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Autore: Francine    03/11/2014    3 recensioni
10 Frittate può sembrare il titolo di un libro di cucina, ma non è così.
In
10 Frittate, con il dieci rigorosamente scritto in cifre, vi mostrerò come noi romani facciamo le frittate. Ovviamente in senso metaforico.
Genere: Mistero, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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«No, smettila... Ma che fai...»
La sentì ridacchiare con un tono toppo imbarazzato perché il gatto potesse averle di nuovo infilato il muso nell'orecchio.
Rimase con la maniglia della porta nella mano. Che fare? Entrare di scatto e beccarla in flagrante adulterio, oppure giocare d'astuzia?
E se mi stessi sbagliando?
Forse il gatto le stava davvero strusciando il naso o la linguetta ruvida dentro l'orecchio, piccolo rituale della sera che da qualche tempo a questa parte aveva cominciato a mettere in scena alle otto e quarantasei spaccate.
Forse, sempre il gatto, se la stava semplicemente arruffianando per ottenere l'ennesimo supplemento del supplemento del supplemento della cena, e le stava ronfando a piena potenza contro le gambe, magari facendola inciampare...
Sì, dev'essere così, pensò lui poco prima che il gatto si strusciasse contro le sue, di gambe. Abbassò gli occhi e incontrò quelli verdi del micio, che li socchiuse come a dirgli: «E allora? Nun entramo? Sento 'n bon odorino de pesce...».
Rimase a fissare la bestiola, poi la maniglia che stringeva salda nella mano, poi di nuovo il gatto.
«Miao!», fece questo, come a dirgli: «Allora? Guarda che c'ho fame, io...».
«Uffa...», sbuffò lei oltre la porta a vetri smerigliati.
Era lì, con il suo golfino rosa fragola, seduta davanti alla penisola che usavano come tavolo, in cucina. Con la coda dell'occhio poteva vedere il fuoco acceso sotto la pentola per l'acqua della pasta. Il sugo alla puttanesca era già bell'e pronto e non aspettava altro che di spalmarsi morbido e soave contro le pennette, già pesate e contate per scrupolo, che lei aveva messo a portata di mano.
Sentì il clic clic dei tasti e capì. Il portatile. Era su internet.
Cosa sta facendo?, si chiese, mentre il gatto si accucciò paziente ai suoi piedi. Stava chattando? Stava cercando immagini che mettessero in risalto i muscoli di Christian Bale o il mento volitivo di Hugh Jackman? Con chi ce l'aveva?
Ridacchiò di nuovo. «Dai, così mi farai arrossire...», disse lei e a lui crollò il mondo addosso.
Un altro. Un altro! La sua dolce metà, la compagna di un buon terzo della sua vita, aveva inaspettatamente deciso di prendersi un altro, dopo dieci anni di fidanzamento, tre di convivenza e due di matrimonio.
«Un bel colpo, non c'è che dire...», gli soffiò all'orecchio il suo se stesso diavolo, comodamente appollaiato sulla spalla sinistra, la coda appuntita che gli graffiava la pelle.
«Non essere affrettato come al solito!», sentì sull'altra spalla, la destra, mentre una piccola lira spandeva il suo pizzicar di corde nell'aria frammista ad un dolce odor di vaniglia. «Forse le cose non stanno come pensi tu...»
«Non stanno come dico io?», rispose piccato il diavoletto all'angelo. «E allora dimmi: cosa dovrei pensare? Che sia improvvisamente impazzita e stia parlando da sola?»
«Tutti noi, a volte, pensiamo a voce alta», rispose l'angioletto alzando le spallucce alate.
«Ma davvero?», replicò l'altro appoggiandosi al suo forcone rosso fiamma. «E cosa dovrei pensare, allora, vecchio mio? Che la nostra principessina sta chattando con una ragazza? Te lo concedo, sarebbe una prospettiva interessante, è vero...»
L'angioletto arrossì fino alla cima dei boccoli biondi che gli ornavano il capo areolato.
Lei ridacchiò di nuovo. «Certo che sei davvero carino...». Un sospiro. Intenso. Forte. Partecipe. Coinvolto. Di quelli che le tredicenni lanciano ai poster dei cantanti appesi dietro le porte delle loro camere, convinte che la mamma non vedrà mai lo sconveniente busto ignudo del bell'attore o del carismatico cantante con gli occhi di cielo e il sorriso imbronciato da malandrino. Lo stesso tipo di immagine che lei si era affrettata a far sparire non appena si erano messi insieme, togliendo il poster in bianco e nero del suo cantante preferito dal suo posto segreto e chiudendolo dentro un portarotolo giallo acceso.
E adesso... adesso eccola lì, seduta in cucina, la porta chiusa e la pentola sul fuoco, a chattare con il suo nuovo amichetto. Imprudente? E perché mai? 
Dopotutto, io dovrei essere uscito con Antonio e Simone, e non dovrei tornare che fra un paio di ore, se non tre.
Voleva farle una sorpresa e invece... la sorpresa gliel'aveva fatta lei.
«Cielo, quant'è tardi!», le sentì dire all'improvviso e la maniglia tra le dita di lui prese a scottare come se fosse appena uscita dalla forgia.
«Che fai? Entra e affrontala!», ordinò il diavoletto. «Sbattila contro il muro e inchiodala di fronte alle sue responsabilità!»
«Non dargli retta!», intervenne con un tono più pacato, ma altrettanto fermo, l'angioletto. «Parlale, sono sicuro che si tratta di un malinteso...»
Lei scostò lo sgabello, quello col sedile bianco, il suo, e spense il pc. Si avvicinò al fuoco e calò la pasta.
«Tetsuya? Tetsuya, dove sei?», chiamò a gran voce il gatto, che iniziò a risponderle miagolando da oltre la porta.
Zitto, stupida bestiaccia!, pensò lui mentre la porta si apriva e lei appariva sulla soglia della cucina con un aspetto... radioso.
«Oh, sei già a casa?», chiese sorpresa. «Non ti ho sentito arrivare...»
«Già, dicono tutte così le colpevoli», sibilò da non si sa bene dove la voce del diavoletto.
«Chi è senza peccato scagli la prima pietra...», sentenziò da un altrettanto oscuro meandro l'angelo.
«Sì...», rispose lui cercando di far tacere quelle voci. «Antonio non si è sentito bene e Simone ha avuto un contrattempo in ufficio, così...»
«Ah... benone», disse lei poco convinta. «Arrivi giusto in tempo, ho appena calato la pasta. Ne aggiungo un po' anche per te, allora. Vai a lavarti le mani, io sistemo la tavola.»
Niente bacio, niente strofinatina di naso, niente abbraccio, nemmeno uno straccio di sorriso. Niente di niente. La sentì canticchiare un po' nervosa Aggiungi un posto a tavola e pregò che il pavimento si aprisse sotto di lui e lo ingoiasse in un colpo solo.
«No, no, no, per carità! Non lo sai che il suicidio è un peccato gravissimo?», lo redarguì l'angelo prima che il diavoletto lo cacciasse via con una poderosa sederata.
«Non dare retta a questo babbeo! Fagliela pagare! Gioca d'astuzia e inchiodala con delle prove schiaccianti. Fai finta di niente e aspetta che lei si tradisca. A quel punto, nessuno potrà biasimarti se cercherai di allungare le mani sulla rossa del terzo piano... Sì, quella con le curve generose al punto giusto e la risatina facile. E non dire che non l'hai vista, non ti credo. Puoi darla a bere a lei, ma non a me...»
«Che stai facendo ancora lì?», gli domandò lei voltandosi di tre quarti, un piatto in mano. «Fila a lavarti le mani, ché è pronto...»
Lui obbedì, strascinando i piedi che si erano fatti improvvisamente di piombo.


«SaioggiFabianahadettocheforsepotreiesserepromossamoderatricediprimolivello,mentreinufficiolaBellavitano
nhafattocherompermilescatoleconmillerichieste,unapiùassurdadell'altra.Ovviamentelofasoloperrendermilavita
uninfernopergliultimitremesichepasseròinquellagabbiadimatti,manonostantequestoiononsonodispostaamo
llareeadarglielavinta.Etucosahaifatto?
»


Lei parlava, parlava, parlava, ma alle sue orecchie arrivavano solo suoni indistinti e ovattati, come se stesse con la testa sott'acqua e gli stessero parlando dalla superficie.
«Ehi? C'è nessuno in casa?», disse lei sventolandogli una mano davanti alla faccia.
«Eh?»
«Ti ho chiesto com'è andata oggi. Qualcosa del tipo cos'hai fatto dopo che ci siamo salutati stamattina, oppure com'è andato il lavoro o roba simile...»
«No, scusami... Sono un po' stanco...»
«Ottima scusa», commentò la voce del diavoletto. Stava ghignando?
«Capisco...», disse lei un po' delusa.
«Anzi, se non ti dispiace vorrei andarmene a letto subito. Non mi sento molto bene. Andrea ha l'influenza e non vorrei essermela presa anch'io.»
«Eh sì, gira. Non ti preoccupare, vai pure a letto, ci penso io qui.»
«Sicura?»
«Sì, ci metto dieci minuti. Vattene pure sotto le coperte e rilassati un po'.»
«È quello che farò...», disse lui alzandosi. Posò il tovagliolo di carta sul ripiano lucido della penisola e fece per andarsene, quando la voce di lei lo fermò.
«Ce la fai ad aspettarmi alzato? C'è una cosa che vorrei mostrarti.»
Il tono di voce. Quel tono di voce, lo stesso di chi sta annunciando all'altro che è in arrivo una grossa novità, lo stesso che lei aveva usato prima di dirgli «O andiamo a convivere, o la finiamo qui.».
Deglutì a vuoto.
«Ce... certo.», le disse con un sorriso stanco e spiegazzato.
«Benone!», disse lei quasi trillando di contentezza. Prese il grembiule incerato, lo infilò e si mise di buona lena a fare i piatti. Canticchiando.
«A... allora io vado...», biascicò lui in direzione della porta. Il gatto lo fissò come a dirgli «Ancora qui stai?», poi chiuse gli occhi e si acciambellò sullo sgabello dal sedile rosso.
«Porteresti di là il portatile, per favore?», chiese lei senza voltarsi.
I suoi occhi corsero al gioiellino che era costato l'intera tredicesima di tutti e due messa assieme e che se ne stava zitto e buono in un angolo.
«Che occasione!», gridò il diavoletto dritto al suo timpano sinistro. «Prendilo e vattene in camera da letto. Scommetto che troverai le prove tra i file recenti!». Chiedendosi cosa mai potesse saperne un diavolo di come funzionasse l'ultimissimo ed infernale sistema operativo che avevano trovato già installato, lui obbedì e le sue mani afferrarono il portatile, pronte a correre sui tasti per cercare le risposte alle sue inquietudini.


Una bozza di una storia da correggere.
Un layout sgangherato, rosso, oro e nero che stava realizzando per chissà quale delle sue amiche di rete.
Alcuni primissimi piani che aveva scattato l'estate scorsa - o quella prima ancora? - ad un geranio dalla declinazione lillà intenso.
La cronologia cantava chiaro: le fotografie di Christian Bale erano state visionate magna cum copia due sere avanti, mentre quelle di Hugh Jackman il giorno prima ancora.
Nella cronologia di msn non risultava alcuna conversazione con utenti sconosciuti, o con pseudonimi maschili - eccezion fatta per D'Éon che sapeva essere una ragazza.
Con chi diamine ce l'aveva, allora?
Si prese il mento tra le mani, mentre una parte di lui gli dava dell'idiota e l'altra, quella razionale e analitica, si scervellava per capire dove fosse la magagna. Perché era chiaro che c'era qualcosa, un piccolissimo particolare di cui lui non aveva tenuto conto quando aveva preso il portatile e l'aveva trafugato in camera da letto.
«Avanti...», prese a dire la voce suadente dell'angelo. «Non vorrai dirmi che se fosse stata in torto ti avrebbe fornito le prove della sua colpevolezza...»
«Magari è masochista...», propose il diavoletto guardandosi le unghie, mentre lui si disse che sì, la chiave stava nelle parole dell'angelo.
La chiave.
La chiavetta usb.
Quella rosso fiammante che lui le aveva regalato a Pasqua e dove lei aveva inserito tutte le sue storie per paura che il pc impazzisse nuovamente e danneggiasse tutti i file un'altra volta.
Quella che portava al collo e da cui non si separava se non per dormire. Quella su cui lui doveva assolutamente mettere le mani se voleva arrivare in fondo a questa storia.
Devo avere quella dannatissima chiavetta usb, altrimenti impazzirò. 
Rimase a pensare a come avrebbe potuto fare, quando il diavoletto punse il sedere dell'angelo con il suo forcone e gli sussurrò all'orecchio un piano geniale.
Sì... Può andare...


Il bello di lei era il suo sonno granitico. Quando cadeva in catalessi non c'era niente e nessuno che avrebbe potuto destarla dal suo coma profondo, nemmeno le cannonate del Gianicolo. Senza accendere la lampada sul suo comodino ingombro di fumetti, lui si alzò e circumnavigò il letto matrimoniale fino ad approdare al comodino di lei. Trovò a tastoni la chiavetta usb, la prese e molto delicatamente sgattaiolò in cucina, il portatile sotto al braccio.
Lupin nun te temo, si disse orgoglioso. Chiuse la porta alle sua spalle con molto prudenza, accese il portatile e collegò la chiavetta. Attese. Il programma trovò il disco removibile e lui ci cliccò sopra. Sullo schermo apparve una selva sterminata di nuove cartelle e cartelline denominate semplicemente attraverso un numero progressivo.
Maledizione a me e a quando ho deciso di regalarle una chiave da 4 Giga...
Fotografie. Fiori. Gatti. Storie. Immagini di Hugh Jackman. Ancora fiori. Gattini bianchi. Un pdf contenente una nuova ambientazione fantasy. Ancora fiori. Rose. Fatine in resina. I suoi disegni. Quelli di lei. Schemi per il filet. Schemi per le perline. Immagini di Hello Kitty. Layout per il suo sito. Screencap. E la lista era ancora molto, molto lunga.
Il brutto del suo sonno granitico era la durata, totalmente imprevedibile. 
Poteva durare dieci ore, oppure limitarsi a solo centottanta minuti di rilassamento. E questo poteva dire solo una cosa: lei poteva svegliarsi da un momento all'altro e coglierlo in castagna.
«Che stai facendo?»
Appunto...
La voce sbadigliosa di lei lo colpì alla schiena come una secchiata d'acqua gelida. Si voltò. Lo guardava dal corridoio, facendo capolino dalla cucina con i capelli arruffati, gli occhi socchiusi e l'aria di uno zombie che ha sbagliato candeggio.
«Niente...», mentì spudoratamente lui, lo schermo azzurro del portatile che faceva capolino oltre la sua spalla.
«Niente?», ripeté lei. Guardò l'orologio, poi tornò con gli occhi su di lui. «Niente alle tre del mattino davanti al mio portatile?»
«Ecco...»
Non sapeva più cosa ribatterle. Era ovvio che non solo stava facendo qualcosa, ma che si stava scavalcando quel confine labile ma invalicabile di cui lei era possessivamente gelosa.
Lei si prese un bel bicchiere d'acqua e lo guardò di nuovo. «Hai aperto la mia chiave usb.»
Non seppe come prenderla. Stava per cavargli gli occhi? Se ne sarebbe tornata a letto brontolando? Non gli avrebbe rivolto la parola per due giorni filati?
«Aspetta un secondo. Frena, frena, frena! Ehi, amico, guarda che sei tu quello ferito in tutta questa storia. Vorrei ricordarti che è stata lei a tradirti con un altro, non tu...»
«Che discorsi sono questi?», s'intromise l'angelo pestando un calzare sulla spalla di lui. «Se uno ti picchia tu devi necessariamente ricambiare il colpo ricevuto?»
«Sissignore!», rispose il diavoletto.
«Porgi l'altra guancia!», sibilò l'angelo sventolando un indice ammonitore sotto il naso del proprio antagonista. «Se ti ammazzano il cane non hai alcun diritto di fare altrettanto alle bestiola del tuo nemico.»
«Ah no?»
«Eh no!»
«Silenzio!», sbottò lui. Lei si svegliò di colpo versando alcune gocce d'acqua sul pavimento. «Sei tu quella che mi deve una spiegazione, non io. E poi non ti ho certo ammazzato il cane!»
«Il cane?», domandò lei perplessa. «Noi non abbiamo un cane...»
«Non ha nessuna importanza!» Si alzò e le si avvicinò. «Con chi parlavi, oggi?»
«Eh?»
«Non fare la finta tonta! Ti ho sentito! Oggi, quando sono tornato. Ho fatto piano per farti una sorpresa, ma ho sentito che stavi parlando con qualcuno. Con un maschietto. E non dirmi che mi sono confuso, il tono che hai usato non ammetteva errori!»
«Di' un po', te sei ammattito? Qui con me c'era solo Tetsuya...»
«Non è esatto. Tetsuya se ne stava fuori dalla porta, insieme a me...»
Lei corrugò le sopracciglia. «Cos'avresti sentito di preciso?»
«Lo sai...»
«No che non lo so. Te lo sto chiedendo apposta...»
Lui prese un gran respiro. «No, smettila... Ma che fai...», disse facendole il verso.
Lei sgranò gli occhi, forse sorpresa dalla fedeltà dell'esecuzione, poi disse: «Ah, ho capito!», e si diresse verso il portatile. Fece scorrere la pallina del mouse, poi si fermò davanti ad una cartella, la penultima e vi cliccò sopra.
«Chiudi gli occhi...»
«Stai scherzando?»
«Chiudi gli occhi!», ripeté lei e lui si trovò stranamente ad ubbidire.
La sentì smanettare ancora un istante con la tastiera poi gli disse: «Pronto?», e lui sentì una musichetta a otto bit riempire il silenzio della cucina.
Aprì gli occhi e li sgranò dalla sorpresa.
«Ma questo...»
«Esatto!», disse lei battendo le mani. «Angela mi ha passato un emulatore dei giochi arcade della nostra infanzia. Ho la versione da sala giochi dello sparatutto dei robot!»
Aveva gli occhi lucidi ed eccitati di una bambina delle elementari a Piazza Navona per la Befana, nonostante una ventina abbondante di anni in più sulle spalle e qualche filo d'argento tra i capelli.
«Guarda, puoi scegliere il pilota... Io prendo Tetsuya.»
Il Grande Mazinga apparve sullo schermo, mentre intorno a lui scorreva l'ambientazione e diversi nemici tentavano di fare a pezzi il robot sparando la propria santabarbara contro il protagonista. In alto a sinistra, Tetsuya se ne stava con la sua aria scazzata, subendo i contraccolpi che man mano scuotevano il robot ogni volta che un mostro guerriero lo intercettava.
«Prendi i vari missili che Venus e Diana lasciano in giro... Oppure il Booster», diceva lei man mano che il robot afferrava i bonus dissemninati lungo la strada. «Così spari il Raggio Gamma, così, invece, il Grande Tifone e con la barra spaziatrice lanci il Doppio Fulmine.»
Lui restava a bocca aperta guardarla portare a compimento la prima missione, scartando gli ostacoli e prendendo ogni bonus possibile e immaginabile. Alla fine, dopo aver sconfitto l’ennesimo nemico, apparve sullo schermo una scritta che comunicava la fine del primo quadro e lei ridacchiò.
Lui la guardò. Aveva le guance imporporate.
«Ma che diamine...», ma non fece in tempo a commentare che il gioco riprese, con una nuova missione tra i ghiacci dell'Antartide.
«Ecco, qui, invece, devi fare così...», ed anche stavolta lei portò a termine la missione sconfiggendo tutta la sequela di mostri, con un immancabile rossore alla fine del secondo quadro. E del terzo. E del quarto.
Verso metà del quinto, lei iniziò a parlare all'icona del pilota.
«Povero amore patato mio...», disse rivolgendosi ad un Tetsuya che sembrava aver accusato una potente sventagliata di raggi gialli e rossi.
«Parli con Tetsuya?»
«Sì, perché?», chiese lei candidamente.
Lui tornò a fissare quella faccia apatica e, alla fine, lo vide.
Quando lei, dopo un paio di manovre complesse, riuscì ad abbattere la Fortezza volante del Dottor Inferno grazie ad un sapiente uso del Doppio Fulmine, lui vide l'iconcina di Tetsuya farle l'cchiolino. Ed allora capì a chi mai lei stesse sospirando quando, una manciata di ore prima, l'aveva sentita parlare da sola con un tono di voce estasiato.
«Non è una figata immane?», gli domandò lei.
«Eccome!», rispose lui. «Posso portare Goldrake?»
«Provaci, se vuoi. Ma dubito proprio che riuscirai ad essere più bravo del mio Tetsuya...»
«Stiamo parlando di Actarus, ragazza mia...», le disse sedendosi al suo posto e selezionando Daisuke Umon come pilota.
Lei si portò alle sue spalle e lo osservò giocare schiacciando i tasti.
«Mi sembra che qualcuno abbia fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare...», disse una voce angelica pizzicando una lira dalle corde dorate.
«Concordo», le fece eco una risatina un po' malvagia.
«Ok, ragazze...», sussurrò lei all'indirizzo della sua angioletta e della sua diavoletta personali. «Vorrà dire che pagherò con la carta di credito di questo qualcuno il bellissimo e carissimo modellino in vinile di Tetsuya che ho visto su E-bay…»
E l’angelo ed il diavolo sorrisero. Insieme.
 
   
 
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