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Autore: Aries K    15/11/2014    1 recensioni
Quando la giovane Emily Collins mette piede nel collegio più cupo e spaventoso di Londra non sa che la sua vita sta per cadere in un mondo oscuro fatto di sangue e creature che credeva vivere solo nei suoi incubi. Quando pensa che la sua esistenza non possa cadere più in basso di così incontra William Delacour, figlio della temibile preside Jennifer Delacour. William -così enigmatico e onnipresente in quel convitto esclusivamente femminile- nasconde un segreto che sembra coinvolgere anche la giovane. I due non potranno che avvicinarvi anche se, non molto lontano da loro, qualcuno cova una centenaria vendetta che sembra non volersi compiere...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Decimo Capitolo








Mi sciacquai le mani con vigore, verso la fine della giornata. Ad ogni cambio d’ora mi rifugiavo nel bagno della camera per espellere la pena ricevuta. Proprio al termine di tutte le lezioni, impegnata in questo intento e china sul lavandino, delle braccia lunghe mi avvolsero per la vita. Dietro alla mia immagine riflessa scorsi Jamie, avvinghiata alla mia schiena come un koala.
-“Smettila di lavarti. E’ tutto passato”, mi bisbigliò vicino all’orecchio. Lanciai un’occhiata al sapone che veniva risucchiato via e al getto d’acqua freddo, destinato alla stessa sorte.
-“Hai ragione. Non so cosa mia sia preso”, cercai di ridacchiare ma parve il gracchiare di una cornacchia. Jamie si sollevò da me e mi fece segno di seguirla in camera; dunque mi asciugai velocemente le mani e la raggiunsi accanto al mio baule, dove c’era anche Nicole.
-“Allora, Emily, credo che sia giunto il momento di riesumare dal baule il tuo cellulare.”
Mi schiacciai una manata sulla fronte, gesto istintivo che le fece ridere e scuotere la testa.
-“Perché l’altra volta mia madre – quella rompiscatole di prima categoria- ci ha bombardato per tutto il giorno su dove fossi, se stessi bene, se William fosse un tipo raccomandabile.”, fece una breve pausa lanciandomi un’occhiata che non riuscii a decifrare, poi mi diede le spalle sedendosi sul letto di Jamie, -“allora, per favore, cerca di farlo ritornare nel mondo dei vivi. Così possiamo scambiarci anche i numeri di telefono.”
-“Va bene, è giusto”, dissi frugando tra una delle bustine di plastica in cui ricordavo di averlo messo, -“ma credo sia scarico e qui non vedo una presa.”
Jamie scrollò le spalle afferrando il cellulare e il carica batterie che avevo appena recuperato e si indirizzò verso il bagno.
-“Proprio dietro alla lavatrice c’è una presa. E’ lì che carichiamo di nascosto i nostri cellulari”, mi spiegò con fare saputello.
-“Vi ringrazio. Ora, però, devo andare a chiedere un informazione ai professori. Nicole”, mi rivolsi a lei, -“questa mattina siamo state interrotte e mi pare volessi dirmi qualcosa.”
La mia amica trasalì e scosse la testa, sorridendomi.
-“Ehi, voi due! Avete dei segreti che non mi coinvolgono?”, scherzò Jamie, di ritorno, incrociando le braccia al petto.
-“No, figurati”, mugugnò Nic, lisciandosi delle pieghe immaginarie sulla gonna. Aggrottai le sopracciglia.
-“Sei sicura? Mi sembrav…”
-“Davvero, Emily! Volevo solo dirti che domani ci divertiremo. Tranquilla, non dovevo dirti qualcosa di importante.”, chiarì con uno sguardo particolarmente insistente e, non appena Jamie si voltò per raggiungere la finestra, indicò con la testa le sue spalle, mimando con la bocca “non adesso.” Recepii il messaggio e le salutai, scendendo le scale per dirigermi nella sala dei professori.
L’obiettivo della mia giornata era quello di scoprire la via dell’alloggio di mia nonna: qualcuno doveva pur esserne a conoscenza.
Nonostante la porta fosse aperta e vedessi i pochi presenti, bussai per ricevere il permesso d’entrata.
-“Signorina Collins, cosa le serve?” Il professor Bennet mi raggiunse sulla soglia mentre gli altri tornarono a chiacchierare e a sistemare un tavolo pieno di fogli, libri e documenti.
-“Sì, vorrei sapere se lei può, o un altro professore, riuscire a mettermi in contatto con mia nonna. E’ da molto tempo che non la sento e che non la vedo.”
-“Oh”, farneticò sovrappensiero, -“no, mi dispiace, Collins. L’unica persona che può aiutarla, in questo caso, è Miss Delacour. Vada da lei, così va’ sul sicuro, no?”
No?
Se c’era una situazione che volevo evitare come la peste era quella di andar a elemosinare informazioni riguardo la mia unica e sperduta parente dal Male per eccellenza.
Davvero molto utile, signor Bennet, non c’è che dire.
-“Grazie.” Finsi un sorriso piuttosto tirato e girai i tacchi. Se non fossi stata disperata mi sarei arrangiata per conto mio ma, sia dia il caso, che io fossi più che disperata. Così, cinque minuti dopo essere rimasta a fissare la porta dell’ufficio della preside, bussai con infinita leggerezza.
-“Avanti!”, proruppe la sua voce, che sembrava giungermi dall’oltretomba. Rabbrividii e feci l’ingresso più disinvolto che riuscissi a simulare: spalle dritte, braccia intrecciate dietro la schiena, andatura sciolta e testa alta.
Miss Delacour si mostrò sorpresa e spiazzata; non saprei decidere se per la mia presenza o per la mia spavalderia di cartapesta.
-“Cosa volevi fare, signorina? Buttare giù la porta?”
Ignorai la sua provocazione e puntai al dunque:
-“Sono venuta qui per chiederle se può, gentilmente, concedermi l’indirizzo dell’ alloggio di mia nonna.”
Lei dondolò il capo abbandonando la sedia girevole; con un verso, poi, ruppe il nostro contatto visivo per posizionarsi di fronte al ritratto. Evitai di soffermarmi su quell’immagine, aspettai una risposta vagando con gli occhi in quell’ufficio divenuto fin troppo familiare.
-“Ho saputo che c’è stato un guasto piuttosto importante. Sono settimane che tentano di ripristinare la linea telefonica e risolvere i vari problemi di quell’istituto”, mi informò con un tono talmente basso da farmi credere che fosse sovrappensiero, così m’incamminai per andarle vicino nel momento in cui si voltò per guardarmi; sobbalzò allarmata. La reazione che ne conseguì mi spiazzò non poco:
-“Cos’hai dietro la schiena?”, urlò questa.
-“Cosa?”
-“Collins, che cosa stai nascondendo dietro la schiena?!”
-“Io non ho niente dietro la…”
Miss Delacour mi piombò addosso come una furia, afferrandomi le braccia per verificare se davvero nascondessi qualcosa. Io ero senza parole: come poteva pensare che fossi entrata in quella stanza con l’intento di farle del male?
Ancora con le braccia imprigionate nelle sue mani, ci guardammo. Aveva il respiro affannato, gli occhi spalancati e la bocca tesa e sigillata.
-“Mi lasci”, sussurrai con debolezza, -“ha visto? Non ho niente dietro la schiena. Come può pensare una cosa del genere?”
Mi lasciò andare di colpo e raggiunse la scrivania posizionandosi di fronte alla finestra.
-“Fuori dal mio ufficio.”
-“Ma lei non ha risposto alla mia domanda. Per cortesia, Miss”, insistetti anche se avevo la consapevolezza di aver appena assistito ad una delle sue crisi, ad uno dei suoi cedimenti emotivi. E questo mi spaventava più di una frustata.
Infatti tornò ad osservarmi stizzita per la mia irruenza.
-“Se riuscirò a metterti in contatto con la signorina Williams”, mormorò cercando di ricomporsi, anche se nel suo volto leggevo una tensione che poteva comprendere solo lei, -“domani ti organizzerò un incontro con tua nonna. Tieni il cellulare accesso. Ho tuo il numero, come quello di ogni altra alunna, e adesso esci. Immediatamente.”
Non potendo credere sul serio a quelle parole mi ritrovai ad annuire, a ringraziarla a mezza bocca e ad uscire con foga come se ne valesse della mia vita togliermi d’impaccio. Trionfante come mi sentivo fu veramente un compito arduo contenere l’emozione, quasi raggiunsi la mia camera isolata saltellando. Chiusi la porta alle mie spalle e mi gettai sul letto, cercando, per quanto fattibile, di cancellare l’episodio dell’ora della Jim e di proiettare i miei pensieri all’imminente incontro con Caroline Collins.




Se c’era una cosa che non avrei dovuto dimenticare era la guida imprudente della signora Danielle. Rischiammo due volte di finire contro l’auto di fronte o farci tamponare da quella dietro. Da come avevo iniziato il pomeriggio avrei dovuto farmi un’idea ben precisa di quello che mi sarebbe aspettato, e invece mi ero limitata a coltivare la speranza che quella sarebbe stata una normale bella giornata. Dicembre ci donò un cielo buio e un gelo da far ghiacciare le articolazioni così, come prima tappa, ci rifugiammo in un negozietto che vendeva vestitini eleganti e accessori per ragazze. Il punto era che Nicole voleva scovare –in quel turbinio di stoffe colorate e brillanti- l’abito perfetto per la cena di Natale.
-“Questo è bellissimo, non trovate?”, chiese il nostro parere accarezzando un semplice tubino rosato.
-“Già”, convenne Jamie avvicinandosi all’amica, -“e ti starebbe davvero bene perché sei così magra, Nic.”
-“Voi ragazze cosa indosserete?”, cinguettò la signora Danielle mentre trafficava con il suo cellulare accanto ai camerini. Io e Jamie ci guardammo senza saper cosa rispondere: non avevamo niente da mettere.
-“Penso che noi ci accontenteremo di far diventare elegante, o almeno passabile, uno dei nostri vestitini lunghi. Giusto, Emily?”
Annuii, cercando di nascondere l’amarezza provocata da quelle parole.
-“Magari ci compreremo uno di quegli accessori. Sembrano carini.”
-“Sì, ottimo.”
Danielle ci stava guardando inespressiva, si ritrovò a scuotere la testa e poi, riponendo con un colpo secco il telefono nella borsa, allargo le braccia al cielo e disse:
-“Prendete quello che volete ragazze. Consideratelo un mio regalo natalizio.”
Improvvisamente fu come se la mamma di Nicole fosse stata avvolta da una luce dorata, e fosse stata munita di ali angeliche, mentre nella mia testa s’intonava il coro dell’alleluia. Uno dei canti in cui ci saremmo dovute esibire in chiesa, tra l’altro.
-“Oh no, questo no”, mormorò Jamie diventando rossa.
Nonostante avrei voluto davvero tanto accettare la proposta della signora Danielle mi ritrovai, per mia natura, a condividere il disagio di Jamie.
-“Non possiamo accettare un regalo così costoso. Ma grazie mille”, dissi sorridendole calorosamente. Danielle sbuffò e Nicole ci avvolse in un abbraccio.
-“Le mie amiche sono anche le amiche di mia madre”, ridacchiò quest’ultima.
-“Ragazze, seriamente, non fate complimenti. Non è per vantarmi, assolutamente, ma se vi propongo questo è perché posso permettermelo. Forza! Guardatevi intorno, mica possiamo rimanere qui tutto il giorno!”, perseverò allontanandosi verso il reparto di scarpe per non lasciarci replicare.
-“Tanto i soldi sono di George. Quindi, esagerate”, rise la figlia, tornando ad osservare il tubino che aveva adocchiato.
Dunque non vi era possibilità di toglierci da quella situazione così, io e Jamie, afferrammo tutto quello che attirava la nostra attenzione e a turno andammo ad occupare l’unico camerino disponibile. Dopo circa mezz’ora uscimmo dal negozio con una grande busta di plastica che ospitava i nostri bellissimi abiti: quello di Jamie era lungo e aveva una gonna ampia adornata con della stoffa leggera e argentata come il resto dell’abito. Il mio, invece, era azzurro. Un modello decisamente più sobrio di quello della mia amica, anche se era ugualmente lungo e con una bella scollatura a V, non troppo profonda. Nicole, alla fine, optò per il tubino rosa che le avrebbe lasciato le gambe scoperte.
Non ringraziammo mai abbastanza sua madre per tutto questo.
Mentre attraversavamo la strada per riporre i nostri acquisti nel bagagliaio mi sembrò di sentir vibrare il telefonino nella borsa; quando andai a controllare lo schermo riportava un numero che non conoscevo e che aveva smesso di chiamarmi. Subito pensai che la Delacour ce l’avesse fatta ad organizzare l’incontro con nonna. In trepidazione richiamai.
-“Pronto?” Mi rispose una voce femminile, vellutata e bassa.
-“Salve, ho trovato questo numero sul mio cellulare e non ho fatto in tempo a rispondere.” Danielle mi sorrise prendendo la busta dalla mia mano per depositarla in macchina, poi richiuse il bagagliaio e ci fece cenno di stare affianco a lei, ora che stavamo per attraversare la strada.
-“Emily, ciao. Sono Rebecca Williams. Miss Delacour mi ha raccontato tutto. Ho tua nonna in macchina.”
M’illuminai istantaneamente in un sorriso a trentadue denti.
-“Signorina Williams, che bello risentirla. Questo significa che potrò incontrarla?”
-“Sì, raggiungici al Cafè Timothy. Sai dov’è?”
-“Certamente. A che ora dovrò essere lì?”, domandai lanciando un’occhiata alle mie amiche che erano in ascolto, curiose.
-“Incomincia ad incamminarti perché manca solo una traversa e siamo lì. A tra poco, Emily.”
Riagganciai mentre salivamo in sincrono sul marciapiede.
-“Allora? Vedrai finalmente tua nonna?”
-“Sì, Jamie. La Williams si è incaricata di organizzare questo incontro in un bar qui vicino”, spiegai, contenta, e loro mi lasciarono andare dicendomi che, non appena avevo terminato l’appuntamento, avrei dovuto chiamarle per farmi venire a prendere.
Il freddo e la fretta mi permisero di non impiegare molto tempo per raggiungere il bar. Prima di entrare, però, m’impalai di fronte alla vetrata cercando di scorgere i visi conosciuti che attendevo. E le vidi. La signorina Williams attraversava –con una tazza fumante in mano- il breve spazio tra il bancone e il tavolino su cui era poggiata mia nonna. Si stava sfregando il volto con le mani e sentii il mio sorriso vacillare dinanzi quel gesto perché, anche se non potevo esserne certa, sembrava abbattuta e irrequieta. Entrai di tutta fretta, sentendo sopra alla mia testa un tintinnio che annunciava il mio arrivo. Le due donne si voltarono e nonna si alzò non appena mi riconobbe. Mi gettai tra le sue braccia e l’odore del profumo che aveva mi ricordò casa, inondandomi i polmoni e regalandomi un’istantanea del periodo in cui vivevamo insieme.
-“Ciao nonna. Mi sei tanto mancata”, sussurrai vicino al suo orecchio. Grugnì e qualcosa di freddo iniziò a scorrere sul mio collo, mi staccai e vidi i suoi occhi verdigni offuscati dalle lacrime. Poi mi sorrise, asciugandosele col dorso della mano… fasciato.
-“Va tutto bene, dolcezza. Andiamo a sederci e non fare caso alle mie ferite. Sono caduta per le scale dell’ospizio.”
Scossi il capo mentre mi avvicinavo alla signorina Williams che mi accolse con un fugace abbraccio.
-“Allora Emily, come stai?”, mi chiese quest’ultima, seduta accanto a mia nonna. Sospirai.
-“E’ dura essere lì dentro.”
-“Che cosa vuoi dire?”, si affrettò ad interrompermi nonna, sporgendosi oltre il tavolo. La Williams le strinse una mano e lei si tirò indietro, fissandomi.
-“Voglio dire, c’è molto rigore ed io mi sto continuamente cacciando nei guai”, gettai un’occhiata alle mie mani intrecciate sulle ginocchia e scossi la testa pensando che, forse, era meglio non accennare ai metodi di educazione della preside.
-“Tu piuttosto”, dissi cercando di spostare l’argomento,-“sapresti dirmi che succede nel tuo ospizio?” Nonna fece per parlare ma la Williams la precedette.
-“Quella struttura è vecchia quanto il mondo. Ci sono stati dei crolli e la linea telefonica è andata. Mancano i fondi e i lavori di ristrutturazione sono arretrati”, mi spiegò velocemente, ed ebbi la sensazione che si fosse preparata questa risposta a memoria. Comunque sorrisi e allungai le mani verso quelle di Caroline. Non era cambiata poi molto: i soliti ricci biondi, quasi bianchi, gli occhi verdi dal taglio allungato, le labbra a cuore con gli angoli insolitamente all’ingiù. Probabilmente doveva odiare quel posto quanto io odiavo stare in collegio. Le accarezzai la fasciatura e intravidi, in questa, una macchia di sangue. Alzai gli occhi per guardarla e la sorpresi che mi fissava intensamente, come se volesse comunicarmi qualcosa. Infatti, senza nemmeno essere troppo discreta, m’indicò con gli occhi la Williams, attaccata alla sua sedia.
-“Signorina Williams, potrebbe farmi un favore?”, recitai, avendo inteso che, qualsiasi cosa nonna desiderasse dirmi, era bloccata dalla presenza dell’assistente.
-“Sì”, farfugliò sorpresa, -“dimmi.”
-“Potrebbe ordinarmi un succo di frutta, magari a temperatura ambiente, alla pesca? Tenga le do i soldi.” Rovistai in fretta nella borsetta per recuperare il portafogli e tirai fuori un paio di monete ad una velocità tale che ella non potette ribattere. Glieli lasciai cadere sul palmo aperto e, alzandosi, toccò con la mano la spalla di Caroline. Quest’ultima, libera dalla presenza di Rebecca, si allungò prendendomi per un braccio.
-“Nonna!”, mormorai a bassa voce.
-“Stammi a sentire, Emily. Tu sei in…”
Un colpo di tosse così potente ci fece voltare, insieme agli altri clienti, verso un tavolo poco distante da noi. Due ragazzi –un moro possente e un biondino più o meno della stessa stazza- ci guardavano tra il divertito e il minaccioso. Le altre persone tornarono a consumare le proprie bibite mentre quei due ragazzi non erano intenzionati a lasciar la presa dal mio sguardo. Bastò incontrare quei quattro occhi per farmi sentire irrequieta, farmi assalire da un’ondata di panico irrazionale.
Tuttavia tornai a guardare mia nonna, che era ammutolita e a testa basta.
-“Cosa mi stavi dicendo?”, la incitai a proseguire senza, però, non controllare di sottecchi quei due.
-“Niente, tesoro mio.”
Aggrottai le sopracciglia perché, davvero, non me la raccontava giusta.
-“Non puoi mentirmi e lo sai. Lo vedo che c’è qualcosa che ti preoccupata. Ti prego, nonna.”, cercai di persuaderla ma in men che non si dica la Williams si materializzò al lato della mia sedia per depositare sul tavolo un bicchiere colmo di succo di frutta. La ringraziai senza sorridere.
Dovete sapere che, per la restante mezz’ora che ci rimaneva, parlammo del più e del meno senza trascinarci veramente in un argomento interessante o specifico. Nonna era strana, la Williams insolitamente petulante e, come se ciò non fosse sufficiente a stranirmi, nel momento dei saluti, i miei occhi s’indirizzarono nuovamente verso il tavolo occupato da quei due ragazzi, che erano divenuti tre. Mentre i due di prima mi davano le spalle, il nuovo arrivato si tolse gli occhiali da sole guardandomi con un guizzo ardente negli occhi. E lo riconobbi. Subito. Immediatamente.
Il ragazzo incontrato al Winter Wonderland.
Il tempo di realizzare quel pensiero che anche i suoi amici –quelli che l’altra volta stavano ritardando e che hanno gridato il mio nome- si voltarono, sorridendomi per nulla amichevoli. Rimasi per pochi secondi a mirarli con la bocca aperta, avvertendo un calore allarmante localizzarsi all’altezza del petto. La Williams mi passò davanti facendo distogliere lo sguardo da loro. Uscimmo dal bar ma non per questo mi sentii sollevata. Salutai distrattamente le due donne per via di quell’incontro improvviso; poi, mentre Rebecca teneva aperta la portiera della macchina per concedere a nonna di salire a bordo, mi resi conto di ciò che stavo lasciando andare, la mia unica parente che chissà quando avrei riabbracciato. Allora corsi da lei, stringendola forte forte.
-“Ti voglio bene, nonna. Ci vedremo presto, non è vero?”
-“La vedrai molto presto, Emily.” Fu nuovamente –ed irritatamente- la Williams a rispondere.
Perché Caroline Collins sembrava subire la sua presenza?
Stirai un sorriso e girai i tacchi; ero arrivata a buon punto quando una mano piuttosto fredda mi afferrò il braccio, facendomi gridare e voltare nel medesimo istante.
-“Stammi a sentire”, s’affanno a parlare mia nonna, mentre in lontananza Rebecca Williams correva sulle punte dei tacchi per recuperarla, -“se pensi che un luogo non faccia per te, talvolta uscire di scena non è sinonimo di codardia.”
Mi accigliai mentre sillabavo ciò che mi aveva appena detto, per poi vedere le due allontanarsi nuovamente. Sembrava che la Williams stesse rimproverando mia nonna.
-“Ma che significa?”, domandai al vuoto, seguendo con gli occhi la macchina che le stava conducendo lontano da me.
M’incamminai nuovamente con una strana sensazione di confusione gravarmi sulle spalle, con la mano che cercava con distrazione il cellulare nella borsa per avvertire Danielle.
All’improvviso uno spostamento d’aria alle mie spalle mi fece voltare strappandomi dalla ricerca.
I tre ragazzi di prima erano schierati in un muro compatto e mi fissavano come una tigre, intenta a sferzare l’aria con la coda, fissa la sua preda prima di ucciderla. Il mio braccio rimase sospeso ed immobile nella borsa, la mia bocca si modulò in una O che rappresentava il mio sgomento. Anche se, nel ripensarci, non penso che la parola sgomento possa render giustizia al senso di panico e paura che m’invase.
-“Che volete?”, ruppi il silenzio e, in un certo senso, credevo non aspettassero altro per cominciare qualsiasi cosa avessero premeditato.
-“Tu hai una cosa che appartiene ad una persona che conosciamo e, sai com’è, sono anni che non desidera altro che averla tra le mani”, mi spiegò il ragazzo con il codino, accompagnando quelle parole con un tono di voce paziente, lento, che quasi mi fece dispiacere dovergli rispondere:
-“Io non so di cosa tu stia parlando, in tutta onestà. Ma credo che voi stiate continuando a scambiarmi per un'altra persona.”
Il biondo aprì la bocca ma il ragazzo di prima lo bloccò con un cenno della mano.
-“Quindi ti ricordi del nostro primo incontro su quella panchina”, affermò aspettando che annuissi, -“e quindi tu pensi che io stia seguendo, per tutto questo tempo, la persona sbagliata? No, Emily, sei tu quella che stiamo cercando.”
Cominciai a sudare freddo perché iniziavo a capacitarmi del fatto che non se ne sarebbero andati senza prima avermi fatto del male, nonostante le persone passassero accanto a noi, non accorgendosi della tensione di quel quartetto che sfioravano al passaggio.
-“Sentite non vi conosco, non ho niente da dover spartire con voi e quindi vi saluto”, farfugliai tutto d’un fiato e gli diedi le spalle, ambendo a raggiungere un negozio affollato o, almeno, un gruppo numeroso di persone con cui aggregarmi. Iniziava a far buio, però, e di conseguenza non c’era molta mole ad incoraggiarmi.
Dopo qualche passo controllai oltre la spalla quanta distanza avessi posto tra me e i miei inseguitori, non scorgendoli più, mi tranquillizzai pur non rallentando il passo.
Il tempo di svoltare l’angolo, abbassare la guardia per ripescare quel maledetto aggeggio nella borsetta che, la mano di uno dei tre, mi afferrò per la gola. Venni trascinata in un vicolo diroccato, stretto e sudicio; la velocità e la forza con cui venne trasportato il mio corpo mi lasciò interdetta per qualche istante poi, con tutto il fiato che avevo iniziai a gridare e dimenarmi. Più mi ribellavo e più la sua stretta si rafforzava intorno al collo, piegato dal dolore verso il basso dove potetti vedere la macabra danza dei miei piedi che non riuscivano a frenare e che venivano pietosamente raschiati al suolo. Lui gridò un’ammonizione ma non lo feci terminare perché con una spinta sbilanciai entrambi aggrappandomi con le gambe ad un cassonetto. Caddi a terra a pochi centimetri da lui, il biondo.
-“La tua resistenza è tanto ammirevole quanto ridicola”, commentò alzandosi. Strisciai all’indietro poiché la caviglia sinistra non mi permetteva di alzarmi e quasi non vidi nero dal dolore.
-“Avanti, finiamo questa cosa”, suggerì una voce alle mie spalle prima ancora dell’ingresso in scena degli altri due.
Il ragazzo dai ricci castani, austero e imponente, si chinò al mio fianco per sfilarmi la borsa dalla spalla. Tutti e tre si radunarono intorno a lui mentre rovistava al suo interno.
-“Qui non c’è!”, urlò, scagliando la borsa a terra, -“nel cappotto”, mormorò proseguendo verso di me.
-“Non azzardare a mettermi le mani addosso.” Mi ero ripromessa di ringhiare ma la voce che uscì dalla mia bocca fu così pietosa che mi vergognai.
Ma anche se fossi riuscita a ringhiare avrei potuto fermare quei tre colossi? Certo che no, stupida Emily.
Mi chiusi a riccio non appena le mani del ragazzo mi afferrarono per i fianchi al fine di issarmi in piedi. Mi divincolai, scalciai e battei pugni alla cieca rimanendo col volto affondato tra le ginocchia, tuttavia, nel giro di un minuto mi ritrovai in piedi. Contro il muro.
-“Lasciatemi in pace”, dissi, stavolta con più fermezza, le braccia alzate e imprigionate nelle fredde mani del ragazzo col codino nel frattempo che l’amico perquisiva le tasche del mio cappotto bianco. -“Non possiamo, te lo ripeterei all’infinito, piccola e dolce Emily Collins.”
Sgranai gli occhi al suono del mio nome completo.
-“La padrona ci ha ordinato di trovare quell’oggetto che tanto brama e che tu tanto nascondi. Non possiamo fallire, capisci? O tutto ciò che ci ha promesso non potrà esaudirsi”, sospirò simulando una certa drammaticità.
-“Ben, abbiamo un problema a quanto pare”, mormorò il moro strattonandomi nel cappotto e voltando le spalle. Ben mi lasciò libera e le mie braccia caddero formicolanti lungo i fianchi. Il ragazzo biondo mi scrutava in cagnesco facendo attenzione che non scappassi.
-“Non c’è. Non l’ha portato con sé.”
-“E allora facciamola parlare con le cattive!”, convenne il biondo schiacciandomi la gola con l’avambraccio, il mio cranio che quasi perforava il muro pregno d’umidità di quel vicolo cieco.
-“Bast…non...” Non riuscivo a respirare figuriamoci parlare, ma lui non lo capiva e aumentava la pressione.
-“Kendrick, la stai uccidendo e sai perfettamente che ci è stato vietato.”
Boccheggiavo convulsamente mentre, con gli occhi fuori dalle orbite, fissavo il suo viso livido. Ad un tratto abbassò il capo come richiamato o infastidito da qualcosa. Quando tornò con lo sguardo nel mio i suoi occhi non erano più azzurri – di un colore limpido, fin troppo puro per lui- ma rossi. Schiacciò la fronte sulla mia e il suo viso si stravolse trasformandosi in un essere famelico, la bocca spalancata a mostrarmi due lunghi canini. Uno dei suoi lo strappò via da me e scivolai a terra, respirando a gran boccate e in preda ad uno shock fin troppo conosciuto.
Vampiri.
Ero stata seguita, aggredita e quasi uccisa dalle stesse creature che stavo iniziando a conoscere e, lo ammetto, a giustificarne l’esistenza. Ero impietrita mentre Ben e l’altro tenevano per le braccia l’amico, in preda a degli spasmi terrificanti, con gli occhi incollati sulle mie gambe: intorno al ginocchio i jeans erano stati logorati e s’intravedeva con chiarezza la mia carne sgorgare sangue.
-“Vattene, Emily Collins, vattene!”, gridò Ben affannato per tener saldo Kendrick, -“vattene e ringrazia questo tuo giorno fortunato perché, la prossima volta, non lo sarà altrettanto.”
Strisciai a terra recuperando la borsetta e, ignorando il ginocchio pulsante, la caviglia dolorante che piegava ad ogni due passi i miei movimenti, corsi via riversandomi in strada.
   
 
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