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Autore: Nimue_    08/11/2014    2 recensioni
1944, una giovane donna viene prelevata con la forza e condotta in un luogo di cui nemmeno nel peggiore dei suoi incubi avrebbe immaginato l'esistenza.
Settantaquattro anni dopo la storia si ripete, ma quando Sybil Crowford ne capisce il disegno è troppo tardi.
Sua sorella è sparita. Loro sono venuti a prenderla, e lei ha detto di sì.
[Distopica - YA]
Dal capitolo:
"Che succede se me ne vado senza salutare? E se mi invento una scusa qualunque? Sono libera di andarmene quando voglio. O forse no. Dipende tutto da lui.
- Tua sorella è davvero, davvero un'ottima chimica , - sorride.
Poi la porta del laboratorio si spalanca."
Genere: Azione, Romantico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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campo

Entropia, II:
ogni processo economico inserito in un contesto ecoistemico incrementa insesorabilmente il disordine del sistema-Terra. Tanta più energia trasformiamo in uno stato indisponibile, tanta più ne sarà sottratta alle generazioni future, e tanto più caos sarà riversato su quello che ci circonda.

Febbraio 1945.

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Ne arrivavano a migliaia.
La ragazza non poteva vederli sfilare sotto i cancelli di ferro del Campo - né sapeva chi fossero o da dove venissero -, ma li sentiva marciare. Ascoltava i loro passi come vibrazioni telluriche della terra che calpestavano metro dopo metro; proprio lì, sopra la sua testa, con le catene che strascicavano sul ghiaccio, sempre.
In lontananza, da qualche parte, lo strillo dei treni che graffiavano le rotaie scandiva il giorno, e -

La porta blindata si aprì in uno sferragliare di meccanismi.
Un giovane uomo con il cappotto lungo e la cintura di pelle stretta ai fianchi se ne stava ritto sulla soglia, ma non era un Dottore. La ragazza spostò lo sguardo dal soffitto e lasciò che ricadesse su di lui: uno strato sottile di neve gli copriva le sowilo sul cappello, facendolo sembrare sporco e consumato, ma la ragazza sapeva che le due saette di stoffa erano lì; solo che non le importava.
Ai soldati come lui non era permesso entrare lì dentro, con le loro mani contaminate, la polvere da sparo sugli stivali e un'arma carica nella fondina, ma gli Infermieri alle sue spalle avevano l'aria troppo atterrita per mettersi a discutere.
Il soldato si avvicinò al bordo del letto con la mano tesa. Parlava con calma, a frasi brevi e senza intonazione, ma la ragazza si limitava a fissarlo senza alcuna espressione sul viso.
- Mi hai sentito?
Il suo accento era privo della musicalità italiana che la ragazza aveva tanto amato, un tempo. Quando di preciso, non riusciva a ricordarlo.
Non aveva detto a nessuno che riusciva a capire il tedesco, ormai, e che dal giorno in cui era arrivata al Campo si era aggrappata a ogni parola, a ogni sillaba o vocale, pur di restare in vita; così i Dottori continuavano a ringhiare parole nella sua vecchia lingua, storpiandone i suoni, i dolci accenti, la poesia nascosta.
- Parlo con te.
Con Lei.
Delle volte la ragazza non riusciva che a pensare a sé stessa in terza persona. Era in quei momenti che la presenza del proprio corpo nella camera da letto in cui la costringevano arrivava a confonderla: doveva passarsi le mani sui capelli bruni che le pizzicavano le guance, o strizzarsi forte le labbra carnose, tirandole e stropicciandole, per accertarsi che non fosse tutto un sogno visionario.
Il soldato trattenne un'imprecazione e la prese da sotto le braccia, facendole ricadere la testa a guardarsi il petto: la vista di un seno bianco e morbido sotto la lana leggera le ricordò  che era tutta roba sua. Sue le dita che si mangiava a piccoli morsi, i polmoni con cui respirava; suoi gli occhi, le curve, le spalle, e sua la voce afonica che sentiva di tanto in tanto, come il sussurro di un genio familiare. Uno dei Dottori aveva provato a spiegarle perché fosse l'unica a sentirla parlare.
- Non c'è nessun altra ragazza a parte te, qui dentro. Quella voce sei tu. Sono i tuoi pensieri, la tua coscienza.
Tu e Lei siete la stessa cosa, e lo siete da sempre.
La ragazza non ricordava di essere stata qualcuno in particolare, così la sua unica risposta era stata anche l'ultima che fossero mai riusciti a strapparle: "Io non sono più."
Le labbra del soldato erano strette in una linea dura. Infermieri dal camice ben stirato gli correvano dietro tutti affannati, con gli zoccoli delle scarpe linde che battevano sul corridoio sotterraneo che collegava ogni ambiente della costruzione.
Ne erano passati di giorni da quando l'avevano portata lì, e ancora quella trama fitta e intricata di laboratori la faceva sentire prigioniera di un labirinto senza soluzione. C'era un mostro, là, nascosto da qualche parte, ma la ragazza ne aveva dimenticato le sembianze. Delle volte richiamava a sé quella coscienza estranea che dicevano le appartenesse, e insieme si sforzavano di riportare alla memoria quello che le era successo tra le mura dell'edificio; che cosa le avevano fatto, e perché. Ma tutto ciò che vedeva, se provava a concentrarsi, era il bianco delle pareti e dei mobili, dei pavimenti e delle vesti disinfettate dei Dottori: neve candida di intonaco e legno, neve di cemento e cotone grezzo.
Il soldato che la teneva sollevata da terra stonava, avvolto nella sua divisa scura.
Camminava spedito, quasi si fosse preoccupato di imparare la strada a memoria. Le gambe della ragazza, scoperte dove la veste chiara non arrivava a coprirle, dondolavano dalle sue braccia.
Si fermarono di fronte a una porta anonima e senza colore come tutte le altre, dove il soldato fece per lasciarla andare.
- Dille di tenersi in piedi, - insistette uno degli Infermieri.
- Si lascerà cadere se non le dirai che deve tenersi in piedi.
I suoi custodi sembravano sull'orlo di una crisi isterica; avevano l'ordine di non toccarla a meno che non vi fosse il permesso dei Dottori, e il contatto con un membro dell'esercito costituiva una disastrosa violazione del protocollo di sicurezza. Lui le fece sfiorare il pavimento con la punta dei piedi.
- Veti di non catere, - sputò.
- Capito?
La ragazza non rispose. Era molto stanca, ma prese il controllo dei propri arti e fece come le veniva intimato.
Il soldato bussò alla porta e attese fino a quando qualcuno, dall'altra parte, non gli ordinò di farsi avanti. La ragazza non aveva voglia di entrare, ma il soldato la spinse dentro con un dito a pungerle la schiena nello spazio tra due vertebre.
Di colpo l'odore di medicinali e composti chimici dei sotterranei scomparve del tutto e un lezzo immondo, come di carne in cancrena, le riempì le narici fino a farle girare la testa.
La stanza era calda, illuminata dal bagliore avvolgente di una stufa. Quando i suoi occhi si schiusero sulle persone che la occupavano, però, la ragazza sentì il gelo del Nord annebbiarle la vista e paralizzarle i muscoli, fino a ridurla a una statua inanimata di cristalli di ghiaccio.

***
Una donna dagli occhi verdi come l'erba di Maggio.
Un Dottore alto, dai capelli diafani tirati indietro sulla testa.
Un uomo incontrato sotto le insegne dei cancelli, quella volta che era scesa dal treno e aveva messo piede all'Inferno: il capo del Campo, circondato da cinque dei suoi cani più fedeli, comandante locale delle Squadre di Protezione.
Erano tutti lì.
E insieme a loro, ritte contro una parete divenuta il muro del pianto - scheletri ricoperti da uno strato friabile di pelle -, c'erano ventuno persone.
Uomini e donne, giovani e anziani, e cinquecentoquattro costole in vista.
La ragazza inchiodò lo sguardo sui prigionieri senza produrre il minimo rumore.
- Non dovrebbe essere qui.
Il Dottore aveva l'aria sconvolta. Scuoteva nevroticamente la testa, infuriato, puntando l'indice contro la schiera di detenuti di spalle. La ragazza lo conosceva bene, ormai, perché erano settimane che veniva a trovarla ogni sera, ma in quello stato faceva fatica a riconoscerlo.
- Qui, con questi appestati. Abbiamo impiegato mesi interi per sterilizzare l'ambiente e renderlo completamente asettico!
Il comandante lanciò un'occhiata affamata alla ragazza. Non la disturbava l'essere praticamente nuda, sotto la vestaglia. L'avevano infastidita così tante volte, al Campo, che lo sguardo di un uomo aveva perso di significato.
- Quanti mesi?
- Due, - disse la Dottoressa. Era rassegnata, guardava per terra. Le ciocche bionde che le sfuggivano dalla treccia erano crespe e spente, a riconrdare un fiore in appassimento.
- Molto male Therese.
Il comandante portò il labbro inferiore all'infuori come un bambino.
- Molto male.
- Ce le avete mandata in condizioni pessime. Abbiamo dovuto rimetterla in sesto, come se l'operazione non fosse già abbastanza delicata, - sbottò il Dottore.
Scoccò un dito verso le guardie, - Fateli uscire, adesso.
I soldati rimasero immobili.
- Ai piani alti ne saranno dispiaciuti, - brontolò il Comandante.
- Ai piani alti si preoccupino d'impugnare la armi, per Dio!
Qualcuno tra i soldati sibilò per l'oltraggio. Loro che non erano stati caricati su vagoni fatiscenti, che non avevano perduto tutto, che erano ancora esseri umani.
Il Dottore si fece piccolo piccolo.
- Il loro lavoro è vincere la guerra, giusto? Perché devono giudicare il mio?
Il Comandante con la fascia rossa al braccio si alzò molto lentamente. Sistemò la poltrona sulla quale si era sistemato, tirò i guanti di pelle sul polso, per farli aderire meglio alla dita, ed estrasse la pistola dalla fondina.
Fece scattare la sicura.
Sparò verso il gruppo di prigionieri senza nemmeno guardare.
La ragazza e il generale non batterono ciglio quando un uomo dalle schiena piena di croste si accasciò sul pavimento.
- Dio.
La Dottoressa si coprì la bocca con una mano cianotica. La ragazza indagò il suo viso tirato per un po', chiedendosi se fosse normale non sentire niente, nemmeno sé stessi.
I corpi contro i muri tremavano, stretti l'uno all'altro, come una catena di ossa e carne congelata.
- Cosa ti passa per la testa? - il Dottore ammiccò alla ragazza ad occhi sbarrati.
- Giocare a tiro al bersaglio davanti all'unico esperimento riuscito! Vuoi farla morire di crepacuore?
Il generale poggiò la canna della pistola sulla fronte del Dottore, premendola fino a farla scricchiolare. Tutti trattennero il respiro.
- Dottore, Dottore, tu lo sai che c'è la fuori?
- No.
- Non ho sentito bene.
- No.
Il generale stuzzicò il grilletto, e il dottore deglutì a fatica. La ragazza pensò che un altro ingoio sarebbe bastato ad aprirgli la gola in due.
- No? Te lo dico io, allora. Ci sono quattro treni che ogni dannato giorno scaricano migliaia e migliaia e migliaia di sacchi di carne mangiata dal tifo e centinaia di fottuti sovietici che mi costringono a sprecare munizioni di fortuna pur di ristabilire l'ordine.
Il generale volse lo sguardo a uno dei suoi.
- Ricordami quanti ne sono stati giustiziati oggi, soldato.
- Novantadue, Signore. 
- Novantadue.
- E quanti ne arriveranno domani, Dottore, questo lo sai?
Silenzio. Il comandante avvicinò le labbra al volto dell'uomo, parlando a denti stretti.
- Potrei ammazzarne altri venti proprio adesso, e là fuori ne troverei altri sessanta ad aspettarmi.
- Da dove pensi che vengano?
L'uomo scosse la testa senza parlare.
- Da Majd**ek. Compi**ne. E da Auschw**z-Birk**au, Dottore.
La ragazza ebbe uno spasmo. I passi che sentiva risuonare sopra la propria camera erano di quei detenuti. Dai binari alle baracche del Campo, di giorno e di notte, quella marcia della morte era la loro.
- C-cosa?
Il generale tolse la pistola dalla fronte del Dottore, sparò un altro colpo e la riportò sulla testa dell'uomo. Un altro cadavere si accasciò contro il muro. 
Nessun altro osava fiatare.
- La stiamo perdendo, la guerra, ecco cosa. E tutte le bestie che mandano qui sono quelle che non riusciamo a fare fuori in tempo, prima che i nemici prendano tutti i Campi superstiti.
La donna con gli occhiali a mezzaluna oscillava impercettibilmente, come se fosse stata sul punto di svenire.
- Auschw**z-Birk**au è stato preso?
- Qualche giorno fa.
- Dai Sovietici?
- Dai tuoi fratelli Americani.
Il comandante sottolineò il concetto con un altro colpo di pistola. Il Dottore aveva le orbite iniettate di rosso.
- Nei nostri laboratori c'è in ballo la sorte dell'umanità, non potete permettere che -
- Il caos è la sorte dell'umanità, - tagliò corto il comandante. Il sangue aveva raggiunto i suoi stivali.
- E io e te, sì, io e te, Dottore, abbiamo l'ordine di resistergli prima che quei figli di puttana rivelino al resto del Mondo qual è il prezzo necessario per una giusta causa.
Una giusta causa? La ragazza non capiva quale ideologia si realizzasse nel rendere materiali gli incubi degli uomini.
- Ora, - disse lui, - la scelta è tua. E anche tua, mia cara Therese. Potete lasciar fare tutto a me e alla mia compagna tubercolosi, fino a quando io ho munizioni e lei non comincia a decimare anche i miei uomini. Oppure potete prendervi una parte di questa palta e farne quello che volete in nome della scienza.
Fece una pausa.
- Ma ricorda, Dottore. Ci hai promesso dei vaccini, delle grandi scoperte. Ci hai promesso di cambiare il Mondo, tu, e di farlo con delle armi. 
- Capirai bene che me ne servono almeno un centinaio, e con loro il procedimento esatto per sfornarne un altro milione. A Sachs***ausen ne hanno già tre in arrivo.
Indicò la ragazza.
- Qui ne vedo solo mezza.
Il Dottore parlò con estrema lentezza. La canna della pistola gli aveva lasciato un solco profondo sull'attaccatura del naso.
- Va bene. Portatemi tutti i soggetti dai quattro ai trentacinque anni, - mormorò.
Il comandante sorrise. Fece scivolare l'arma dal Dottore a Therese, toccandole la spalla. Il Dottore si tese verso di lei, come per proteggerla, ma il comandante passò oltre. La ragazza non si mosse, quando lo vide arrivare.
- Come ti chiami?
Quella era una delle risposte che i prigionieri dovevano saper dare in tedesco, ma lei non disse niente.
- Come ti chiami? 
La ragazza non lo sapeva più.
- 111826, - disse il Dottore.
La Donna dagli occhiali a mezzaluna parlò in un soffio.
- Vittoria. Si chiamava Vittoria.
- Proprio un bel nome. Speriamo che porti bene.
Le accarezzò la pancia, dove un leggero rigonfiamento aveva cominciato a sbocciare. La ragazza non lo aveva mai notato prima.
Come se le avessero piantato un ago nel cervello, le sembrò di morire e rinascere nel tempo d'un tocco. D'improvviso credette di ricordare qualcosa, tra la moltitudine di immagini chiuse sotto i solchi delle sue cicatrici: un processo di tortura. Delle siringhe. Cavi nel suo corpo. Provette ricoperte di brina. Forse, pensò, il vero segreto era lì. Forse, dopo che aveva perso il senno, il mostro del labirinto di laboratori era stato nascosto dentro di lei.
Il comandante fece un cenno con la testa ai suoi soldati, affinché scaricassero le pistole sulla fila di prigionieri. Prima che facessero fuoco, però, salutò il Dottore con un leggero inchino.
- Voglio che tutte le cave siano sane, - disse lui.
- E io, Dottore, voglio il bambino che Vittoria porta in grembo. Prima della caduta di Dachau.




Note: capitolo brutto, per quello che ricorda. Sì, questa è un'opera di fantasia. La storia di Vittoria è totalmente inventata, ma purtroppo alcune situazioni che vengono descritte s'ispirano a fatti storici documentati..Gli esperimenti, le epidemie, le deportazioni nei Campi di Lavoro sono stati incubi reali, e vanno ricordati e condannati. Mi è stato consigliato di spiegare in una prefazione qual è la mia posizione riguardo a tematiche tanto complesse: com'è chiaro rifiuto e maledico gli errori/orrori del passato, ma penso sia necessario conoscerli, perché l'umanità non può permettersi di rifare gli stessi sbagli. Ho coperto i nomi dei Campi di Sterminio con degli asterischi, per rispetto degli esseri umani che li hanno visti e per rispetto dei lettori di questa storia.
Li ho citati in un ordine preciso, ricercato e storicamente documentato, secondo il mese e l'anno di liberazione rispetto a quello che non ho "censurato", ovvero Dachau. Sì, portarono veramente lì tutti i prigionieri che non riuscirono a far fuori negli altri Campi e sì, proprio lì tentarono il tutto per tutto utilizzandoli come delle cavie. Certamente gli esperimenti che io ho descritto sono frutto di pura finzione romanzesca. Potrei dilungarmi su cosa facessero veramente lì dentro, ma non ha senso che sia io a parlarvene. Se siete interessati - e tutti dovrebbero esserlo - vi chiedo di informarvi, o di pormi tutte le domande che volete privatamente (qui). Ringrazio chiunque sia passato per di qua, soprattutto Ania, fedele consigliera. Vi mando un bacio, spero che vorrete continuare a seguire "Entropy", aiutandomi a migliorare. A presto!


 
   
 
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