Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: GuessWhat    01/11/2014    1 recensioni
LONG SOSPESA // Weiβdorf, nella bassa Germania, è un qualunque villaggio di montagna, con i suoi problemi, le sue piccole gioie e le sue sporadiche razzie di bestie feroci ai danni dei pastori. Storia vecchia, almeno fino a che i cacciatori cominciano a scappare terrorizzati dalla montagna, urlando di guardarsi dalla maledizione del lupo.
"Eren Jaeger dava l’impressione d’essere una creatura che aspetta, in silenzio, nel suo angolo, che la tempesta passi. [...]
Eppure nelle notti di luna non c’era mai apatia in lui.

[Werewolf!Eren; hunter!Jean]
[Eren/Jean pairing principale; accenni di Erwin/Levi]
Storia scritta in occasione di Halloween. Buona notte delle streghe!
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren, Jaeger, Irvin, Smith, Jean, Kirshtein
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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“Uooh—“
Il cacciatore fermò il cavallo al bivio e frugò nella catana di pelle da cui estrasse una mappa tutta spiegazzata della zona. La girò, la rigirò, la ripiegò e poi l’aprì per consultarla di nuovo e, quando fu sicuro di essere sulla strada giusta, spronò il cavallo a continuare per il sentiero che s’inoltrava nel bosco fitto ai piedi della montagna.
Il giovane giunse in paese che era mezzodì, con un orso che gli grugniva nella pancia al posto dello stomaco e gli occhi di tutte le signorine e signore addosso. Le più anziane di loro si ricordavano dell’arrivo in città di padre Erwin circa una ventina d’anni prima: imbacuccato in un grosso sciarpone e tutto stretto in un lungo cappotto, il bel giovane aveva infiammato non pochi cuori e fatto girare non poche teste, e non vi dico la tristezza delle signore quando si scoprì che l’avvenente ragazzo non era altro che un prete. Il nostro cacciatore, invece, non destò alcun dubbio fin da subito, vestito di panno e pelliccia, fucile in spalla e catana: era un giovanotto carino, abbastanza alto, e ben messo, con corti capelli biondi spettinati, rasati all’altezza della nuca e il viso liscio, come quello di un bambino.
Si sapeva che sarebbe giunto un cacciatore straniero, uno francese che girava di città in città: una faccia nuova ed attesa non può che far scalpore in paese e le voci corrono, tant’è che quando il ragazzo giunse alla prima locanda che scorse dopo un giretto del posto per imparare le vie, l’oste già gli fece trovare il tavolo pronto.
“E così voi siete il nostro cacciatore! Che vi porto?” disse l’uomo mentre si puliva le mani sul grembiule lercio.
“Così pare, signore – pane, formaggio, e vino, grazie” gli rispose il giovine, appoggiando il fucile portato a spalla sulla panca di legno.
“Non siete di qua, vero?” e rise tra sé l’oste, divertito da non si sa che.
“Un po’ di qua, un po’ di là. Io viaggio molto, mi sposto di città in città; se c’è bisogno di uno che spara a una bestia molesta, io sono l’uomo che andate cercando.”
L’oste sembrava sul punto di rovesciarsi a terra dalle risate. “Ah—ah, e come si chiama il nostro cacciatore?”
“Jean Kirschtein.”
“Ahh… Jean Kirschtein” ridacchiò e sparì dentro, lasciando Jean e cavallo legato davanti alla locanda da soli.
Che cazzo avesse quello da ridere, solo Dio lo sapeva, ma fu chiaro il motivo quando il proprietario ritornò con il vassoio colmo di assaggi di formaggi, pane e un boccale di birra. “Scusi la birra sa, cacciatore –o dovrei dire chasseur?- ma qui non siamo raffinati come in Francia, non c’è vino nelle locande. ”
Jean era troppo stanco ed affamato per litigare con quell’idiota dell’oste. Congedò l’uomo e la sua cretinaggine e si avventò sul cibo. Maledizione al suo accento e alla stupidità dei crucchi.
Era arrivato in paese da poco meno di un’ora e già voleva tornarsene in Francia. Aveva sentito voci sulle belle donne tedesche, alte, dai seni torniti, capelli biondi come il grano, occhi azzurri e labbra carnose, ma finora di vero c’erano solo i capelli biondi. Donne e donnine s’erano girate verso di lui al suo ingresso nella strada principale e l’avevano salutato con fare civettuolo: basse, molte di loro grasse, e se non brutte – decisamente non belle. Le graziose erano fin troppo piccole, forse avevano le mestruazioni da poco più di un anno e le altre parevano essere accompagnate da un uomo. Una gran delusione: in questo villaggio non si sarebbe cuccato! Neanche gli uomini erano belli, per la miseria, non c’era nemmeno l’altra metà della consolazione. Non gli restava altro che pensare al guadagno, giunto a questo punto – e lui che sperava, come in tutte le città, di divertirsi un po’!
Il lavoro ch’era venuto a fare era uno abbastanza semplice. In soldoni, negli ultimi anni c’erano stati alcuni attacchi alle bestie domestiche del posto: ora spariva una mucca, ora un cavallo e ora qualche pecora, niente di nuovo in montagna – ma un giorno la comunità dei vari villaggi si ruppe i coglioni e decise di chiedere al governatore giù in città di pensare un attimo a questa faccenda che iniziava ad essere snervante. Le genti assicuravano che si trattava di un lupo solitario che vagava sui monti e ogni tanto scendeva vicino ai luoghi abitati poiché, nelle notti che precedevano la scomparsa del bestiame, il cielo era scosso da terribili ululati. Jean aveva accettato l’incarico: non gli piaceva troppo cacciare i lupi, erano fiere rognose che giravano principalmente di notte e lui odiava cacciare di notte, ma il denaro che scarseggiava non gli aveva lasciato molta scelta.
Il governatore lo aveva mandato su, a Weiβdorf, uno dei villaggi più colpiti dalla cosiddetta ‘maledizione del lupo’, lasciandogli indicazioni per l’alloggio. Qualunque cacciatore avesse voluto rispondere all’annuncio aveva l’obbligo di sostare presso i frati di Weiβdorf. Per quale motivo, poi? Non poteva affittare una stanza qualunque alla locanda? Certo, i suoi risparmi gli sarebbero stati grati – ma che palle.  Villici che credevano alle maledizioni, frati, donne brutte e osti scortesi: Dio, che inizio grandioso!
Terminato e pagato il suo pasto, Jean si fece guidare dalle indicazioni dei paesani fino al sagrato della chiesa, un edificio tozzo e spoglio che non poteva eguagliare i suoi gioielli francesi. Crucchi, tch. Jean legò il cavallo lì davanti ed entrò in chiesa dopo circa… Dieci anni, o forse più.
Davvero avrebbe preferito non doverci mettere piede. C’era puzza d’incenso, cera e polvere, e le strette finestrelle simili a feritoie d’un castello lasciavano filtrare ben poca aria e luce, col solo risultato di un ambiente buio, a tratti persino tetro. L’esterno era il preludio dell’interno, un posto spoglio, scarno e del tutto disadorno: se c’erano decorazioni alle pareti, erano difficili da indovinare attraverso la fitta penombra. Jean fece un passo in avanti verso la navata centrale e provò un dolore fortissimo alla nuca.
Si girò di scatto col pugno alzato pronto a colpire l’aggressore, ma quel che vide lo lasciò di stucco.
Alle sue spalle c’era un prete che reggeva un grosso smorza candela da chiesa come un bastone da combattimento. Era un uomo basso, moro, dagli occhi grigi che lo scrutavano truci. Jean l’avrebbe scambiato per un ragazzino, non fosse stato per lo sguardo maturo, dato che quella faccetta piccina ricordava quella di un moccioso. Quasi.
 “Il segno della croce” disse.
“Cosa?”
“Fatti il segno della croce.”
Ora doveva aggiungere anche i preti violenti alla lista di cose spiacevoli, pensò Jean nell'avvicinarsi all'acquasantiera. Si tenne per sé il suo pensiero sull'ipocrisia del gesto a cui non credeva, dato che lo smorza candela e l'uomo che lo reggeva non suggerivano affatto clemenza nei suoi confronti, e si fece il segno della croce con due dita bagnate di acqua ghiacciata.
Il prete abbassò l'arma impropria lungo il fianco e annuì. Era soddisfatto? Contrariato? La sua espressione era indecifrabile.
"Chiedo scusa, cercavo proprio un prete, ma non mi aspettavo un incontro del genere, padr--" non fece in tempo a finire la frase che lo smorza candela lo colpì alla spalla. Ma che cazzo aveva quel prete maledetto?
"Non voglio armi nella mia chiesa" disse il prete, indicando il fucile con un cenno del mento.
Concesso che, in effetti, il prete aveva ragione, Jean non riuscì a tenere la linguaccia a freno. "Disse il prete che usa lo smorza candela come mazza chiodata!"
L'uomo lo fulminò, anzi lo bruciò con gli occhi, dal basso della sua altezza. A Jean i preti e la gente di chiesa non erano mai piaciuti, ma questo monaco in particolare sembrava un diavolo con l'abito sacro. Era a dir poco spaventoso, quasi quanto il silenzio che era caduto pesante sulla chiesa.
Per un attimo, il cacciatore sentì il metallo dello smorza candela in testa, ma non accadde niente di tutto ciò. Dopo un lungo respiro ed un ultimo sguardo indagatore, il prete si mise lo smorza candela sottobraccio.
"Tu devi essere il cacciatore. Dico bene?"
"Come dite voi, padre."
"Sei un pazzo."
Jean inarcò un sopracciglio. "Si tratta del mio mestiere, padre, faccio questo da--"
"Sì, sì, da quando eri alto così, il papà ti ha insegnato a tenere in mano il fucile prima che il tuo attrezzo, hai imparato a piazzare trappole ancor prima di camminare, le solite vecchie storie che tutti quelli della tua risma raccontano ogni volta."
Il cacciatore sgranò gli occhi. Un prete che parlava chiaramente di gioielli di famiglia senza farsi alcuna remora? E dentro alla chiesa, la casa del Signore? Persino lui, tutto fuorché religioso, rimase a dir poco sbalordito. Tuttavia fu un altro particolare ad attirare davvero la sua attenzione.
"C'è stato qualcun altro prima di me, padre?"
L'uomo fischiò e roteò gli occhi, per poi alzarli al cielo. "Più di quanti ne avrei voluti ospitare. E non m'illudo che tu sia meglio. Sono tutti scappati, gambe in spalla, gridando mamma e al lupo, al lupo."
Jean ripensò alla sua bella bicocca (che non possedeva) nel sud della Francia, da quanto tempo non ci tornasse, e quanto necessitasse di una bella spolverata; chissà, poi, se erano entrati i ladri mentre lui era via.
"Ma ormai sei qua. Seguimi, ti porto dal parroco" disse il prete, girando sui tacchi, smorza candela in spalla dritto come l'asta di una bandiera, e si avviò lungo la navata.
"Scusatemi, padre, ma il mio cavallo è là fuori con tutti i miei averi."
Il prete si voltò e gli lanciò un'occhiata di sufficienza. "Ti aspettiamo in canonica, allora. Segui la salita qui di fianco fino alla grande casa. Di' che ti manda padre Levi e lì qualcuno ti metterà il tuo cavallo e la tua roba al sicuro."
Levi non gli sembrava un nome molto adatto a un prete cristiano, ma tacque. Neanche il suo nome da damerino era il più indicato per un cacciatore.
 
 
****         

In attesa davanti allo studio del parroco, Jean ebbe modo di riflettere. Era un uomo senza Dio. Lo era stato fin da quando aveva memoria. Neanche la sua famiglia era poi davvero religiosa, forse un po' sua madre, solita alla preghiera prima di coricarsi o ogni volta che figlio e marito uscivano a caccia. Dio era una mezza fandonia, e così ogni genere di leggenda, nonostante i suoi fossero persone superstiziose. Il padre rideva in faccia ai paesani che tiravano in ballo i lupi mannari, agitando una testa d'orso  appena recisa davanti ai loro occhi, ma stava bene attento a toccare ferro quando passava il medico per strada.
Quante assurde fandonie. Lupi mannari, e poi, cos'altro doveva aspettarsi? Vampiri, demoni e streghe che ballavano attorno ad un falò? Ma per favore! Se Dio non bastava, il villico si aggrappava alla minima stupidaggine per spiegare un lupo più grosso del solito, magari solitario e per questo molto più affamato di un lupo all'interno di un branco. Jean scrollò le spalle e si passò una mano tra i corti capelli biondi scompigliati; non fosse stato per i soldi, avrebbe già preso su il suo cavallo e sarebbe partito alla volta della città successiva. Non poteva proprio reggere l'imbarazzante ignoranza della gente del posto.
La faccia di padre Levi fece capolino dalla porta e con un gesto del mento, gli fece capire di entrare.
Jean si fece avanti con il dovuto rispetto e ad attenderlo trovò il parroco, di fatto prima bella presenza di  Weiβdorf. Chiaramente sulla quarantina, biondo grano, aveva due grandi occhi cerulei che lo scrutavano indagatori da dietro occhiali da vista cerchiati di corno. Un sorriso spezzò l’aspetto austero del suo viso squadrato, reso affilato e marcato da sopracciglia spesse e sporgenti zigomi che potevano tagliare il burro. Portava i capelli molto corti dietro e con la riga da una parte davanti, il che contribuiva a conferirgli un’aria ancor più autorevole e ordinata.
“Il nostro cacciatore, giusto? Piacere di conoscerti, sono padre Erwin”.
“Piacere mio, padre” disse Jean, chinando il capo in cenno di rispettoso saluto. Si sentiva nudo senza il suo fucile, rimasto giù nell’ingresso. “Sono il vostro uomo.”
“E dimmi, qual è il tuo nome? Siediti, giovanotto.”
Jean eseguì, mettendosi a sedere di fronte al parroco, a dividerli solo la scrivania lustra. Padre Levi si trovava in un angolo della stanza, in apparenza riordinava dei libri, ma a Jean dette l’impressione d’essere lì per origliare. “Jean Kirschtein, padre” e tacque, non sapendo che altro dire. L’uomo lo faceva sentire insieme benvenuto e a disagio. In vita sua non aveva mai incontrato dei preti così strani, e a stranirlo era proprio il fatto che non riuscisse a dire cosa di preciso lo scombussolasse.
“Sei francese.”
“Si sente dall’accento” commentò sarcastico Jean.
Il prete sorrise ancora. “Ma parli bene il tedesco.”
“Mio padre era di queste parti, più o meno, e come me ha passato metà della sua vita a zonzo tra Francia e Germania. Ha imparato la lingua parlando con la gente. Poi in un villaggio della Francia ha incontrato mia madre e lì si è sistemato.”
“Sarebbe davvero curioso se anche tu seguissi le stesse orme di tuo padre, se trovassi una sistemazione qui. Chissà che piano ha il Signore per te.” commentò il parroco.
Jean iniziava a chiedersi il motivo di tutte quelle chiacchiere, ma storse comunque il naso all’idea di doversi stabilire lì: com’era chiaro che stava parlando con un prete. Non aveva visto le racchie giù in paese?
“Ahah” ridacchiò affabilmente padre Erwin, “Suppongo che preferiresti continuare a girovagare tra i boschi di Francia e Germania. Comunque, veniamo a noi. Sarai ospite presso il nostro convento, pasti e alloggio compresi, non sentirti in obbligo di darci una moneta. Le offerte sono ben accette, ovviamente” e il modo in cui il santissimo prete s’affrettò ad aggiungere il piccolo particolare fece sorridere Jean, “Considerati ospite. Prego, avvicinati” disse l’uomo mentre si alzava dalla scrivania e si avvicinava al finestrone alle sue spalle, “Da qui puoi vedere la dimora in cui alloggerai. È una sorta di modesto ricovero d’emergenza per poveri, persone in difficoltà e altri ospiti eccezionali, come gente del tuo calibro.”
A stargli accanto, Jean s’accorse di quanto padre Erwin svettasse sopra di lui. Si era già tappato il naso, immaginando l’odore di chiesa e di vecchio che circondava sempre i preti, ma rimase sorpreso nel constatare che aveva quasi un buon profumo. Gli ricordava panni puliti non con la sola acqua, ma anche con l’uso del sapone.
“Riteniamo sia più adatto farti riposare in un alloggio separato.”
“Anche perché io non ce lo voglio a girare per i corridoi del convento.”
“Levi!” lo rimbrottò accigliandosi padre Erwin.
Padre Levi alzò le spalle e tornò ad occuparsi dei suoi libri. Jean, dal canto suo, cominciava a sentire di nuovo imbarazzo. C’era una domanda che gli stava dando prurito da un po’ e ne approfittò per spezzare il silenzio, guardando padre Erwin dal basso verso l’alto.
“Quanti altri cacciatori avete ospitato prima di me? Padre Levi mi ha parlato di uomini come me, scappati a gambe levate.”
Sugli occhi azzurri di padre Erwin scese un’ombra scura. S’allontanò dal ragazzo e tornò a sedere alla scrivania, silenzioso e fors’anche un poco cupo.
“Non intendo spaventarti, ma dato che lo domandi, tu sei il sesto. Gli altri sono fuggiti nel giro di qualche mese, ed ognuno di loro urlando che il villaggio era maledetto e nessuno sarebbe stato in grado di aiutarci.”
Jean rise e subito si coprì la bocca con la mano. Tutto ciò era semplicemente ridicolo! “Chiedo scusa, padre” bofonchiò, “Ma erano degli inetti. Nessun cacciatore degno di questo nome scapperebbe urlando come una donnetta.”
Né padre Erwin né padre Levi si espressero sulla pochezza del cacciatore e lo lasciarono continuare. Eppure Jean sentì nuovamente l’imbarazzo salire.
“Le maledizioni non esistono. Ci scommetto che si tratta solo di un grosso orso o di un grosso lupo solitario che li ha colti di sorpresa! Lo saprete meglio di me, padre, che certe eresie sono frutto della follia. Magari questi cacciatori avevano alzato un po’ troppo il gomito, ah! Ma non temete. Con me non resterete delusi” e Jean si batté il petto con il pugno chiuso, annuendo energicamente. Era sicuro di sé, forse troppo per i gusti dei due uomini di chiesa che lo scrutavano con una certa diffidenza, uno più dell’altro, difficile dire chi.
“Molto bene” padre Erwin frugò nel cassetto della scrivania fino a tirare fuori un mazzo di chiavi. “Queste sono tue per il tempo a venire, giovanotto. Buon lavoro. A proposito” aggiunse, non appena Jean prese le chiavi, “Quando hai in programma di andare a cacciare?”
“Entro stanotte stessa” lo informò Jean, intascandosi le chiavi, “Intendo togliere sia a voi che a me questo peso il prima possibile.”
“La luna è piena, questa notte.”
Padre Levi parlò dal suo angolo della libreria, dandogli le spalle. C’era una serietà cimiteriale nel suo tono tale da far scendere un brivido lungo la schiena di Jean. Suggestione! Non poteva essere altro.
“Non caccio mai di notte, padre.”
Il prete si girò lentamente e l’inchiodò sul posto coi suoi occhietti grigi. “Allora avrai ben poche possibilità di prendere il lupo.”
Un altro brivido scivolò lungo la schiena del cacciatore. Sbatté le palpebre e deglutì, per poi guardare prima padre Erwin, in seguito padre Levi, entrambi di colpo silenziosi ed imperscrutabili.
Jean ridacchiò e diede un colpetto alle chiavi nella tasca dei pantaloni. “Con il dovuto rispetto, padre, ma staremo a vedere. Ringrazio entrambi e la vostra chiesa per l’ospitalità” rivolse un cenno del capo ai due uomini ed arretrò verso la porta, ancora quel sorrisetto nervoso sulla faccia. “Arrivederci.”
Non ricevette alcuna risposta e si disse che magari era normale, magari con il suo accento non si era capito ed i due erano troppo educati per fargli notare l’errore, chiedere delucidazioni. Doveva essere così, erano preti, dopotutto.
Poco prima di chiudere la porta, padre Erwin gli diede voce.
“Che Dio t’assista”, e suonò più come un augurio colmo di false speranze che una comune forma cattolica di saluto.
Jean non vedeva l’ora di andarsene da Weiβdorf.
 
 
 
****
 
Jean fece né più né meno di quanto aveva annunciato ai preti. Sistemò le proprie poche cose nel rifugio di fortuna, che poi tanto di fortuna non era –sarebbe piaciuto a lui, potersi permettere due camere da letto, una stanzetta con gli utensili da cucina, stufe in quasi tutte le stanze e un luogo per pulirsi-, s’imbottì nel suo pastrano col collo di pelliccia, caricò le trappole in sella, pulì e lustrò il fucile, sporcandosi le dita di sego e polvere da sparo, montò a cavallo e partì verso il bosco.
Mano a mano che si allontanava da Weiβdorf e i tronchi degli alberi iniziavano ad infittirsi lungo il sentiero, in Jean si piantava la certezza che quel posto fosse abitato solo da una marmaglia superstiziosa. Come si poteva essere così vigliacchi da impuntare ad una grossa bestia il bollo di maledizione? Dovevano essere tutti matti, ed ignoranti, ma a stupirlo erano i suoi colleghi cacciatori. O erano cinque incompetenti, o cinque pisciasotto, o cinque inesperti. O eventualmente, un insieme di tutte e tre le cose.
Si lasciò tutte le baggianate alle spalle, rallentando Jonah –il cavallo- tra gli alberi fitti. Lo assicurò ad un tronco, prese le sue trappole, il fucile a mano, e via nella boscaglia. Lungo la strada Jean aveva già fermato qualche abitante della zona e si era fatto indicare i pascoli e le fattorie: individuato qualche appezzamento con le bestie mentre risaliva in paese, aveva una vaga idea di dove andare.
Il cacciatore andò avanti a piazzare trappole e cercare tracce o orme per tutto il pomeriggio. Non ottenne molto a dire il vero, se non tanta frustrazione. Niente orme, niente impronte, niente che desse da pensare ad un lupo o ad un orso, neanche gli escrementi. Jean si disse che ciò fosse molto strano, ma che il suo era un mestiere tutt’altro che semplice, specie se il terreno da battere era nuovo e molto ampio. Sì, era stato decisamente troppo sicuro di sé nell’affermare che sarebbe riuscito ad ammazzare la bestia nel giro di poche ore. Avrebbero avuto ragione, i preti, a ridere di lui alle sue spalle! Con che faccia si ripresentava in canonica…
Con un sospiro balzò in sella, già nell’animo di passare il giorno dopo a controllare le trappole ben piazzate. Iniziava a farsi scuro, da lontano il cielo appariva violetto, impreziosito qui e là da qualche stella: un panorama davvero meraviglioso, ma per il materiale cacciatore significava solo che era giunto il momento di levare le tende e mettere del pane sotto ai denti. Così Jean spronò Jonah a tornare in paese, erano entrambi affamati e stanchi.
"Allora, com'è andata la battuta di caccia? Preso il lupo?" lo canzonò padre Levi in refettorio, non appena vide scendere le scale il giovane cacciatore, in apparenza ancora fresco come una rosa.
Jean, piccato, storse la bocca. "Dovunque sia quella bestia, è molto brava a non lasciare una traccia che sia una."
"Poverino" continuò il prete, mettendosi in fila per il pasto. Jean si posizionò alle sue spalle, molto contrariato ma muto. Era stato stupido e troppo sicuro di sé, anche se non l'orgoglio era tale che non l'avrebbe ammesso davanti al prete basso e antipatico.
"Ho piazzato trappole vicino a pascoli e fattorie. Quella bestia non avrà vita lunga, padre! Può contare su di me!"
"Ah. Se lo dici tu c'è da fidarsi" gracchiò padre Levi. Prese il piatto che gli veniva offerto dal fratello cuoco e scivolò via, facendo sentire Jean molto stupido per non avere avuto la possibilità di controbattere. Il prete cuoco a stento trattenne un risolino, nel riempire il piatto di riso bollito a quella macchietta del cacciatore francese.
Che gran figure di merda stava accumulando, pensò Jean nel sedersi ad un tavolo libero, il più lontano possibile da padre Levi, il quale si era accomodato di fianco a padre Erwin con cui parlava fitto fitto e a bassa voce. Il parroco chiese l'attenzione dei presenti per recitare un Padre Nostro di ringraziamento, che Jean bofonchiò controvoglia, sbagliando qualche parola e facendosi pure il segno della croce con la mano sinistra.
Il riso sapeva di vecchio, sempre meglio di certe altre sbobbe che aveva ingurgitato, e d'altronde Jean ne era conscio: non poteva aspettarsi granché dal refettorio di una chiesa. Come si dice, era ciò che passava il convento. Niente che un buon boccale di birra non potesse aggiustare, tuttavia! In paese c'era l'imbarazzo della scelta per quanto riguardava le osterie. In teoria, e anche in pratica, Jean doveva avere abbastanza danaro per permettersi ben più di una bevuta, ma volle comunque contare le monete in suo possesso. Un gesto assai volgare nel refettorio di una chiesa, cosa di cui Jean non si curava neanche per idea. Palpò il fianco destro, poi il sinistro, poi il petto e frugò nelle tasche, ma del borsello non c'era alcuna traccia.
Jean iniziò a sudare freddo.
"Va tutto bene?" gli chiese padre Georg, oramai molto anziano, mentre passava a ritirare i piatti vuoti, "Sembri avere visto il fantasma di tuo nonno."
"No, padre, sto bene" mentì Jean, alzandosi in piedi senza aiutare il prete a sparecchiare. Non un 'grazie', né un commento sul cibo; fuggì dal refettorio con le mani piantate nelle tasche e il collo incassato nelle spalle, tutto accigliato in viso. Questa non ci voleva! Diavolo!
Possibile che alle sfortune si fosse aggiunta anche questa? Si morse forte la lingua lungo il tragitto verso la casetta, o più bestemmie sarebbero volate dalle sue labbra. Prese a frugare disperatamente per tutti i luoghi della casa che aveva battuto, ma non trovò neanche l'ombra del borsello. Per quanto rovistasse come un matto, i suoi preziosi risparmi non salvavano fuori. Ed era un male.
Camminando avanti e indietro nell'ingresso e tormentandosi le unghie, Jean pensava più veloce di un lampo. L'ultima volta che, a rifletterci, ricordava di avere toccato il borsello era stato nel bosco mentre piazzava le trappole.
Si buttò a sedere sul letto con le mani nei capelli e un cupo lamento: che palle! E adesso? Non poteva permettersi di lasciare i suoi soldi là fuori, non aveva la più pallida idea di chi frequentasse i boschi di notte, se i briganti o gli accattoni in cerca di riparo. Di sicuro, di notte circolavano i lupi. Le bestie feroci.
Jean guardò fuori dalla finestra e la luna piena gli sorrise beffarda. Bella stronza che se ne stava appesa lassù in alto e rideva di lui e di tutte quelle patetiche leggende! Gli tornarono in mente le parole di padre Levi e la sua faccia inquietante, e Jean scacciò prontamente quel pensiero, sostituendolo in fretta con l'immagine di due glutei sodi, maschili o femminili non aveva importanza, in cui crogiolarsi. L'immagine impudica sortì il suo effetto.
Si chiese cosa valesse di più, se la vita o i suoi soldi, e si rispose che dai suoi soldi dipendeva la sua vita. Ma non si nascose di essere scocciato tanto quanto spaventato. C'erano dei pazzi suicidi che uscivano per cacciare di notte ma lui no, si teneva ben lontano dai boschi - di solito! Guarda te che disordine nei suoi stessi principi, e tutto in una sola giornata. Gli sarebbe servito da lezione, lo sapeva, dato che teneva alla sua pellaccia e si convinse pure che l'avrebbe venduta cara mentre, appena tremante di paura, afferrava la lanterna e il fucile.
Arreso al destino di pazzo suicida, Jean mise il naso fuori dalla comoda casetta ed inspirò l'aria pungente dell'autunno tedesco. Se ne riempì bene i polmoni ad occhi chiusi, e fu come l'ultimo schiaffo sul sedere di un cavallo per convincerlo a partire al galoppo: la paura divenne determinazione e lui si fiondò nella fitta notte scura.
 
****

Nella stanza, illuminata a fatica da una candela quasi del tutto consumata, riecheggiò un tetro scardinare. La libreria si aprì, ed è corretto dire così, dato che si trattava di una porta abilmente camuffata da cui sbucò la piccola figura di padre Levi.
A passettini silenziosi raggiunse il suo compagno da dietro e gli accarezzò i capelli.
"L'hai visto anche tu?"
"Assolutamente sì."
Padre Levi scostò appena le tende pesanti. "Credevo che non volesse cacciare di notte."
"Possibile che sia uscito per una birra?"
Il tono di padre Erwin era poco convinto e padre Levi gli scoccò un'occhiata che non ammetteva scuse. "Col fucile in spalla?"
Padre Erwin sospirò e si alzò dalla sedia davanti alla finestra. Era agitato e nervoso, ma lo nascondeva molto bene - per gli altri. Non per padre Levi, che scorse nella mano sfregata sul viso il timore dell'altro. Prese il suo polso e ottenne la sua attenzione.
"Sei preoccupato."
Padre Erwin chiuse gli occhi e diede l'impressione di essersi tolto un peso. Parlò con voce stanca, un poco triste. "So che nessuno di loro porta a termine il suo compito e mi rincuora. Ma non posso fare a meno di sentirmi in colpa e complice."
Padre Levi gli prese le mani e le strinse con le sue. La sua bassezza rispetto a padre Erwin lo metteva spesso a disagio, tuttavia non fu in grado di farlo in quel preciso momento: il suo cuore batteva sempre alla stessa altezza del petto del suo amato. Il quale non era il Signore.
"Se sei colpevole e complice, lo sei con me. Ricordatelo."
Era una magra consolazione, ma padre Erwin non glielo disse. Le parole sincere di padre Levi furono già più che sufficienti a strappargli un sorriso e a farlo sentire meno solo.
Allargò le braccia e si liberò dalla presa di lui, solo per catturarlo in un tiepido abbraccio, vicino al proprio corpo. Padre Levi si lasciò pacificamente rubare, così come aveva sempre fatto dai primi tempi della loro conoscenza più intima. Non avrebbe mai dimenticato la voce di padre Erwin attutita dal separatorio di legno del confessionale mentre con termini chiari gli confessava il suo amaro peccato; padre, io desidero un uomo, desidero voi come si dovrebbe fare con una donna prima di portarla all'altare. E talvolta, il mio pensiero va anche al dopo. Penso alle vostre labbra e a quanto le bacerei, al vostro corpo e a quanto lo stringerei e spoglierei..
Né entrambi avrebbero mai dimenticato lo sportello di legno che si apriva, gli occhi infuocati di padre Levi e lo sguardo disarmato di padre Erwin. E le mani del primo sul viso del secondo fugarono ogni dubbio, e se non bastarono, lo fecero i baci teneri e casti che si scambiarono per qualche minuto. Galeotto fu il confessionale.
"Tremo al pensiero che possa accadergli qualcosa di brutto" disse padre Erwin, facendosi trascinare verso il letto dall'amato.
"Non dovresti. Certe anime meglio non averle mai avute sulla coscienza."
"Levi..!" lo ammonì padre Erwin, in quel tono che risultava buffo all'ammonito.
"Eh? Parlavo di Jean Kirschtein il cacciatore."
"Ah." Erwin fece una pausa per togliersi vestaglia e ciabatte. Prima di tirare su le coperte, lo ammonì di nuovo. "Levi...!"
Ridacchiando a bassa voce, dispettoso come quando era ragazzo, padre Levi soffiò sulla candela. Nel buio, sentì le mani di padre Erwin sulle sue spalle. "Vorrei trovare una soluzione" sussurrò e gli baciò la guancia da dietro. Lasciò andare le sue spalle e si sedette sul letto dopo avere tirato su le coperte, seguito a ruota da padre Levi. Anche nel buio, padre Erwin percepiva il suo sguardo su di sé.
"Erwin..." gli carezzò il viso dolcemente. La sua pelle era ancora tesa e fresca nonostante i segni del tempo e gli anni passati insieme. "Hai, abbiamo, fatto tutto ciò che era in nostro potere fare" padre Levi si stese sotto alle coperte e tirò la manica di lui, per invitarlo a mettersi comodo. "Il resto è nelle mani di Dio" storse la bocca nel parlare così, come un qualunque altro uomo di chiesa. Infatti Erwin ne rise sottovoce, divertito, nel coricarsi al fianco del compagno.
"Pregherò."
"Se ti dà speranza, fallo."
Si abbracciarono scambiandosi un tenero bacio, poi, chiusi gli occhi, rimasero stesi accanto l'uno all'altro senza dire una parola, finché padre Erwin schiuse le labbra per mettere il punto di fine al discorso e alla nottata di preoccupazioni.
"Ti amo" mormorò sul suo viso in un soffio delicato, carezzandogli piano la schiena.
Padre Levi sospirò e si aggrappò al suo petto. "Me lo dici nello stesso modo di quando eri un ragazzetto. Come fai, io non so".
"Quando entrai in seminario, non avrei mai creduto di ritrovarmi sposato e con un figlio."
Padre Levi gli pizzicò la pelle sopra al cuore. "E chi sarebbe il figlio? C'è qualcosa che dovrei sapere, Erwin?" la sua voce sfumò in uno sbadiglio e si fuse con la risatina morbida dell'altro.
Padre Erwin non diede una risposta, gli diede solo l'ultimo bacio della buonanotte e fu così che entrambi si fecero catturare dal sonno. Sapevano entrambi quale fosse la verità.

 
****

La luna brillò forte quella notte, mentre Jean Kirschtein guidava il suo cavallo su per i sentieri verso il bosco di Weiβdorf. Appena misero piede oltre gli alti alberi neri, Jean cominciò a sentirsi davvero male. Pensava solo al suo comodo letto nel rifugio canonico: dava l’impressione di essere così comodo e morbido, il genere di materasso che appartiene a un ricco mercante e che lui, misero cacciatore, poteva solo sognarsi. A proposito di sogni, si consolò dicendosi che in quel letto ci ne avrebbe dormiti di dolcissimi, appena trovato il borsello ed imboccata la strada del ritorno.
Era chiaro che aveva scelto l’orario peggiore in cui andare a caccia – o meglio, a caccia del suo borsello. Le orecchie del cavallo erano ferme, l’animale tranquillo e Jean si calmò un poco, continuando a muovere la lanterna qui e là, aguzzando la vista. Che accidenti poteva succedergli? Aveva un fucile e un ottimo cavallo addestrato con sé, nulla poteva spaventarlo. Ah, quelle storie di padre Levi! Un uomo di chiesa che credeva alle leggende pagane del popolo era una vera e propria barzelletta. Si sarebbe divertito a raccontarla in osteria… Se avesse trovato i suoi benedetti soldi!
Eppure, sebbene si atteggiasse tanto a gallo con se stesso, Jean era agitato. Deglutiva più spesso del solito, si mordeva il labbro e i suoi occhi schizzavano da una parte e dall’altra al minimo rumore. Di lontano, un ramo si spezzò, ma nel girarsi, Jean non vide nulla, a parte i contorni degli alberi sfumati alla lieve luce della lanterna. Ricordò di non avere la più pallida idea di chi girasse nella foresta di Weiβdorf, se animali, uomini o fantasmi.
Un gufo planò bubolando vicino alla sua testa e Jean lanciò una bestemmia così forte, che il cavallo prese paura per l’urlo del cavaliere, piuttosto che per il gufo.
“Fanculo a te e al prete nano!” rincarò la dose, ma si morse la lingua subito dopo. La prima regola dell’andare per boschi, soprattutto di notte, era fiatare il meno possibile. In risposta, il gufo si appollaiò su un albero vicino e gli bubulò dietro, quasi ridesse.
Per colpa di padre Levi, l’inquietante padre Levi, Jean aveva i nervi a fior di pelle. Non si era mai ritenuto un tipo credulone o superstizioso, non fosse che la suggestione gli stava tirando dei gran brutti scherzi!
Persino Jonah, fino a pochi attimi primi tranquillo, iniziò a mostrare segni d’agitazione. L’animale era sensibile all'agitazione del suo  cavaliere per cui Jean tentò, se non di togliersi il pensiero della maledizione dalla testa, almeno di calmarsi, ed aguzzò la vista come poté: prima avrebbe trovato il borsello, prima poteva chiuderla con quella storia.
Poco a poco gli alberi alti e scuri di diradarono e diedero spazio ad una radura, illuminata dalla luce eterea della luna. Jean tirò un sospiro di sollievo: per un momento aveva temuto davvero di essersi perso. Essere sbucato nella radura rimescolava le carte in tavola. Durante il pomeriggio, era stata una dei suoi punti di riferimento per i suoi spostamenti nella foresta. Aveva piazzato trappole ai quattro punti cardinali, per cui non gli restava che setacciare il terreno in cerca del suo borsello, e finalmente poteva farlo con una certa serenità d'animo.
Smontò da cavallo e preparò il fucile in caso di emergenza. Il silenzio irreale ed improvviso regnava ancora sovrano e lui non sapeva darsi una spiegazione a tutto ciò, oltre alla constatazione pura e semplice che non gli piaceva affatto. Jonah era all'erta: il collo era teso, il muso dritto e le orecchie si muovevano da una parte e dall'altra. Così come il cavaliere, anche il cavallo era stranito dalla totale assenza di suoni.
Jean mise la lanterna davanti a sé ed iniziò a camminare guardando in basso. I suoi passi sull'erba, gli sbuffi del cavallo ed il suo respiro erano i soli suoni che poteva sentire. Era troppo assurdo e troppo tranquillo, non doveva essere una cosa reale... O forse sì? Era più propenso a credere che si trattasse dell'angoscia, talmente martellante da renderlo sordo ad ogni rumore. Allora, se era solo agitazione, perché deglutiva così spesso e aveva le mani sudate, perché Jonah non la smetteva di alzare ed abbassare la testa?
Perché al suono dei suoi passi si era unito un ringhio tanto profondo da mescolarsi col battito del suo cuore nelle orecchie?
Jean, gli occhi puntati a terra, sgranò le palpebre ed ebbe la netta sensazione che, qualunque cosa avrebbe fatto, sarebbe morto lì. Era atroce percepire lo sguardo della bestia sulla nuca ma sentirlo di fronte a sé, sapere che il mostro era lì e gli bastava soltanto alzare il capo per vederlo, gli ghiacciava il sangue nelle vene.
Jean fece la cosa più naturale: seguì il suo istinto. Poiché non sarebbe riuscito a scappare, avrebbe dovuto proteggersi col fucile puntato contro alla belva. Gettò a terra la lanterna e nel giro di mezzo secondo aveva già imbracciato e puntato il fucile davanti a sé.
Niente e nessuno avrebbe potuto prepararlo a quello che stava per vedere.
Una fila perlacea di denti aguzzi e digrignati sormontata da due ardenti fiamme gialle gli ringhiò addosso dalla parte opposta dalla radura. I suoi passi avrebbero potuto far tremare la terra mentre si avvicinava e si lasciava ammirare in tutta la sua orrenda bellezza. Un'enorme montagna di ispido pelo nero alta almeno due metri procedeva ringhiando verso Jean, inerme, sbigottito, tremante, sordo ai nitriti impazziti di Jonah. Troppo terrorizzato per essere affascinato, I suoi occhi vedevano di fatto un lupo, ma la sua mente si ritrovò paralizzata e così il suo corpo. Sapeva di dovere scappare, ma le gambe non gli obbedirono. La paura non poté fare altro che crescere ed inchiodarlo sul posto.
La bestia scattò in avanti e balzò su di lui, atterrandolo. Jean era rigido come un ciocco di legno contro alla fredda terra, il fucile premuto sul petto che scoppiava di terrore. Fissava da vicino quei denti affilati e il grosso naso nero e umido, chiedendosi quando sarebbe morto, almeno finché strinse il fucile e fu pervaso da una forte scossa. Era ancora armato.
Non seppe come fece a trovare il coraggio di puntarglielo addosso, contro il muso, nonostante la devastante paura. C'era un colpo in canna, no, anzi, più di uno: rinculo a parte, aveva buone possibilità di forargli la testa da quella posizione. Così credette finché il lupo spalancò le fauci bavose e ringhiò, arricciando il muso in una maschera diabolica. I suoi occhi come pozzi neri gli risucchiavano l'anima e il suo alito puzzava di morte, sangue e sventura. Il lupo sembrò abbassare la testa su di lui e Jean solo allora riuscì ad urlare a squarciagola, perdendo di nuovo il controllo del suo corpo mentre qualcosa di caldo e viscido lo pervadeva all'inguine. Il tempo si dilatò.
Sparare al lupo divenne l'ultimo dei suoi pensieri; l'istinto ebbe la meglio e Jean si mosse goffo fuori dalla presa del lupo, scalciando e urlando, piagnucolando senza saperlo, sporcandosi di terra. Rotolò via e corse in fretta verso il suo cavallo trovando, ignorò in che modo, il tempo di afferrare la lanterna dal suolo. Afferrò le redini del cavallo più imbizzarrito di lui e non ebbe nemmeno bisogno di spronarlo, che già Jonah stava correndo nella direzione opposta al grosso lupo. Il terrore di essere inseguito era tale che Jean diede per scontato di avere il lupo alle calcagna, senza nemmeno girarsi e guardare. O ascoltare. Il vento sferzava sulla sua faccia e i rami della bassa boscaglia gli picchiavano il viso e le gambe, ma non potevano fermarsi. Dovevano correre, correre, correre.
Jean fece fermare il cavallo solo quando riconobbe la sagoma della strada maestra che procedeva tra le case del villaggio e fu certo di essere al sicuro. Le bestie non si avvicinano mai troppo ai luoghi abitati dall'uomo.
Tirò un sospiro di sollievo ed incurvò la schiena, con Jonah che ancora alzava e abbassava il capo, ma sembrava starsi calmando.
"Bravo, bello" disse al suo cavallo con un colpetto d'incoraggiamento sul collo muscoloso e sudato. Era bene tornare subito in canonica, mettere una coperta a Jonah, dargli un po' d'acqua e andarsene a dormire. Ed eventualmente dimenticare l'incubo trascorso.
Passandosi una mano dietro alla nuca, Jean s'accorse di essere a sua volta madido di sudore. Con la calma che ritornava, a dire il vero, cominciava ad essere nuovamente consapevole del proprio corpo, del sudore che lo ricopriva, del fiatone, del batticuore, dei brividi freddi lungo la schiena e di un ultimo particolare puzzolente, nonché molto umido, che lo fece vergognare tantissimo.
Si era pisciato sotto per il terrore.
 
   
 
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