Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: GuessWhat    31/10/2014    2 recensioni
LONG SOSPESA // Weiβdorf, nella bassa Germania, è un qualunque villaggio di montagna, con i suoi problemi, le sue piccole gioie e le sue sporadiche razzie di bestie feroci ai danni dei pastori. Storia vecchia, almeno fino a che i cacciatori cominciano a scappare terrorizzati dalla montagna, urlando di guardarsi dalla maledizione del lupo.
"Eren Jaeger dava l’impressione d’essere una creatura che aspetta, in silenzio, nel suo angolo, che la tempesta passi. [...]
Eppure nelle notti di luna non c’era mai apatia in lui.

[Werewolf!Eren; hunter!Jean]
[Eren/Jean pairing principale; accenni di Erwin/Levi]
Storia scritta in occasione di Halloween. Buona notte delle streghe!
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren, Jaeger, Irvin, Smith, Jean, Kirshtein
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Grazie per esserti interessato al punto di aprire la fic, caro lettore.
Questa storia di più capitoli, pubblicati un giorno di seguito all'altro, vuole catturare lo spirito più profondo della festa di Halloween: Samhain, il capodanno celtico che segna la fine e l'inizio, il passaggio.
Voglio ringraziare la mia fidanzata per il paziente lavoro di editing (che si traduce in: mandami un pzzetto di quello che scrivi ogni tanto!), senza il quale non sarei riuscita a pubblicare nemmeno il primo capitolo, oggi, figurarsi un'immagine di copertina completa! La ringrazio tantissimo anche per le idee, l'ispirazione e le lunghe telefonate in cui si discuteva di vari aspetti della storia.
Fatevi prendere per mano, lasciatevi accompagnare nella foresta più nera. Alla fine del sentiero, la luna potrebbe sorprendervi.


Avviso: la storia contiene accenni di una relazione tra due persone di chiesa. Non ho messo alcun avvertimento perché non volevo comunicare nulla di blasfemo o irrispettoso, tant'è che molti dettagli intimi del loro rapporto sono lasciati velati: la mia intenzione era lanciare il messaggio dell'amore puro e incondizionato.

 
                      

Era una mattina di giugno quando padre Erwin si alzò dal suo letto, accaldato, per rimuovere la coperta di lana. Mentre la raccoglieva e la piegava, il giovanissimo prete lanciò uno sguardo fuori dalla finestra: la luce debole dei primi calori dell'alba suggeriva che era troppo presto per le lodi, doveva mancare suppergiù una mezz'ora. Sistemò la coperta nell'armadio ed aprì la finestra per fare entrare un po' d'aria e rinfrescare l'ambiente.
Padre Erwin appoggiò i gomiti al davanzale ed inspirò a pieni polmoni l'aria frizzante, profumata di rugiada, di acciottolato e sottobosco lontano.  La primavera lasciava posto all'estate e, anche se non era più tempo di coperte di lana, le mattine erano molto fresche e colorate qua e là da trilli e dolci cinguettii di uccellini appena svegli.
Padre Erwin, però, non ebbe modo di ammirare come si doveva il quieto splendore della creazione di Dio e del sorgere del sole sul paese dormiente che scorgeva dalla canonica. Venne distratto.
Lontano lontano, in direzione del sagrato, proveniva un suono che l’aveva incuriosito appena aperta la finestra: sembrava il pianto di un micino nato da poco che chiamava la mamma per il latte, un suono timido e soffocato. Con una mano sulla fronte a racchiudere la visuale, padre Erwin aguzzò la vista  e ciò che vide gli fece rizzare i capelli rasati sulla nuca.
Balzò via dalla finestra, indossò le babbucce e una vestaglia sopra alla camicia da notte e si precipitò fuori dalla stanza. Sapeva che non c’era tempo da perdere.
Il prete spalancò le porte delle stanze dei confratelli, svegliandoli col solo uso della sua rinomata voce limpida e forte, “Emergenza, fratelli! Emergenza!”
Padre Levi, non felice di essere stato svegliato prima del tempo, rispose con un rauco, “Che ca—che succede?”
Seguito da alcuni fratelli che s’erano già affrettati dietro di lui, il biondo e trafelato padre Erwin rispose “Un bambino sul sagrato!” mentre correva giù per il corridoio a svegliare il parroco Pixis. Il cui nome, in realtà, era Dot: ma a lui non piaceva né il suon di “Don Dot” (comprensibilmente) né “Padre Dot”, per cui aveva optato per padre Pixis fin dai primi giorni di officiante.
L’anziano coi baffoni reagì prontamente alla notizia. Si tirò su in piedi che nemmeno un soldato, con addosso solo un’indecente maglia di cotone e i mutandoni, e senza curarsi di coprirsi, si unì allo stuolo di preti che correva incontro al bambino abbandonato. Chissà da quanto stava lì a prendere freddo, povera creatura! Non c’era tempo di pensare alla creanza e alla decenza, non quando un bambino non voluto era stato mollato là fuori a patire il freddo.
Doveva essere buffo da vedere questo stuolo di preti, chi in vestaglia, chi in babbucce, chi in camicia da notte e chi, come padre Pixis, in mutande, che correva giù dalla canonica sull’acciottolato freddo fin sul sagrato di fronte alla piazza, vociando “Un orfano!” “Povera creatura!” “È un segno!”. Per ultimo, padre Levi, che si trascinava svogliato appresso al convoglio.
Padre Erwin, tra i giovani il più alto, fu il primo ad arrivare e a mettere subito mano sul bambino per sentire se fosse caldo. Non guardò s’era maschio, s’era femmina, né il suo colore degli occhi: raccolse la cesta, annunciando tra i piagnucolii deboli che il bimbo era vivo, e lo portarono subito dentro.
S’era capito che non avrebbero recitato le lodi.
La creatura fu sistemata su un lettone disponibile, e mentre padre Levi s’approcciava alla cucina per scaldare dell’acqua, i preti ebbero cura di togliere il bambino dalla cesta. Era un maschietto dalla pelle olivastra e con vistosi occhi ambrati, quasi gialli, che già presentava una folta zazzera di capelli castani e le sopracciglia formate, completamente nudo, avvolto solo in un paio di miseri panni di cotone –gesto furbo dei genitori, che avrebbero potuto tradirsi con le stoffe pregiate- e fu davvero un mistero il fatto che non fosse diventato viola come un livido durante la notte.  
“Ma quant’avrà?”
“Occhio e croce, due mesi. Non di più!”
“Neonato non è.”
“Fratelli, l’acqua e gli asciugamani” era il giovane padre Levi, di ritorno dalla cucina e dalla lavanderia. Non gli piacevano i bambini, non gli piaceva la chiesa in generale, ma era l’unico posto al mondo in cui non si sentisse fuori luogo.
“Grazie, Levi. Scenderesti a controllare se c’è rimasto del latte di mucca?” rispose padre Erwin, tranquillo. C’era intesa tra i due, probabilmente data la giovane età di entrambi. “La creatura ha fame.”
Padre Levi roteò gli occhi, sbuffò e chiuse la porta. Ridacchiarono tutti, come sempre quando quel giovanotto si comportava allo stesso modo di un vecchiaccio antipatico.
Il bambino venne lavato, riscaldato e avvolto nelle fasce, e sembrò calmarsi quasi subito a contatto con l’acqua e gli asciugamani puliti. Povera gioia, piagnucolava ancora succhiandosi le dita, aveva davvero tanta, tanta fame eppure, a differenza degli altri pupi, non strillava né scalciava. Era proprio un bambino strano.
Fargli bere il latte tiepido non fu semplice: fu davvero una passeggiata. Mentre i preti disquisivano su come nutrirlo, il bimbo tese le mani verso la tazza colma di latte. Gli venne offerta e lui iniziò a ciucciare tranquillamente, mettendo sempre più la testa dentro al recipiente: provocò risate, ma anche esclamazioni di stupore. Non s’era mai visto un bimbo di due mesi tanto capace! E anche serio, dato che non aveva scucito un sorriso che fosse uno.
Era implicito che il bambino sarebbe rimasto lì con loro, almeno finché non avrebbe trovato una madre – quanti erano gli orfani cresciuti tra i preti? Se n’era perso il conto.
“Come chiamiamo questo bel bambino?” domandò padre Georg, mentre padre Erwin ripuliva gli angoletti della bocca del pargolo.
“Ernst.”
“Karl!”
“Georg?”
“Ci sono già io, come Georg!”
“Christian!”
“Io dico Marcus, oggi è il giorno del Santo.”
“Ha la pelle scura, sembra quasi un turco.”
“Non vorrai dargli un nome da turco? C’è già Levi, qui, col nome da Giudeo.”
“…”
“Che c’è, fratello? È vero!”
“…”
“Chiamiamolo Eren.”
Era padre Erwin. Le bocche si cucirono e le trattative s’interruppero: sembrava che il giovane prete avesse qualcosa da dire. Prese in braccio il bambino.
“Franz, tu hai proposto di dargli un nome di un santo. Elias, tu hai sollevato la questione del suo aspetto straniero. Chiamiamolo Eren.”
“Sentiamo, perché proprio Eren?” chiese il parroco Pixis, lisciandosi i baffoni.
“È un nome turco, il cui significato è ‘santo’” rispose padre Erwin con tranquillità e schiettezza, mentre il bambino giocava con le dita enormi dell’uomo che lo teneva in braccio.
Ci fu un momento di silenzio, forse troppo prolungato, mentre i preti si guardavano l’un l’altro con fare dubbioso. Non erano convinti: era un nome straniero, e per giunta turco! Però, però, in effetti aveva senso, ed era anche adatto alla gloria del Signore, quel nome.
“Allora?” incalzò la voce da papera scocciata di padre Levi.
“..Guardate i suoi occhi, fratelli, sono d’oro come le aureole degli angeli.”
“Sì, sì, come la beatitudine dei santi!”
“Come la luce del Signore!”
“L’avevo detto, io, ch’era un segno!”
“Georg, per te anche il ragno che tesse la tela sopra al tuo letto è un segno di guadagno, ma per me è segno che sei un maiale a pulire” questo era padre Levi.
Il bimbo fu messo giù sul letto e mise a tacere tutti quando, rigirandosi sul fianco, vide padre Levi. Chissà cosa scattò nella mente del bambino a vedere quell’adulto basso, fatto sta che prima sbuffò, poi la sua faccia si aprì in un radioso sorriso sdendato e rise fortissimo,  acchiappandosi i piedini con le manine, sotto alla faccia piccata e basita di padre Levi, lo sguardo divertito di padre Erwin, padre Pixis e tutti gli altri.
Ed è così che iniziò la storia di Eren Jaeger.
 
 
****
 
Donna Annedore Jaeger, minuta, bionda, prosperosa, ma non troppo graziosa di viso, aveva ventuno anni ed era sposata da tre. Di tre anni di matrimonio, il suo campo era rimasto arido, per quanto il marito Kornelius Jaeger ci passasse l’aratro e l’inseminasse più volte a settimana. Non poteva dirsi contenta, donna Annedore, che voleva tanto un figlio e preferiva evitare il dovere coniugale: Kornelius non era un uomo pieno d’amore, sbrigava l’atto come si schiaccia un foruncolo. Era un sfogo tutto suo, era rozzo, senza affetto, senza carezze. Forse, freschi di nozze, lo era stato, ma una volta accortosi che non avrebbe mai avuto due mani in più ad aiutarlo nella sua bottega da maniscalco, Kornelius s’era dimenticato cosa volesse dire ‘promettete di amarvi e rispettarvi’.
Donna Annedore aveva mandato giù il dispiacere e s’era rifugiata in ciò che le dava conforto: la preghiera. Si recava a messa tutte le domeniche, o più volte alla settimana, e pregava tanto Dio che le desse un bambino. Non desiderava altro che essere madre e crescere una creatura, e non riusciva proprio a comprendere come mai il Signore stesse negando a lei, che era sempre stata tanto devota a Lui e aveva amato il prossimo come se stessa, la gioia di un figlio.
Per cui, quando alla messa della domenica il parroco Pixis parlò del trovatello sbucato sul sagrato, a donna Annedore esplose il cuore di felicità. Si baciò le mani giunte e per poco non pianse, guardando al cielo colma di gratitudine. Il Signore, si disse, l’aveva solo messa alla prova per essere certo che lei fosse degna d’essere la madre che aveva sempre sperato di diventare.
Finita la funzione, Annedore s’alzò e si avvicinò al parroco. Lui le sorrise: aveva già pensato a lei, e con il braccio teso verso la donna, le fece cenno di seguirlo. “Aspettavamo solo te, Annedore.”
La donna percorse la strada verso la canonica un paio di passi dietro al parroco, il batticuore non dovuto alla salita. Era ancora incredula, e lo rimase finché padre Erwin non le aprì la porta della stanza in cui il bimbo riposava.
Allora lo vide e si calmò. Il bambino indossava una magliettina di cotone un po’ grande (di padre Levi, la taglia più piccola tra i confratelli) che i preti avevano assicurato sotto al sederino per fare una sorta di abitino unico. Ai piedi gli erano stati messi dei calzini di fortuna che al bimbo stavano come pantaloncini, quasi. Dormiva succhiandosi il pollice, supino, con le gambette per aria e quel completo rilassamento sul viso che è esclusivo appannaggio dei neonati. La luce che filtrava dalla finestra cadeva sul letto in modo tale che, dalla porta, sembrasse di ammirare uno scorcio del Paradiso.
“Padre, non intendo muoverle offesa, ma.. Si vede che è accudito da uomini.”
Il parroco Pixis, che non conosceva l’offesa, ridacchiò piano. “E come mai?”
“I bambini non vanno fatti dormire supini… Se poi vomitano, si soffocano” spiegò la donna, appoggiata appena allo stipite della porta. Tendeva il collo, voleva entrare.
Dopo un breve scambio d’occhiate con padre Pixis, padre Erwin le fece cenno di avvicinarsi al bambino.
La donna percorse la distanza che la separava dal cucciolo con passi leggeri e si sedette sul letto senza far rumore. Accarezzò le guance del bambino, i suoi capelli castani, il suo braccino morbido e scoperto, si soffermò sulle ditine e quelle piccole, piccole unghiette…
“Come si chiama?”
“Eren.”
“Come mai questo nome?”
“L’ha scelto padre Erwin. Significa ‘santo’.”
“Nome migliore non poteva sceglierlo, padre.”
“La ringrazio molto.”
Eren aprì piano piano gli occhi dorati, si girò e li fissò in quelli azzurri di Annedore. Lei gli sorrise, ma lui scoppiò a piangere all’improvviso. Anziché spaventarsi per gli occhi da quel colore così inusuale, ma non innaturale, o chiedersi se avesse terrorizzato il bambino, Annedore gli accarezzò il pancino. “Come lo nutrite?”
“Latte.”
“Di donna?”
“…Di mucca” rispose padre Pixis, improvvisamente consapevole di avere fatto un errore!
“Troppo pesante per il pancino.. Vero, Eren?”
Lui ovviamente continuò a piangere e ad agitare le manine tutte intorno al faccino, ad arricciare i piedi e ad agitarsi un pochetto. Annedore gli passò con delicatezza le braccia attorno al corpicino e se lo portò al seno. Lo cullò qualche istante, annusando il profumo celestiale che solo i neonati hanno, e gli diede qualche tenera pacca sulla schiena. Eren fece un ruttino. Si accoccolò con la guancia schiacciata alla spalla di Annedore e si calmò. Smise di piangere.
 I due preti in piedi sulla porta restarono stupefatti dalla scena che aveva quasi del mistico. Nonostante Eren non fosse suo figlio di sangue, donna Annedore aveva avuto una forte connessione –reciproca- con il neonato. In paese, non c’era madre più adatta di lei.
“Padre..” sussurrò lei, cullando il bambino. Guardò Pixis negli occhi, con una sola domanda sul viso.
“Sì. Può.”
Lei sorrise, ed era perfino più materna dell’immagine della Madonna, mentre sorrideva di riconoscenza e teneva il braccio Eren.
“Non subito, però” precisò padre Erwin, mettendosi a sedere sul letto accanto a lei, “Mi spiace. Dev’essere svezzato da una balia. Poi potrà venirlo a prendere, Annedore, e crescerlo come suo figlio.”
Annedore guardò prima il bel prete, pensando che non le sarebbe dispiaciuto scambiare suo marito con un buon uomo come lui (più tardi avrebbe recitato due o tre Padre Nostro per l’impudicizia del suo pensiero), poi il visetto rilassato di Eren che sonnecchiava. Fu dispiaciuta, ma non triste. Giocò con una delle sue ciocche castane e rispose a padre Erwin con voce appena sognante, distante dal mondo, “Aspetteremo tutto il tempo necessario. Mio marito sarà ben felice di accogliere un figlio maschio in casa.”
In paese lo sapevano tutti: Kornelius era diventato irritabile, aveva preso anche a bere e (si diceva) a picchiare la moglie per vendicarsi del fatto che lei non riusciva a dargli un figlio, o che buttasse fuori i bambini dalla pancia perché era una donna cattiva. Era vero che Kornelius aveva preso a bere ed era diventato irritabile, ma Annedore doveva spezzare una lancia a suo favore, perché Kornelius non aveva mai mosso offese o alzato le mani su di lei. Era colma di cauta impazienza: il bambino avrebbe reso tutti più felici, in casa.
Fu con questo pensiero che consegnò Eren alle mani di padre Erwin. Prima di uscire dalla stanza, accomiatandosi, rivolse un ultimo sguardo alla figura del giovane prete seduto sul letto col bambino in braccio. Forse non era sposato, ma di certo era padre.
 
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Andava tutto bene. La balia fu trovata in fretta, il bimbo poppava di gusto, e Annedore ogni tanto veniva a fare visita per vedere Eren e ringraziare i fratelli, portando qualcosa da mangiare –un cesto di frutta, una torta- o offrendosi di rammendare qualcosa. Era radiosa: Kornelius, anche se non s’era ancora fatto vivo, aveva accettato di buon grado la proposta della moglie.
Eren poppava e cresceva, cresceva e poppava, pisciava e cacava. Era dotato di una vivacità straordinaria e di una voce fresca, tendeva le mani per farsi abbracciare, piangeva poco e con garbo. Si fece amare da subito: i fratelli gareggiavano per tenerlo in braccio, e pazienza se Eren faceva il rigurgitino di latte sulla tonaca appena lavata!
Eccezion fatta per padre Levi, che si teneva a debita distanza dal bambino. Non lo voleva toccare, soprattutto vicino ai pasti e lontano dai pasti, sia mai che Eren gli pisciasse o cacasse addosso. Non lo prese mai e poi mai in braccio, tranne in un’occasione, quando padre Erwin dovette afferrare un contenitore sul ripiano in alto e dunque, padre Levi fu costretto a tenere Eren in braccio. E che risa, che feste quel bimbo, ad essere preso in braccio dal suo adulto preferito! Anche padre Erwin sorrise a quella dolcissima scena di Eren allegro tra le braccia di padre Levi e quest’ultimo silenziosamente irritato dalle sue manine, dai suoi piedini, dal suo corpino morbido, tenero e profumato. Forse non era poi così irritato.
Si notò molto presto come Eren dagli occhi d’oro fosse incredibilmente robusto; mai una volta che s’ammalava, mai una febbre, mai un raffreddore, e le poche volte che aveva la colite, il dolore passava nel giro di poche ore. Era un bimbo straordinario, una vera forza della natura.
Non fosse stato per certe notti.
Accadeva di rado, ma quando succedeva, se ne accorgeva tutta la canonica.
Eren era silenzioso, i suoi vagiti erano modesti e somigliavano più a richiami che a capricci, e una notte di fine Luglio, quando ebbe la sua prima, vera crisi di pianto, molti dei preti furono convinti che il bimbo ci stesse rimettendo le penne per qualche malattia sconosciuta. Pianse, strillò, morse il cuscino coi denti che non aveva e s’attaccò alla tetta della balia, poppando come un indemoniato quasi per tutta la notte. Alla fine della tremenda nottata, la donna aveva un dolore acuto ai seni, e sperava con ardore che Eren non avrebbe avuto fame durante il resto del giorno.
Terminate quelle nottate di capricci, fame e sbuffi, Eren dormiva come un sasso fino al pomeriggio inoltrato, ed ogni tentativo di svegliarlo era quasi vano, figurarsi di nutrirlo. Recuperava i suoi ritmi normali solo prima di cena, quando chiedeva di mangiare ogni tre ore circa, con quei versetti brevi e incalzanti.
Nessuno parve fare caso alla continuità degli episodi di fame e capricci notturni: capitava che un bambino avesse la smania di nutrirsi, pensavano i preti e confermò anche la balia.
L’unico a non essere convinto dalla pochezza della spiegazione era padre Erwin. Alla prima notte, a dire il vero, non diede molto peso nemmeno lui. Iniziò a notare la regolarità delle nottate di follia al terzo attacco di fame, e allora decise di andare a ricontrollare sul suo diario personale in che data erano avvenute le precedenti notti folli. Con curiosità, notò come cadessero perfettamente alla fine di ogni ciclo lunare, quando la luna raggiungeva la sua pienezza.
Ma era ancora troppo presto per giungere ad una conclusione.
 
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Ci volle più di un anno prima che Eren venisse consegnato in mano agli Jaeger, ma era già stato battezzato – con dispiacere di Annedore, prontamente rassicurata dal parroco Pixis; “Guardi, Annedore, gli rimangono confessione, comunione, cresima e matrimonio!”. Lo svezzamento fu lungo, dato che il bambino rifiutava qualsiasi cosa che non fosse il latte, brutto bricconcello, e crebbe, crebbe, crebbe tantissimo. A dieci mesi aveva già detto la sua prima parola, ‘miele’, e compiuto un anno, fissato indicativamente il 30 Marzo, aveva già mosso i primi passi da solo. Era un piccolo ometto sano che mai s’era ammalato, neanche durante l’inverno, nonostante fosse circondato da preti che tossivano, starnutivano e avevano la febbre.
Era andato tutto bene. Se si escludevano quelle nottate.
Kornelius fu molto felice di avere un figlioccio sano come un pesce: si presentò in canonica solo al momento di portare il bimbo a casa, insieme alla moglie che indossava l’abito buono e si era raccolta i capelli in una graziosa treccia laterale per l’occasione. Il maniscalco Kornelius, uomo alto, dalle braccia muscolose, gli occhi e capelli scuri e un paio di baffi sotto al naso aquilino, aveva fatto lo sforzo di lavarsi e indossare vestiti puliti.
Eren tese le braccia verso la donna che già vedeva come la sua mamma, ma frignò quando lei gli disse: “Eren, questo è il tuo papà.”
“Brutto” disse il bambino, tirando la sottana della mamma. “No, no, piace no.”
Fu un inizio ch’era tutto un dire.
 
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Eren venne accolto in casa Jaeger con modesta gioia. Da una parte c’era Annedore, madre affettuosa, sempre pronta ad ascoltarlo, a prestargli attenzione e a rispondere alle curiosità del bambino, per come poteva dal basso della sua ignoranza; dall’altra c’era Kornelius, padre burbero, distante, mai una carezza o un bacio, come con la moglie. Non che volesse male al figlio, ma se gli voleva del bene, questo bene era nascosto in fondo al suo animo.
A Eren il babbo non piaceva: gli metteva tanta paura. A volte urlava forte e prendeva a pugni il tavolo prima di uscire sbattendo la porta. La mamma gli accarezzava i capelli castani e gli baciava la fronte, mentre per rassicurarlo sussurrava: “Non ti preoccupare. Papà è stanco per il lavoro.”
Eren faticava a crederle e, sebbene non avesse ancora due anni, dentro di sé era già convinto che Kornelius fosse una creatura vuota, senza amore né odio nel suo cuore.
Per il vero, Eren dimostrò fin da subito di essere un bambino sensibile. Percepiva i sentimenti degli altri come fossero suoi, e a volte la cosa lo faceva impazzire: quando Annedore piangeva, lui lo sentiva, quando il babbo era nervoso, lui stesso avrebbe voluto spaccare ogni oggetto a portata di mano. C’erano giorni in cui sentiva tutto da sotto la pelle, da dentro, e il bambino si rannicchiava sul letto a piangere e a mettersi le mani nei capelli: non capiva perché, perché si sentisse così arrabbiato, triste, frustrato, insoddisfatto senza un motivo. Annedore era tanto contenta di avere un figlio che capiva al volo i suoi stati d’animo, diceva alle comari in paese, ma non sapeva cosa Eren avrebbe dato per non sentire più niente. Eppure lui taceva, consapevole che avrebbe dato tanto dolore alla mamma se solo avesse parlato.
Lei, che soffriva tutti i giorni le fatiche di una vita povera, aveva già le piccole, grandi ansie derivate dalle strane crisi del bambino. Accadeva ogni tanto, di notte, che sentisse una manina che tirava la sua fuori dal letto, e alla debole luce della candela che andava spegnendosi vedeva i suoi occhioni d’oro che la fissavano dal buio. Aveva fame. Tanta. Ci provò, donna Annedore, a cavargli il pane di bocca, ma non ci fu modo alcuno di tenerlo a bada. Cercava di stargli vicino, ma lui faceva i capricci, piangeva, era stranito e bofonchiava cose senza senso. “Fallo smettere, mamma, fallo smettere” e le si spezzava il cuore, perché non poteva aiutare il suo bambino in alcun modo. Era davvero una madre così terribile? Così indegna di quella creatura?
Ne parlò con le comari in paese e le venne detto di rivolgersi a padre Erwin, che aveva qualche conoscenza di medicina.
 
****
 
Padre Levi scese le scale che conducevano alla biblioteca in punta di piedi, le babbucce in una mano e una mazza di legno nell’altra. S’era svegliato per una rituale pisciatina notturna e s’era accorto, svuotando il pitale dalla finestra, d’una fioca luce ballava in biblioteca. Padre Levi non era noto per essere un uomo alla buona, anzi aveva polso, forse troppo polso, e peccava di tante cose – in primis di superbia e impazienza. Era il genere d’uomo che alla minaccia di un ladro in biblioteca, reagiva con le mazzate, altro che guardie! Dieci minuti per andarle a chiamare, e mezz’ora per aspettare il loro intervento, tanto valeva sbrigarsele da soli certe faccende. E con tutto il rispetto per la sacralità, ma padre Levi non era per la quale del sacro, o per la punizione della simonia, tuttavia molti di quei testi valevano bei soldi ed era meglio se restavano in canonica.
Passi cauti e silenziosi evitarono un paio di assi rinomate per i loro scricchiolii ed il prete accostò l’orecchio alla porta della biblioteca. Tutto molto silenzioso, nessun frugare, nessuno sbattere cose in giro. Roteò gli occhi, si rimise le babbucce ed aprì la porta.
“Vai a dormire, Erwin.”
“La mazza è per convincermi?”
Padre Levi guardò la mazza, guardò padre Erwin in vestaglia, occhiali e pantofole seduto ad uno dei tavoli della biblioteca, e appoggiò l’oggetto minaccioso sul davanzale della finestra.
“Forse, se non vai a dormire.”
Padre Erwin non rispose. Tornò ai suoi libri aperti sul tavolo, al suo inchiostro e a quelli che sembravano appunti, con un sorriso sulle labbra smorzato dalla luce fioca dell’unica candela. Fu quasi in procinto di richiudere tutto quando padre Levi passeggiò fino a giungere alle sue spalle e si sporse a guardare. Ma era padre Levi. Lui poteva sapere.
Poteva anche posare le proprie mani sulle spalle di padre Erwin, nel farlo, e accarezzarle con una leggera pressione dei pollici che ricordava un intimo massaggio.
Gli era anche concesso chinare il viso vicino all’orecchio di padre Erwin e porgergli una domanda in tono molto, molto confidenziale.
“Cos’hai detto a donna Annedore, Erwin..?”
Padre Erwin aveva anche il permesso di reclinare il capo e sospirare, sfregando la guancia su quella liscia di padre Levi. “Come sospettavamo, Eren non ha smesso con le crisi. Non cessano; continuano a comparire con regolarità. Ad ogni luna piena.”
Padre Levi emise un basso grugnito nell’orecchio di padre Erwin, ed un brivido malandrino scese lungo la schiena, fino ad avvolgergli i lombi. Padre Erwin continuò il suo discorso, abbassando la voce fino a renderla un flebile sussurro. “Le ho detto quel che si dice sempre in questi casi; è la luna piena, quando i bambini fanno i capricci sotto la luna piena, stanno crescendo. Ho infarcito la spiegazione di teorie, leggi fisiche, moto lunare, anatomia. L’hanno stordita abbastanza. Cos’altro potevo dirle?”
“Hai paura.”
“Non lo nego.”
“Cosa si fa?”
Padre Erwin sospirò, mentre padre Levi, spostatosi appena sul lato, gli toglieva una macchia d’inchiostro col pollice, pallida scusa per una tenera carezza sulla guancia. La mano di padre Erwin si alzò cauta dal tavolo e le dita si chiusero intorno al polso dell’altro, l’avvicinarono con grazia al suo viso, alla sua bocca. “Si aspetta” bisbigliò sulla pelle sottile e diafana, e a fior di labbra padre Erwin percorse l’avambraccio fino al polsino della camicia da notte, in un gesto genuino e conturbante.
Lì per lì, padre Levi trattenne il respiro. Scordò di che si parlava; credette che padre Erwin gli stesse ricordando della pazienza che doveva portare. Non l’aiutarono le mani sui fianchi e lo sguardo di lui, dal basso. “Nient’altro possiamo fare. Aspettare.”
Padre Levi deglutì. Infilò le dita tra l’oro sul capo di padre Erwin e accarezzò la seta tra le ciocche. “Cos’aspettiamo?”
Le dita scesero tra i corti capelli sulla nuca, provocando un brivido in padre Erwin.  “Uno sviluppo.”
“Qual è il tuo parere?”
“Dobbiamo tenere d’occhio il bambino.”
“Lo dici come se avessi già predisposto tutto.”
Un sorriso colpevole sulla bocca di padre Erwin. “Ho convinto Annedore a portarci Eren qui quando ha una crisi. Un po’ di preghiera, le ho detto, gli farà bene.” Le sue mani opportuniste s’avvantaggiarono della distrazione di padre Levi per risalire lungo la sua schiena. Il peccato era nulla se non un miraggio lontano, un costrutto per manipolare le coscienze degli uomini, quand’erano da soli. Eppure fino a quel momento era esistito ancora un briciolo di riluttanza. Sparì, quel ridicolo briciolino.
“Mi rifiuto di passare la serata a vezzeggiarlo.”
Sul viso di padre Erwin comparve un’espressione maliziosa, e padre Levi gli tirò un orecchio per questo. Ma gradì. “Non credo ce ne darebbe modo, comunque. Lo studieremo.”
“A guisa di un topo.”
“Nient’altro possiamo fare. Dobbiamo capire. Dobbiamo conoscere” e con quest’ultima parola, padre Erwin affondò il viso nel ventre di padre Levi e mordicchiò la sua pelle attraverso le vesti profumate di sapone di Marsiglia.
Padre Levi sussultò; che impeto! Strinse le mani alle sue spalle, ed odiò ed amò la sua sete di conoscenza per il resto della notte, nella maniera più biblica che esiste.
 
 
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Eren Jaeger era un bambino solo.
A Eren Jaeger non piacevano le persone, la gente, il chiacchiericcio; e alle persone non piaceva Eren Jaeger.
Il paese chiacchierava da anni del figlio degli Jaeger. Era un bambino strano, dicevano, chiuso in se stesso, perso nel suo mondo, chiacchierone con gli animali, soprattutto i cani, e muto come un pesce con le persone. Aveva degli occhi gialli che facevano paura, e lo sguardo fisso ad aggravare la situazione. I suoi occhi mettevano a disagio, e incutevano timore, statici e selvaggi come quelli di un animale del bosco. Erano messi in soggezione, i paesani, dallo sguardo che sembrava scrutarli e giudicarli, metterli a nudo da lontano. Alla gente mica piace il giudizio.
Ben presto, Eren si guadagnò la fama di ‘bambino inquietante’, di ‘forestiero’,  di ‘attaccabrighe’, di ‘ritardato’, addirittura di ‘mostro’. C’era quest’idea al paese che lo voleva ritardato per la sua scarsa loquacità: alla sua età, i pupi era un miracolo se stavano fermi, sempre lì a saltare come scimmie e chiedere perché questo, perché quello, ma il figlio degli Jaeger no. Non c’era creatura più tranquilla e meno vivace di lui. Lo si poteva vedere correre dietro alle lucertole e parlottare coi cani che l’ascoltavano assorti, ma bastava che qualcuno gli si avvicinasse che il bimbo scappava via, o in casa, o in bottega o nel fienile. Non gli piaceva essere toccato da nessuno, eccezion fatta per mamma Annedore, padre Erwin e padre Levi. Un po’ anche gli altri confratelli si salvavano, dopotutto.
E nel fienile si rifugiava spesso. Lì, nascosto dietro ad un cumulo di paglia e nascosto da una coperta tutta sbrindellata, il bambino piangeva finché non crollava addormentato. Donna Annedore s’inteneriva sempre quando lo trovava a sonnecchiare nel fieno. Se solo avesse saputo il dolore che covava il suo bambino.
Eren aveva imparato, con fatica e impegno, a controllare la sua sfrenata empatia. Fu padre Levi a spiegargli come fare: gli parlò d’immaginare se stesso all’interno di alte mura, con una piccola porticina che avrebbe aperto solo quando avrebbe voluto fare entrare le emozioni che desiderava lui. Era piccolo e asociale, perciò non gli chiese perché agli altri bambini non capitasse. Non gl’importava dei coetanei che per la maggior parte gli lanciavano sassi, terra e anche peggio – non aveva la fama di attaccabrighe per l’anima del nulla.
Eren si rifugiò dentro alle alte mura della sua mente e si accovacciò in un angolo. La porticina era piccola piccola e non si apriva quasi mai: il più delle volte era solo socchiusa, quel che bastava a fare entrare una bava di vento. Aveva solo otto anni quando sviluppò la matura consapevolezza di non essere a posto tra la gente del paese. Passava le sue giornate tra la bottega del severo e distante padre e la canonica, dove si rifugiava, più o meno metaforicamente, tra le braccia di chi poteva chiamare padre col cuore: padre Erwin e padre Levi. Una volta chiese loro se la mamma poteva trasferirsi in canonica e sposare tutti e due, così sarebbero stati una bella famiglia unita; padre Erwin rise di gusto della beata innocenza, padre Levi si spalmò la mano sulla faccia con un sospiro esasperato.
La creatura non stava affatto bene in paese, per niente, tant’è che Eren iniziò a fingersi ritardato. Lo fece molto presto, all’incirca sui cinque anni. Non era mai stato un bambino molto chiacchierone, ma le sue chiacchiere diminuirono sensibilmente con l’andare del tempo, più cresceva la certezza che l’avrebbero almeno lasciato stare, se si comportava come uno che non capiva niente. Qualche botta l’aveva presa per questo, ma l’aveva restituita, tranne gli schiaffoni del padre che rognava a gran voce, “Zingaro e pure deficiente!”.
Ma per essere deficiente, il bambino imparava con una velocità sorprendente il mestiere di maniscalco. A nove anni era diventato garzone di bottega a pieno titolo, e Kornelius, che non dovette più insegnargli nulla, ammise d’avere preso proprio un enormissimo granchio quando lo schiaffeggiava dandogli dell’inetto. Era sì, tocco, ritardato, ma non era stupido. Capitavano persone un po’ così, lente a comprendonio con il fare sociale, ma svelte come purosangue arabi con il fare delle mani, e andavano bene. Anzi, Kornelius era quasi più contento: Eren gli preservava il prezioso silenzio con cui amava lavorare e svolgeva ogni mansione senza lamentarsi, senza un capriccio, senza un’obiezione. Il figlio e il lavoratore perfetto, Eren, che mangiava poco, dormiva il giusto e s’impegnava fino al calar del sole.
Eren Jaeger dava l’impressione d’essere una creatura che aspetta, in silenzio, nel suo angolo, che la tempesta passi. Dove andare, cosa fare? domande colme di frustrazione, confusione e rabbia che, se le si sapeva cogliere nel momento giusto, aleggiavano sempre sul suo viso altrimenti apatico.
Eppure nelle notti di luna non c’era mai apatia in lui.
E fu così per almeno vent’anni.
   
 
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