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Autore: JonS    03/11/2014    3 recensioni
La storia di un risveglio confuso.
Di un incubo che si fa tale una volta svegli.
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*


Why are you running away?


Da quanto ero lì? Doveva essere prima dei tre minuti iniziali di "Starman", perchè quella canzone era già quasi alla fine, e allora com'ero arrivata in quel posto? Nel locale la musica era forte e matellava nella mia testa, al ritmo incessante di tamburi, che suonano il ritornello stonato dei vinili. 
Il fumo, l'odore di nebbia artificiale, mi arrivava fino alla corteccia dell'anima graffiandola e violentandola, ferocemente. La testa, paragonabile a quella di un vecchio in fin di vita, così piena di domande e così vuota di parole, così ricca di immagini troppo lontane, per far spazio a quello che si guarda al momento.
Ero finita al 'Sunset' per scappare dalla realtà dalla mia vita, almeno per una sera, sembravo esserci riuscita dopotutto; dato che non ricordavo nulla.
La voce di Bowie si faceva più persistente, e con lui nelle orecchie camminavo barcollando, alla ricerca di un posto dove sedermi. Invano incappai nei piedi danzanti di una ragazza, vestita di nero, di cui non riuscivo a distinguere il volto. Mi spinse, in risposta, quando le pestai con ben poca cortesia i piedini ossuti, chiusi in scarpe in ecopelle nera. Fissai quei tacchi vertiginosi ed instabili, che malamente sostenevano la storta figura, della magra sentinella danzante. Un passo, poi un altro, infine il contatto con il pavimento macchiato di sudore e residui sconosciuti, portati nel locale dalle scarpe inzuppate nella pioggia della notte. Mi veniva da vomitare, potevo sentire l'odore del mio stesso deperimento, la mia vergogna stesa sul pavimento di quella casa della follia mascherata da discoteca.
Due mani, mi afferrarono all'altezza dell'ombelico alzando la mia esile figura dal terreno. La stretta era forte, mentre mi alzava potevo sentire i polpastrelli premermi sul ventre. Cinsi il mio busto, sovrapponendo i palmi contro la superficie delle mani che mi tenevano stretta, potevo sentire le vene in evidenza, le ossa e le unghie, il freddo delle dita. La stanza non si era accorta della mia caduta, avrebbero potuto ballare sulle mie membra, tanto ero invisibile. Ma quella figura che mi si palesava aveva visto più degli altri, aveva notato quest'ammasso di ossa e carne, muscoli e capelli, mi aveva vista quando io stessa non pensavo di potermi vedere. 
Quel ragazzo aveva i capelli lunghi e biondi, spettinati, quanto basta per fingersi trasandato, gli occhi erano azzurri, in splendido connubio con i canoni che dettano la perfezione, degli abbinamenti fisici; io non potevo certo eguagliare tanta perfetta simmetria, con i miei boccoli castani e i miei occhi verdi che non bastavano ad incorniciare quel viso rendendolo amabile.
Sorrise, spostando solo un lato delle labbra, sorrisi a mia volta. Senza parlare alzò una mano e mi scattò una foto, con quelle fotocamere che vanno tanto di moda in questi tempi. Il flash mi colpì in pieno volto e mi lasciò cieca per alcuni istanti. Intorno a noi la musica passava ad un lento, le coppie si stavano formando, ballando quella danza che precede l'accoppiamento.
Qualche passo in avanti ad incontrare il mio strano salvatore, con le braccia tese per poggiare le dita sulla camicia e sfiorare quel pezzetto di pelle, lasciata scoperta dai due bottoni slacciati; un altro passo per portarsi con la testa contro l'incavo tra collo e spalle a respirare l'odore dello sconosciuto, come per tenerlo stretto a me, a ballare un lento lamento.
Ballammo in silenzio, muovendo i piedi con la musica, all'unisolo come due amanti che insieme raggiungono l'estasi, ed insieme tornano a cercarla trovandola più e più volte. Non sapevo cosa facevo li, perchè mi sentivo così vuota, così stanca così disperata. Sentivo quasi di conoscere quell'angelo, quel biondo straniero che forse avevo già conosciuto, in qualche passato che non ricordavo di aver vissuto. Non mi domandai come o quando le nostre strade si erano incrociate, lui era li, rigido, il cuore agitato, la pelle del viso rasata e profumata. Alzai le mani a cercare il contatto con quel rassicurante corpo ossuto, di chi per età o per fortuna non viene intaccato dai lati negativi dei propri vizi. Sentivo il tessuto della camicia che scivolava ruvido contro i miei polpastrelli; gli cinsi il busto stringendolo, fu solo allora che lo osservai di nuovo, cercando di confondere il verde sporco dei miei occhi con il chiaro pallore dei suoi, ma lui non mi stava guardando, fissava un punto e non si staccava da quello: come poteva essere così lontano e così vicino contemporaneamente?
La musica finì con l'immobilità dei nostri corpi, e un altra canzone movimentata partì rianimando le figure danzanti e, facendole staccare da quegli amanti occasionali, pagati come puttane, per resistere a tre minuti di strusciamento per riattivare la circolazione nelle zone utili del corpo. 
Il mio biondo compagno era ancora fisso, mi cingeva con il braccio sinistro e con il destro reggeva tremante la macchina fotografica: che avesse fotografato con la sola vista, quella che era la sua vita? Che l'avesse vissuta nel tempo di una canzone e avesse combattuto una guerra interiore che l'aveva visto tornare, poi, più vuoto e sconfitto rispetto a quando ne era partito?
Mi alzai sulle punte per raggiungere le labbra rosee e carnose che mi stavano a pochi centimetri in altezza, annullai il dislivello tra i nostri fiati, chiusi gli occhi e lo baciai. Rimase immobile lasciando andare il braccio che, fino a pochi attimi prima mi aveva stretto con tanta delicatezza, tanto da sembrare così opprimente, ma anche così rassicurante. Fu allora che mi guardò, serio, gli occhi bagnati che risplendevano alla luce dei neon. Scosse la testa a ritmo lento, toccandosi le labbra socchiuse e senza aggiungere altro se ne andò. Sparì nel fumo chimico che offuscava ancora i miei ricordi.
Non tentai di inseguire il mio angelo, mi era bastato un ballo per sentirmi a casa e trovarmi poi, nuovamente allo scuro delle mie poche certezze. Ed era inutile inseguire qualcosa di fittizio, così aleatorio come la sensazione della droga che ti entra nelle vene e ti lascia libero di volare, per poi ricadere, come ero caduta io, in quel locale dai colori infernali che tanto mi opprimevano. Era solo una notte diversa, passata a dimenticare un amore finito male, ma forse avevo dimenticato troppo e troppo in fretta.

Tornai a casa, barcollando sulle mie deboli gambe, respirando l'odore della pioggia che evaporava dall'asfalto ancora caldo. Come poteva essere casa mia? Puzzava di muffa e di chiuso, a terra erano sparse bottiglie di vetro, alcune lasciavano frammenti luccicanti al pavimento, altre erano integre e alcune avevano ancora parte del contenuto fermentato, regno di giubilo per i moscerini che ne avrebbero goduto l'olezzo, nei successivi giorni. Mi sedetti sul divano: com'ero arrivata a casa? Quale strada avevo preso, in quanti portoni avevo infilato il mio mazzo di chiavi? E quei portoni li avevo richiusi?
Avevo i libri dell'università sparsi sul pavimento insieme ad una lampada a stelo lungo che era scivolata, chissà per quale motivo, a terra e si era crinata in più punti, l'indomani l'avrei buttata. Ma quante erano le ore che mancavano al prossimo giorno?
Andai verso la mia stanza, inciampando su una valigia aperta in terra, piena di indumenti buttati dentro alla rinfusa, li osservai, ne raccolsi alcuni e li portai verso il naso, avevano un odore familiare, quell'odore di bucato che si attacca ai vestiti e non li lascia, nemmeno quando rimangono chiusi in un armadio per anni, in balia della polvere. Mi trascinai a letto, ero stanca, possibile che non avessi dormito? E se lo avevo fatto, da quanto tempo ero sveglia? Mi stesi e tastai il materasso in cerca di una coperta, non importava se la luce era accesa, se l'odore era nauseabondo, se io stessa puzzavo di abbandono. Non trovai la coperta ma afferrai qualcosa di simile a carta, un giornale per esattezza. Strinsi il pugno e il quotidiano, accorgendomi che il letto era cosparso di fogli e sopra di essi il computer, che era andato in standbye, mandava a ripetizione le immagini di una coppia; sembravano innamorati, si guardavano con l'affetto che trasudava dagli occhi, scendeva da essi come le lacrime che si formano quando si ascolta una canzone romantica, guardando la Senna. 
Guardandole ricordai, presi coscienza di come ero giunta al Sunset, di come avevo barcollato dal luogo dell'incidente, cercando aiuto per me e per Joel che era rimasto in macchina, la testa spaccata contro il vetro e i suoi splendidi capelli biondi macchiati del colore del tramonto. Ed era li che avevo perso i sensi, in una poltrona di un locale, lontano da Joel, lontano da casa, lontana dalla mia anima che era rimasta incastrata tra le lamiere ustionanti. 
Ricordai che prima di uscire di casa, ero inciampata contro la lampada a stelo che era caduta insieme a qualche bottiglia. Joel aveva riso e mi aveva rassicurata, aveva trovato un altro posto dove stare, sui giornali che aveva sparso sul letto durante la ricerca. Avremo vissuto in una casa senza muffa alle pareti e senza il padrone che ha la doppia chiave, ed è libero di entrare quando vuole. 
Ricordavo ora, aveva preso la valigia e l'aveva aperta sul pavimento, buttando alla rinfusa i vestiti, senza piegarli, felice com'era di lasciare qual posto. 
C'eravamo sposati da una settimana, dopo che Joel aveva trovato un lavoro non redditizio ma dignitoso, quanto bastava per affittare un appartamento in periferia. 
E quelle foto che continuavano a passare sul computer erano tutte scattate dalla sua macchina fotografica, di quelle che vanno tanto di moda oggigiorno. Gli avevo regalato quell'arnese perché potesse sfogare la sua voglia d'arte, ed ora mi restavano quelle foto, unico lascito di un passato roseo. 
 

Ho ballato con lui, ho sentito il suo odore, il suo cuore battere, ho guardato nei suoi occhi e benché Joel fosse morto quella notte so per certo che lui mi ha vista cadere al locale e mi ha rialzata, proprio come la sera del nostro primo incontro, quando caddi dai tacchi e lui mi aiutò a rialzarmi, promettendomi che mi avrebbe sollevata ogni volta che fossi caduta.
E dopotutto ha mantenuto la sua promessa.
Anche stavolta.


 


*spazio autrice* 
 

  
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