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Autore: K u r a m a    19/11/2014    0 recensioni
E' necessario aver letto "When Falls the night".
La storia parla di Shade, di alcuni frammenti della sua vita che nella long non sono stati approfonditi.
Quella era la giornata di un bambino qualunque, una Domenica passata in famiglia tra il calore e il riso, tra gli scherzi, il solletico e i pasticci in cucina.
Era una giornata di primavera, la città come sempre era tinta dalle sue innumerevoli luci, tutto era rumore, la quiete non esisteva.
Il suono dei pneumatici sull'asfalto, il suono lontano delle sirene che sottostavano alla legge dell'effetto Doppler, il rumore dei piatti che sbattevano negli appartamenti accanto e la melodia triste del sax che veniva suonato nell'edificio di fronte.
Tutto era normale, perfetto per quel bambino biondo di otto anni che sedeva a tavola e mangiava le sue patatine fritte intinte nel ketchup piccante, sporcandosi la bocca che gli veniva puntualmente ripulita da sua madre, mentre suo padre mangiava tranquillo e annuiva al concitato racconto di suo figlio che stava riassumendo tutta la sua piccola giornata.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Shonen-ai
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sangue che non muore, amore che va anche oltre la morte.'
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Indifferenza, disprezzo e rifiuto per un nipote mai conosciuto.

 

Da quella notte non aveva più parlato, da quella notte aveva avuto paura di essere toccato.

Anche allora, mentre la macchina dell'assistente sociale sfrecciava sicura sulla strada che avrebbe portato Shade in un luogo che non era casa sua, che mai lo sarebbe stata e che ancor meno conosceva.

Il bambino non guardava neppure fuori dal finestrino, non vedeva i rigogliosi alberi piantati a schiera lungo la strada, non notava neppure i dolci giochi di luce che il sole creava passando attraverso le foglie; il suo sguardo verde era ormai sbiadito, un'ombra del tempo, e che guardava ormai perennemente solo le punte dei suoi piedi.

Alle sue orecchie non arrivava nessun suono. Non sentiva la radio che cantava una delle solite stucchevoli canzoni d'amore, non udiva le parole sussurrate da quegli uomini che lo avevano preso e portato via di casa, portandolo via da quella luce che profumava di zenzero e che lo aveva protetto per tutto il tempo dalle fiamme e non percepiva neppure il suono delle gomme, che accarezzavano l'asfalto o delle altre macchine che passavano vicina alla loro.

Tutto era muto, tutto era silenzio e Shade non vi era abituato, lo temeva, lo faceva piangere la notte quando le tenebre si mischiavano ai suoi sogni, rendendoli incubi, trasformandosi in fiamme, urla e risa.

Tremò il bambino, che iniziò a tormentarsi le mani, nascondendole poi nelle maniche del maglione; gli occhi che si riempivano di nuovo di lacrime, la sua pelle che ancora percepiva la presenza del sangue di Lucy su di sé e che lo faceva stare male, che gli dava l'impellente bisogno di strapparsela.

Non voleva sentire quella sensazione, non voleva ricordare, ma per lui era inevitabile farlo; era tutto ciò poteva fare, che la sua mente gli ricordava di fare.

-Va tutto bene Shade.- disse uno dei due assistenti, voltandosi verso di lui e porgendogli un fazzoletto che Shade non prese.

Non voleva toccare nessuno, che sarebbe successo se lo avesse fatto? Sarebbero morti come mamma e papà?

Quello sorrise comprensivo e senza neppure sfiorarlo glielo posò sulla gamba e poi si ritrasse subito, guardando davanti a sé, ma guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore, mentre il collega guidava tranquillamente.

Il bambino guardò quel pezzo di carta finemente piegato, tentennante lo prese e poi si soffiò il naso velocemente, per nasconderlo infine nella tasca della sua felpa.

Di sottecchi guardò l'uomo e con le labbra mimò un “grazie” e quello sorrise dolcemente, tornando poi a parlare col collega che consultava il suo fedele Tom Tom.

Shade tornò a guardare di nuovo ai suoi piedi, come se sulla punta delle sue piccole scarpe bianche vi potessero essere le risposte alle mille domande che gli affollavano la mente, come se lì, su quella linea curva, sulla quale aveva disegnato delle ali con un pennarello nero indelebile, vi potesse essere un mondo senza tutto quell'immenso dolore che portava dentro, che era fresco, palpabile, ai suoi occhi invalicabile.

Per lui era come la siepe di Leopardi, quella punta bianca, solcata dal nero colore, portava all'immaginazione, ma anche al ricordo e per lui, per Shade, non vi era alcun mare in cui poter dolcemente naufragare.

-Siamo quasi, arrivati.- disse l'uomo che guidava, entrando all'interno di un vialetto che portò a una casa grande, immensa; una vera e propria villetta dipinta di azzurro, il tetto il tetto bianco, piena di enormi finestre, circondava da un giardino ben curato, pieno di siepi e di rose.

L'assistente sociale parcheggiò e si slacciò la cintura prima di uscire all'unisono con l'altro.

Shade rimase invece fermo, pietrificato. Non voleva scendere, non voleva vedere quella che avevano definito la sua nonna; lui non l'aveva mai conosciuta, la madre nemmeno mai gliene aveva solo accennato l'esistenza.

-Shade, devi venire con noi.- lo informò pazientemente lo stesso uomo del fazzoletto che aprì la portiera e si protese per staccargli la cintura, ma a quel gesto il biondo strabuzzò gli occhi e celere si liberò e come un animale in gabbia, braccato, strisciò nell'angolo più lontano della macchina e tremando guardò quell'uomo terrorizzato, aspettandosi che da un momento all'altro potesse morire, perché lui era maledetto, perché lui era sopravvissuto, perché lui era vivo e invece i suoi genitori erano morti per proteggerlo, a causa di quel mostro che glieli aveva portato via senza alcun motivo apparente, ma che era sicuro fosse a causa sua. Tutto era causa sua, se lui non fosse mai nato la sua mamma e il suo papà sarebbero stati vivi.

Pianse di nuovo, mentre il suo cuore correva, correva, a voler sfondare il petto, perché quello era il suo destino: battere, battere e ancora battere, senza fermarsi mai, in una corsa che non sapeva dove lo avrebbe portato, una che il destino aveva finemente tessuto e di cui gli aveva solo fatto gustare l'antipasto.

-Sei troppo gentile, Jace.- lo rimbeccò l'altro uomo, facendo il giro della macchina e aprendo la portiera a cui era addossato il bambino e prendendolo.

Questo iniziò a mugolare e a tentare di liberarsi.

Non dovevano toccarlo, sarebbero morti! O questo almeno era il pensiero di quel piccolo, che iniziò a scalciare terrorizzato, che arrivò persino a mordere la mao di quello che lo stava tenendo, che mollò la presa.

Caduto a terra Shade prese a correre, forse poteva scappare, andarsene dove nessuno lo avrebbe trovato, dove avrebbe potuto morire o sentire di nuovo quel dolce profumo di zenzero che lo aveva sempre accompagnato ogni notte, che lo rilassava, ce gli dava la sensazione di amore e calore e che gli avrebbe tolto qualunque dolore.

-Dannato moccioso, mi ha morso!- si lamentò l'uomo privo di qualsiasi tatto, mentre Jace lo fulminava e seguiva il bambino, che era inciampato poco lontano e stava singhiozzando sull'erba.

Gli si avvicinò cauto, inginocchiandosi davanti a lui e protese una mano e lo accarezzò senza toccarlo, sfiorarlo.

-Shade va tutto bene. Non ti toccherà nessuno se non vuoi.- gli promise e il biondo per la prima volta da giorni lo guardò.

Guardò quel viso gentile, quegli occhi che brillavano di comprensione e pena colorati da quel verde pastello, pigmentato da qualche screzio marrone.

Osservò quei corti capelli castano scuro, quel completo elegante fatto di giacca e cravatta, ma che grazie a quel sorriso non faceva paura a quel povero bambino traumatizzato che avrebbe voluto buttarglisi tra le braccia, ma che aveva paura.

L'adulto sembrò capire e si auto abbracciò. -Ti voglio abbracciare anche io.- sorrise e Shade timidamente imitò quel gesto.

-Sei davvero dolce.- disse l'assistente sociale alzandosi e ripulendosi dai fili d'erba che si erano attaccati ai suoi pantaloni.

-Ora andiamo dalla nonna? Ci proviamo?- chiese.

Shade lo guardò dal basso, era così alto, come il suo papà.

Rivide Jack in quel giovane ragazzo che aveva un nome così simile e al ricordo del padre tremò e tornò a piangere, ma si alzò comunque, tentennate, barcollando un poco a causa delle gambe che gli tremavano, del petto che gli doleva e sembrava incapace di respirare, di raccogliere ossigeno.

Jace avrebbe voluto aiutarlo, ma sapeva che Shade doveva fare da solo, perché nessuno avrebbe potuto insegnargli a rialzarsi, era una cosa che solo lui poteva comprendere.

Una volta che fu in piedi si avvicinò all'assistente e gli strinse solo un dito con il suo.

Voleva fidarsi, voleva credere che non sarebbe morto, che sarebbe stato al suo fianco, che sarebbe vissuto cento anni.

L'illusione di un bambino che aveva perso tutto, che era entrato nei meccanicismi della vita troppo presto, che aveva incontrato la morte e che quasi lo aveva toccato.

Il castano non si sorprese di quel gesto e poi, senza aspettare il collega che era rimasto in silenzio a guardarli, si diresse con il biondo verso la porta di quella casa bella, ma che allo stesso tempo dava parvenza di freddezza.

Suonarono il campanello e attesero. Suonarono poi di nuovo e la porta finalmente si aprì.

A far comparsa un'anziana signora, i capelli legati in una crocchia perfetta, che non lasciava sfuggire un solo capello ingrigito a causa dell'età avanzata. Questa aveva profonde rughe sul volto, sulle mani, spessi occhiali gialli le cui stanghette erano legate a una piccola e sottile corda di perline, probabilmente finte, che andava a circondarle il collo; gli occhi erano fieri, di un blu così profondo che ricordavano il mare, gli stessi occhi che Lucy aveva ereditato.

-Desiderate?- chiese questa senza farli accomodare. La sua voce fredda, austera, frigida come la natura che parlava all'islandese.

-Siamo gli assistenti sociali, abbiamo portato vostro nipote.- sorrise Jace di circostanza. -Ne avevamo parlato al telefono, ricorda?-

Gli occhi della donna divennero ancora più freddi se possibile, quasi gelavano e Shade a quella vista, ebbe paura, nascondendosi dietro a quel ragazzo che sembrava essere l'unico a capirlo.

-Sono vecchia, non rimbambita.- sputò con astio, abbassando gli occhi poi sul nipote che tremò.

-Piuttosto è lei che credo non abbia capito: questo bambino del demonio non lo voglio.- quasi rise nel dire “bambino del demonio”, guardandolo negli occhi verdi.

-Signora è suo nipote, credevo che conoscendolo avrebbe cambiato idea.- esplicò Jace, stringendo di più il dito del piccolo per dargli forza, conforto.

Quella rise, maligna, malvagia.

-Non accolgo demoni in casa mia. E' solo colpa sua se la mia Lucy è morta! Colpa sua e di quel bastardo demone di suo padre.-

-Papà non era un bastardo!- urlò Shade tra le lacrime, parlando per la prima volta da giorni, piangendo.

Strinse i piccoli pugni e guardò coraggioso quella che avrebbe dovuto essere sua nonna, ma che ai suoi occhi non era altro che una di quelle strega cattive delle favole.

-Papà amava la mamma e lei amava me e lui!- strillò -Sei tu che non le volevi bene.-

La donna lo guardò sconcertata.

-Non rivolgermi la parola demone. Tu figlio del diavolo, serpente peccatore, che si è portato a letto mia figlia insinuandosi tra le sue gambe!-

Shade non ci vide più e assestò alla donna un calciò negli stinchi. Nessuno doveva parlare così dei suoi genitori, non di loro che erano morti per salvarlo.

Poteva essere vero, forse era un mostro, il demonio, la causa della loro morte, ma Lucy e Jack erano angeli, angeli che ora erano in cielo e vegliavano su di lui, che lo amavano ancora, che lo avevano pregato di vivere, di non arrendersi mai.

-Strega!- urlò, prima di correre via verso la macchina; questa volta senza inciampare.

Entrò in quell'abitacolo di ferro e si rannicchiò in posizione fetale sul sedile e iniziò a piangere.

Quel piccolo angelo tremava, desiderava solo la morte, la bramava, la chiedeva, ma non poteva accettarla.

Quel “vivi” ancora rimbombava nella sua testa come un eco, lo faceva singhiozzare ancor più violentemente, mentre con le braccia cercava un calore che non c'era, che mai avrebbe riavuto.

Dov'era Dio in tutto ciò? Dov'era quell'essere che avrebbe dovuto amare i propri discepoli?

Perché il dolore era essenziale? Qual era la sua funzione?

Domande su domande a cui un bambino di soli otto anni non poteva rispondere. Domande di esistenza, domande di tormento a cui neppure i più grandi filosofi sapevano rispondere.

Pianse per minuti interi, pianse anche quando i due adulti tornarono in macchina e partirono, dicendogli qualcosa che lui non capì, che non sentì.

Male, male ovunque sentiva, mentre si sentiva mostro e non bambino.

Piccolo angelo dove stavi andando? Dove stavi cadendo?

A sorreggerlo, però, invisibile vi era una presenza che gli accarezzò i capelli, che spanse il suo odore dolce di biscotti allo zenzero ancora una volta, cullandolo fino a che il cuore non si quietò insieme ai pensieri, nel mondo di Morfeo.

   
 
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