli rossi che le scivolava dal viso, scoprendo così i tratti di una ragazzina alquanto sofferente. Pallida e con due occhiaie che non potevano essere solo frutto della freccia scoccata solo pochi attimi prima.

Si sentì in colpa nel momento stesso in cui gli occhi di lei si erano puntati nei suoi, come quelli di un animale braccato, ferito e sofferente.

“Ah, merda…” mormorò abbassando di poco l’arco, non prima di aver intercettato lo sguardo di lei che andava a cercare la pistola a terra.

“Non ti fare strane idee...” aveva fatto cenno a Barney che, tenendosi il naso distrutto era andato a raccogliere l’arma.

“Ha una forza niente male la bambina, mi ha quasi rotto il naso.” Aveva blaterato quello, sputando a terra un misto di saliva e sangue, “e forse anche un dente…”

Clint continuava e tenerla sotto mira, creando una specie di triangolo che, sotto il sole di quel mezzogiorno di fuoco, sì che faceva tanto film di Sergio Leone.

“Bè… mi sembra sia chiaro che nessuno di noi qui sia una di quei…”

“Ganasce.” Aveva decretato Barney, felice di aver appena utilizzato il termine di nuovo conio.

“… schifezze.” Completò per lui Clint, senza levare gli occhi di dosso alla ragazzina che aveva preso a respirare anche in modo preoccupante.

“Sei malata?” le chiese, sperando di ricevere una risposta se non cordiale (dopotutto le aveva appena trafitto una mano con una freccia)… quantomeno presente.

La ragazza digrignò i denti, cercando disperatamente di non lasciarsi andare all’incoscienza.

Era pallida, un po’ troppo pallida.

“Ho chiesto: sei malata?” il fatto che non gli rispondesse poteva voler dire che aveva paura di annunciare ai quattro venti che sì, lo era e che sì, secondo la procedura standard avrebbe dovuto essere uccisa. Era cominciato tutto con un’influenza che, prima o dopo si sarebbe conclusa con la… trasformazione: solo uno dei tanti modi per cambiare look, di quei tempi.

La sentì ringhiare qualcosa in risposta, qualcosa di molto simile a un rigurgito e poi ribaltare gli occhi all’indietro e… svenire.

“Cosa gli farai tu alle donne…” Barney.

Clint l’aveva studiata per qualche istante e quando fu certo che non fingeva le si avvicinò per tastarne il battito e la temperatura corporea.

“Non sembra avere la febbre… è ghiacciata.”

“Per forza l’hai infilzata come uno spiedino.”

“Credevo fosse uno delle Ganasce…”

“Ah!” Barney aveva quasi urlato e Clint fece un sobbalzo, “sapevo che l’avresti usato, prima o poi.”

“M’hai fatto prendere un colpo, vaffanculo…”

“Non sembrava così fragilina mentre mi balzava addosso…”

“Forse ho capito che cos’ha.” Clint aveva trovato le sue braccia e ne sollevò una a favore di Barney.

Sull’avambraccio e un po’ dappertutto c’erano minuscoli lividi e crosticine da punture di aghi. Indiscutibilmente di aghi.

“Ah merda… fra tutti i fottutissimi esseri umani che circolano su questo pianeta… proprio una cazzo di eroinomane in astinenza?”

Clint le lasciò andare il braccio, passandosi una mano sul viso.

“La lasciamo qui, no?” si preoccupò Barney.

“A far da esca a tutti i lobotomizzati che girano qui attorno? Non è uno spettacolo che ho voglia di vedere.”

Non che fosse davvero costretto ad assistere, ma ancora sentiva quel vago senso di colpa, in fondo allo stomaco per aver atterrato una persona ancora viva e potenzialmente sana. Non fosse stato per quel… non ignorabile problema di tossicodipendenza.

“Io non voglio trascinarmi dietro un peso morto.”

“Abbiamo un pick-up nuovo con tanto di chiave.”

“Ha il motore fuoriuso.”

“Stronzate… sono sicuro che sai rimetterlo in sesto.”

Barney aveva stronfiato qualcosa e lui si era rimesso in piedi ad aggirare il mezzo di trasporto, a sbirciare fra le cose della ragazza. Non aveva con sé che uno zaino che non si fece troppi problemi a raccogliere e aprire: dentro, a parte qualche cambio di vestiti e mezzi (pochi) di sopravvivenza, c’era una scatoletta di plastica.

Quando l’aprì sentì il gelo scendergli per lo stomaco, ancor più di quello provocato dal senso di colpa.

“Che hai trovato?”

Clint socchiuse gli occhi e imprecò a mezza bocca.

Forse sarebbe stato meglio si trattasse di una… cazzo di eroinomane.

 

*

 

Si svegliò che aveva ancora la bocca impastata e la gola che le doleva. Ma il senso d’oppressione le arrivava più nitido da un’altra parte: un dolore pulsante, attivo, vivo, alla mano.

Ricordò tutto in una frazione di secondo.

Paris, l’incidente sul pick-up, la paura, la freccia nella mano. La freccia…

Si portò la mano all’altezza del viso solo per rendersi conto che era stava fasciata con una garza pulita. E che se la testa ancora continuava a dolerle non era perché era stesa al suolo ma per via del malessere diffuso dovuto alla mancanza assoluta di farmaci da almeno quarantotto ore.

Si rese conto di essere sdraiata su un letto, nella cameretta che, a giudicare dalle decorazioni infantili su tutte le pareti, doveva essere appartenuta a un bambino. Un maschietto particolarmente attratto dalle macchinine e genere… automobilistico.

Dall’altra parte della porta arrivava un chiacchiericcio sommesso che la mise in allarme. Anche se… quei mostri tutto (ganasce?) denti non sembravano dotati di favella, a meno che, nel frattempo, non avessero imparato a farlo.

La soluzione più semplice che le riuscì di elaborare fu che le voci dall’altra parte della porta non fossero che quelle dei due uomini che aveva incontrato quel pomeriggio.

Non l’avevano uccisa: dunque dovevano aver deciso che non era malata e decisamente non uno zombie (quanto odiava usare quella stupida parola da parodia cinematografica).

Il fatto che si fossero presi cura della sua mano non le diede certo la sicurezza che fossero delle brave persone. Ma dopotutto… lo era forse lei stessa… una brava persona?

Cercò di cambiare posizione, ma tutto quello che guadagnò fu una stilettata di dolore alla mano che aveva inavvertitamente battuto contro lo spigolo della ringhiera di quel letto da bambino. A giudicare dal modo in cui il sangue imbrattava la garza non dovevano aver fatto un buon lavoro di sutura.

La porta si aprì nel momento che seguì al gemito che le era sfuggito di bocca.

Un triangolo di luce filtrò all’interno della stanza e la sagoma di una persona fece il suo ingresso.

“Allora sei viva.” Riconobbe, in qualche modo, la voce dell’uomo che l’aveva atterrata con una freccia.

Cercò di rimettersi seduta, con scarsi risultati.

Un’altra persona attendeva a pochi passi di distanza mentre l’uomo entrava. Non avvertì il pericolo, ma non si concesse alcuna distensione. Aveva avuto a che fare con gente che le aveva fatto credere un sacco di stronzate prima di provare a fotterla, in tanti, diversi modi. Si limitò a fissarlo, gli occhi già abituati alla penombra non fecero fatica a distinguerlo.

Lo vide tenere le distanze, come si aspettasse una reazione azzardata. Se solo avesse potuto immedesimarsi nelle sue condizioni attuali avrebbe capito che non sarebbe stata in grado di arrecargli più danno di un gatto con le unghie consumate.

“Magari non te ne farai un cazzo ma... mi spiace per... la freccia.”

“Ti pare il caso di metterti a novanta in questo modo?”

“Taci Barney…”

Allungò lo sguardo fino all’altro tizio che le scoccò un’occhiata ostile, prima di ritirarsi nel suo cono di luce, nella stanza adiacente. Non fosse stato per il grosso cerotto che l'altro portava sul naso, si somigliavano. Dovevano essere... parenti.

Natasha tornò a guardare il suo interlocutore, non del tutto certa di come avrebbe dovuto comportarsi. Era troppo tempo che non aveva a che fare con una persona… viva. Troppo tempo, comunque, che non conosceva qualcuno a prescindere. A parte aver tentato di abbattere il tizio... per assoluta e legittima autodifesa, non avevano la più pallida idea di chi avessero di fronte: non erano suoi nemici giurati, né avrebbero voluto fargliela pagare per qualche crimine pregresso. Per loro, probabilmente, era solo una ragazza indifesa... con un istinto di sopravvivenza piuttosto sviluppato.

Deglutì a fatica, di nuovo, la nausea che tornava a ondate più o meno preoccupanti.

“Da quanto tempo non prendi le tue medicine?” la domanda era arrivata così brutale e diretta che per un attimo non seppe cosa rispondere. “Ho trovato il tuo… kit per l’insulina.” Fece un cenno con il capo ad indicare il suo zainetto sistemato su un baule in fondo alla stanza.

Si trovò a considerare che una risposta non avrebbe potuto far del male a nessuno, nemmeno a se stessa. Non più di quanto stesse male al momento.

“Quaran…” la voce le uscì roca e vagamente inquietante. Sì, decisamente era troppo tempo che non parlava. O non beveva, per quello che ne poteva sapere.

“Quarantotto ore… forse di più.” biascicò.

“Merda.”

Già, merda. Non avrebbe saputo esprimersi meglio.

“Come cazzo è possibile che una ragazza giovane come te abbia già una malattia così assurda?”

“Mai sentito parlare di diabete giovanile.”

Lui le lanciò uno sguardo fra il sorpreso e l’imbarazzato, prima di mettersi a frugare in una busta di plastica che aveva con sé.

“Questo ti può tornare utile?”

Se Natasha non aveva le traveggole, quella non era altro che insulina. Di quella che serviva a lei. Non riuscì a far altro che sentirsi invadere da uno strano senso di sollievo e di rivolgere al suo… carnefice di un pomeriggio, uno sguardo pseudo riconoscente.

“Come facevi a… ?”

“Avevo un amico… con lo stesso problema.”

Era andato a procurarsi un pacco di insulina... solo per lei? Perché? Non la conosceva nemmeno.

Guardò con sospetto la scatola, ancora intonsa. Lui sembrò intuire il suo pensiero.

“Hai quasi spaccato il naso a mio fratello. Aveva bisogno di antidolorifici e un po' di cerotti e c'era... una farmacia lì vicino”, disse come se fosse poi davvero necessario giustificarsi, “E poi... siamo tutti sulla stessa barca, no? Non sei costretta a fare un bel niente, io ti do questa roba e tu decidi cosa fare. Io e mio fratello prendiamo le nostre cose e ce ne andiamo e se... tu hai intenzione di tornare... da dove sei venuta... da sola, lo fai.”

Logico, lineare... assolutamente... sbagliato?

Il termine sbagliato era la prima che le fosse venuta in mente non appena il tizio aveva detto quell'altra parola. Quella che le faceva paura.

Sola.

Da sola.

Di nuovo.

Lei e un branco di mostri? Lei, da sola... con tutti quegli... incubi improvvisamente fattisi materiali?

La vista tornò torbida.

“Ehi...”

Per un istante fu più che certa che sarebbe svenuta di nuovo.

“Prendi quella roba e riprenditi... alla svelta.” le aveva sistemato accanto la scatolina con il suo kit personale e una scatola di antidolorifici.

“Ancora... scusa per la mano.”

Quel tizio era assurdo. Non aveva esitato un solo istante a brandire un arco per abbattere un presunto zombie e adesso si prodigava in una sequenza imbarazzante di scuse con quella faccia da... cane bastonato?

Forse aveva del tutto sottovalutato la razza umana in tutti quegli anni. O forse era solo quella specie di spirito collettivo unito contro il nemico lobotomizzato e marcescente a far crescere la solidarietà per i suoi simili.

Quali che fossero le ragioni... almeno sarebbe sopravvissuta. Almeno un altro po'.

“Come ti chiami?” le parole le erano uscite di bocca senza che nemmeno ci dovesse stare troppo a pensare.

L'uomo si era indicato, un po' sorpreso dalla domanda, quasi fosse davvero intenzionato a lasciarla lì e tanti saluti, dopo aver fatto il suo dovere.

Invece un mezzo sorriso gli illuminò il volto.

“Mi chiamo Clint...”

“E' Clinton, non Clint!” la voce dell'altro uomo dalla stanza accanto.

“E l'imbecille di là è Bernard!” scandì Clint.

“Clinton, Francis!”

“Vaffanculo Barney.” smozzicò a mezza voce, rimettendosi in piedi.

Natasha che aveva assistito allo scambio di battute perplessa, si trovò a nascondere un sorriso: per un istante, ma solo per un istante, gli avevano ricordato delle persone che conosceva... che conosceva nell'altra vita. Quella prima dell'epidemia.

L'altra vita. Quante volte aveva già ripercorso quel pensiero?

Stava davvero vivendo... un'altra vita?

“E tu... ?” la voce di Clint la scosse dalle sue elucubrazioni.

Lo guardò stranita per un istante, passandosi una mano sul collo umido.

“Natasha. Natasha... Romanoff.”

Clint si limitò ad annuire come ad aver preso coscienza della cosa.

“Che fine ha fatto la mia pistola... ?” anche quella domanda, le era sorta spontanea. Non si sentiva per niente sicura, senza.

L'uomo sembrò incerto sulla risposta da darle: “In un posto affidabile. Finché non ti riprendi. Adesso... fai quello che devi fare.”

Dal modo in cui era schizzato fuori dalla porta, Natasha ebbe come l'impressione che Clint non amasse particolarmente gli aghi.

Assurdo, lo aveva già detto?

 

___

 

Note:

Capitolo incentrato sul primo incontro/scontro della storia. Ovviamente, trattandosi di me, non potevo che iniziare con loro. Niente paura, nel prossimo approfondisco anche gli altri e, senza spoilerare alcunché, anticipo solo che salterà fuori anche uno dei due avengers che ancora non sono stati nominati.
Concluso questo, annuncio che probabilmente il prossimo capitolo subirà un mini ritardo, perché da giovedì a domenica sarò al Lucca Comics & Games, per immergermi in quattro giorni di follia 
a fumetti. A chiunque sarà da quelle parti, se ha voglia si faccia vivo (c'è un modo per trovarmi, come e dove però non lo dico qui). Adesso vado a sbrodolare ancora un po' su quel trailer incomprensibile di Age of Ultron e a coccolare il mio pc a cui, per l'occasione ho trovato finalmente un nome: UltronE. Sì, insomma, è un pc così autonomo che mi apre le pagine web a caso, da solo, come altro avrei potuto chiamarlo?

Insomma, grazie a tutti quanti chi legge, chi commenta, chi supera lo schifo per gli zombie... e alla mia super beta socia Sere, che se non ci fosse bisognerebbe inventarla. No, Tony, giù le mani! Noi ci si risente presto!

  
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