Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Gio_Snower    28/10/2014    3 recensioni
Fanfiction dedicata alla JeanMarco weeks.
Day One: Zero Gravity : In origine c'eravamo solo noi e l'Universo.
Day Two: Olympus : Ad un tratto spuntò una nuova razza che ci mise su un piedistallo e iniziò a chiamarci Dei.
Day Three: Homecoming : Ci siamo rincontrati ed è stato come ritornare a casa.
Day Four: Candlelight : Questa nuova vita è come la fiamma di una candela.
Day Five: Ash : E' il nostro destino, poiché siamo come cenere nel vento.
Day Six: Uniform : Non stiamo commettendo nessuna atrocità, è il volere di Dio.
Day Seven: Dreams : Sarà l'ultima volta? Sperarlo è come sognare, e noi siamo fatti della sostanza dei sogni.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Candlelight

Un ragazzo, seduto su uno degli innumerevoli ponti di Venezia, osservava l'orizzonte della Laguna con i suoi occhi neri, simili a quelli dei cuccioli per la luce di tenerezza e di serietà che li animava.
Il suo nome era Marco. Viveva in una delle più frequentate città d'Italia, poiché ogni giorno arrivavano nuove navi mercantili, e non, che s'attraccavano al porto.
Venezia era una città piena di movimento, i bambini che nascevano in questa grande città, affollata come poche, imparavano a nuotare buttandosi nei canali davanti alle loro case o davanti ai campi in cui giocavano quando non dovevano lavorare, e le strade erano sempre gremite di saltimbanchi che si esibivano nei più svariati trucchi di magia.
Era il tempo della Repubblica di Venezia, la Serenissima, le cui bandiere svettavano fiere sugli alberi maestri delle navi veneziane.
Marco si alzò, il cielo che lentamente diventava più scuro, man mano che il sole scompariva dalla vista. Era il figlio di un nobile veneziano e viveva in un palazzo che da almeno due secoli apparteneva alla sua illustre famiglia. I muri del palazzo erano completamente in marmo e raffinati ghirigori lo decoravano insieme a qualche intaglio a forma di leone; le finestre erano ampie e di vetro di Murano e gli interni erano altrettanto lussuosi poiché i soffitti erano dipinti e i pavimenti erano in marmo di varie tonalità, ma di alta qualità.
Quando tornò a casa, il servitore principale di suo padre lo sgridò, ricordandogli che Venezia, anche se all'apparenza bella, poteva essere altrettanto pericolosa.
Non era inusuale la sparizione di qualche persona, nobile o meno che fosse, e visto il numero di navi che se ne andavano e che arrivavano ogni giorno era impossibile rintracciare gli scomparsi.
Era successo, però, che qualche volta venissero ritrovati... Sì, morti, i cui cadaveri s'erano impigliati nelle reti dei pescatori. Insomma, voleva davvero fare quella fine? Ovviamente Marco non voleva, ma qualcosa lo chiamava. Sì, qualcosa fuori da casa sua, qualcosa che forse era collegato ai sogni che faceva.
Quando era ancora molto piccino aveva iniziato a sognare cose strabilianti e allo stesso tempo terrificanti; quando aveva raccontato i sogni a suo padre e a sua madre, loro si erano terribilmente preoccupati, tanto che decisero di farlo esorcizzare da un prete, ma a nulla servì: Marco continuava a fare quei sogni. Dopo svariati riti di esorcismo, Marco capì di non doverne fare più parola, come una sera gli aveva suggerito sua madre in lacrime, così smise di parlarne ma i sogni continuarono. In essi vedeva il mondo, l'oceano distese di terra, a volte piena di alberi e erba, altre solo come terra spoglia o lava. Gli era successo anche di sognare caverne, danze, canti, templi, offerte, banchetti e case, molte case diverse fra loro. Con lui, però, c'era sempre una persona, ma anche dopo i suoi diciannove anni di età non era riuscito a capire chi fosse, poiché non la vedeva mai se non di spalle.
Sentiva però la sua voce; adorava sognare di quando si parlavano, adorava ascoltare quella voce piena e leggermente acuta, così rassicurante e dolce per lui.
Marco si era chiesto molte volte se avrebbe mai incontrato la persona dei suoi sogni e cosa avrebbe fatto allora, ma finora il problema in sé non s'era posto, con sua grande tristezza.
Quella notte sognò di colline ricoperte di erba, grossi tomi dalle pagine ingiallite e un albero le cui fronde proteggevano dal sole.
Quando si svegliò si sentì rilassato, eppure triste. Non ricordava proprio tutto dei suoi sogni, quanto più gli ambienti, i suoni, e le visioni che gli si erano impresse nella mente; come se non fosse importante ricordare quand'era stato, ma come.
Si vestì velocemente con abiti semplici e uscì dalla porta della servitù di nascosto, prima che il consigliere di suo padre o suo padre stesso lo beccassero, costringendolo ad andare a una di quelle stupide feste e simili.
Stava camminando in Piazza San Marco assorto nei suoi pensieri, quando qualcuno gli venne addosso, cadde sul pavimento in pietra e non poté trattenere un'esclamazione di dolore e sorpresa. Alzò lo sguardo e, preoccupato, si profuse subito in scuse.
«Scusi!», esclamò, arrossendo leggermente.
Due occhi d'ambra lo fissarono e Marco si ritrovò a trattenere il respiro, aspettando qualcosa, mentre si perdeva in quelle due profondità del colore dell'oro.
«Stia più attento», disse brusco il ragazzo, che si alzò e velocemente sparì dalla sua vista. Marco era ancora lì a terra, stordito. Non sapeva chi né come fosse il ragazzo, ma conosceva quella persona: era la sua voce che sentiva nei suoi sogni.
Tornò a casa, incapace di godersi la giornata senza ripensare all'altro che, però, sembrava svanito nella folla. L'avrebbe cercato, ma non avendolo visto bene non era sicuro di poterlo riconoscere. Eppure, qualcosa dentro di lui, diceva il contrario.
«Jean», mormorò, guardando la gente nella Piazza, poi si girò e tornò a casa.
 
***
 
Entrò dalla porta della servitù con la testa affollata dai pensieri, tanto distratto da non sentire i passi di una persona che si stava avvicinando, così, quando suo padre gli fu davanti, non poté far altro che sorridergli colpevole.
L'uomo sorrise in risposta, un sorriso simile a quello di suo figlio ma che Marco, essendo di carattere simile al padre, sapeva bene cosa stava a significare: guai.
Dopo qualche secondo, infatti, il padre gli ordinò di partecipare al ballo che si sarebbe tenuto la sera successiva. Non voglio, diceva, che tutti credano mio figlio uno strambo che gira per Venezia come un mendicante.
Marco non era riuscito a replicare agli ordini e alle parole persuasive dell'uomo, così alla fine fu costretto ad accettare. Amava star con gli altri, era un tipo piuttosto socievole e gentile, ma preferiva di gran lunga stare da solo, girovagare magari per le strade della sua amata città, osservare la gente che passava, parlava o che, semplicemente, viveva.
Dopo aver cenato, andò in camera sua, una grande stanza da letto con un morbido e alto letto a baldacchino, ovviamente fatto in legno pregiato e intagliato e coperto da lenzuola di seta. Sul lato sinistro c'era una piccola scrivania con sopra vari libri, un calamaio e una candela e a fianco c'era una piccola libreria piena zeppa; sull'altro lato c'erano le finestre, ma prima dell'angolo fra il letto – con vicino un mobile su cui c'era un'altra candela – e le finestre c'era una porta che conduceva in una stanza grande e spaziosa i cui muri erano occupati da grandi librerie, mentre al centro c'era un'altra scrivania, solo più grande e più disordinata di quella nella sua camera da letto.
Si spogliò con tranquillità e si infilò la calda vestaglia da notte e i calzoni leggeri, poi si infilò sotto le lenzuola, la candela accesa e lo stoppino sul mobile a fianco a lui.
Per un attimo, mentre guardava la fiamma tremolare, pensò di volerla toccare come un tempo, poi si rese conto del suo strano pensiero e si perse nel fiume dei suoi pensieri.
Spesso aveva dubitato della veridicità dei suoi sogni. Insomma, erano solo sogni, no? Quelle cose non potevano essere successe davvero, eppure, con tutto sé stesso, voleva incontrare nuovamente il ragazzo che possedeva la voce che apparteneva alla figura misteriosa.
Spense la fiamma con lo stoppino e il buio calò nella sua stanza.
Questa nuova vita è come la fiamma di una candela.
E s'addormentò.
 
Il rumore della marcia, i cavalli che nitrivano, l'aria impregnata di urla e sangue mentre delle colonne di fumo iniziavano a comparire nel cielo.
Lui osservava tutto da quella collina, mentre lo aspettava.
Aspettava chiedendosi perché dovesse sempre finire così, sempre.
Le fronde dell'albero che frusciavano con il vento e il rumore del loro fruscio nelle sue orecchie, insieme a quello delle grida e delle risate.
All'improvviso, un cavallo montato da una figura maschile si prospettò all'orizzonte, per un attimo pensò che fosse lui, ma si era sbagliato. Era uno di loro, dei nemici. Appena l'uomo lo vide, seppe che era finita. Non avrebbe potuto ribaltare le sorti, stavolta. E se lui non era ancora arrivato, voleva dire solo una cosa: era morto.
L'uomo si avvicinò e lo infilzò con la spada.
Si spense, ancora una volta, sulla loro collina.
 
Quando Marco si svegliò, il suo umore era pessimo, eppure mascherò tutto con un sorriso gentile e nessuno notò la nota di malinconica tristezza nei suoi occhi.
Ligio al dovere, non provò a scappare da casa e stette tutto il giorno a leggere un libro. Quando arrivò la sera, si preparò. Si mise il completo verde scuro e un cravattino verde chiaro con rifiniture dorate. Quando si guardò allo specchio, vide un ragazzo giovane, quasi uomo, con i neri capelli pettinati indietro e con un viso abbronzato dal sole su cui qua e là spuntavano delle lentiggini.
Scese a prendere la gondola con la madre e il padre, poiché anche loro sarebbero andati alla festa per discutere di affari e divertirsi. Adorava salire sulla gondola e sentire il remo che il gondoliere sbatteva sull'acqua entrare ed uscire a un ritmo costante; sentire l'odore di salato così vicino a lui, vedere la verde acqua sopra cui viveva. Con la sua forma slanciata, l'imbarcazione denominata gondola, era elegante e accattivante, all'estremità della prua vi presenziava il ferro di prua, definito anche “pettine” a causa della sua forma dentata, e mentre la loro non l'aveva, alcune gondole di altre famiglie avevano una piccola cabina al centro di essa chiamata felze.
Passarono davanti alla residenza dei Bevilacqua e al Palazzo della Ca' D'Oro. Venezia ti faceva venir voglia di vivere, di vedere altri luoghi, di imparare più cose possibili. Con la sua particolarità e potenza mista a bellezza era davvero una città magica.
Scesero dalla gondola ed entrarono nel palazzo in cui si sarebbe tenuta la festa, salirono le grandi scale di marmo, rifinite e lucenti, accedendo al grande salone da ballo.
In fondo a esso c'erano dei musicisti che avrebbero allietato la serata e qualche tavolo pieno di rinfreschi e tortini era disposto ai lati insieme alle sedie per le matrone e per le signorine stanche dopo aver ballato troppo o semplicemente per le zitelle che non avrebbero ballato.
Grandi tendaggi vaporosi e colorati, i grandi lampadari a più braccia – appliques – contenevano candele sostenute da piattini e illuminavano la grande sala.
Marco passò la serata a ballare con molte signorine, ma nessuna di loro – nonostante la loro bellezza o intelligenza – riuscì a farlo emozionare. Arrossiva un poco quando gli accarezzavano la spalla o s'avvicinava un po', ma nulla di più di una reazione puramente fisica scaturiva da lui che arrossiva solo per pudore.
Alla fine, sfiancato dai balli e in cerca di pace, sfuggì a un'insistente dama nascondendosi dietro un tendone; quando si girò, andò a sbattere addosso a qualcuno e stava per cadere quando, velocemente, quel qualcuno lo sorresse da dietro.
«Grazie», disse mentre si girava per ritrovarsi davanti un ragazzo leggermente più basso di lui dai capelli color stoppa, ma neri alla radice e dal volto scarno, un poco allungato e virile.
Due occhi del colore dell'ambra lo fissarono e si illuminarono d'ironia.
Un ghigno derisorio si disegnò sul volto del ragazzo davanti a lui.
«Vedo che ha l'abitudine di andare addosso alle persone», disse. Marco avvampò d'imbarazzo, poiché lo sconosciuto aveva ragione, e di rabbia perché non era molto carino fargli notare la sua goffaggine che, stranamente, si manifestava sempre con la stessa persona.
«Mi scusi davvero, sono mortificato», disse, ma quando vide il luccichio di trionfo negli occhi dell'altro non poté trattenersi, «Ma solitamente non sono così impacciato e quando ci si scontra con qualcuno la colpa è di tutte e due le parti».
Aveva parlato con una sfrontatezza che non aveva mai usato prima e stava per scusarsi quando la bassa e calda risata dell'altro, simile a un ringhio rauco, lo raggiunse, facendolo avvampare nuovamente, ma non d'imbarazzo né di rabbia, bensì per l'emozione.
«Il mio nome è Marco», si presentò rosso in volto, porgendogli una mano che l'altro non strinse.
«Jean», rispose guardandolo con diffidenza. «Diamoci del tu, non sono avvezzo all'etichetta, Marco».
«Si sente davvero tanto il tuo accento straniero», osservò Marco.
Jean sembrò offendersi.
«Intendevo dire che è davvero bello, Jean», precisò. Il ragazzo arrossì e distolse lo sguardo e Marco si ritrovò a ridacchiare. Erano dietro una tenda, uno di fronte all'altro, e la persona davanti a lui sembrava timida tutto d'un tratto.
Stare lì con lui lo faceva emozionare.
«Che ne dici di uscire in terrazza?», gli disse. Jean annuì e lo seguì.
Si appoggiarono alla balaustra di pietra che dava sul Canal Grande e osservarono le barche passare. Con il buio che c'era fuori nessuno avrebbe potuto vederli distintamente.
Scese il silenzio fra loro e Marco, nervoso e voglioso di scoprire, si buttò.
«La tua voce mi è così familiare...»
«Anche la tua, così come il tuo nome», borbottò Jean.
«Hai fatto quei sogni pure tu, vero?», gli chiese fissandolo.
«Non so di che parli», ringhiò il ragazzo.
Marco si fece in disparte, mortificato. Abbassò lo sguardo e si perse nei pensieri, dispiaciuto per la risposta rabbiosa di Jean. Forse si era davvero sbagliato.
Ma senza contare il senso di familiarità nei suoi confronti, quel ragazzo provocava in lui emozioni che non aveva mai provato prima, come quella profonda tristezza provata a causa della risposta ricevuta.
Jean sospirò pesantemente.
«Sei tu... Io lo so che sei tu, ma siamo persone diverse, non siamo come in passato».
«Passato?», domandò Marco.
«Sì, ed era destino che ci rincontrassimo, ma non è quello che voglio», spiegò Jean, «Nonostante questo sono felice di averti incontrato», sospirò.
«Anche io», mormorò Marco con un sorriso aperto e solare.
Quando le labbra di Jean toccarono le sue non poté far a meno di lasciarsi scappare un verso di sorpresa, arrossendo completamente.
Anche l'altro ragazzo era molto rosso in viso quando si staccò, la punta del suo naso specialmente, e Marco non poté far a meno di provare tenerezza e una punta di sconcerto a quella vista.
«Hai sognato la tua morte? Almeno una delle tante?», gli domandò Jean, gli occhi dorati che lo fissavano senza pietà.
«Sì», mormorò, pensando al sogno della notte prima.
«Finirà sempre così».
«Non m'importa», si sentì rispondere Marco.
Il sorriso triste che il ragazzo gli rivolse in risposta gli spezzò il cuore.
«Siamo così ingenui ed egoisti ogni volta...», mormorò Jean. Gli occhi stretti abbassati, pieni di rassegnazione e felicità.
E Marco, vedendolo, non poté far a meno di pensarlo nuovamente: Questa nuova vita è come la fiamma di una candela. 
   
 
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