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L’avventura su Celestis dei coloni della Chelokev
non era incominciata nel migliore dei modi.
Nessuno
avrebbe mai immaginato che la frequenza d’onda prodotta dalla magia che
scaturiva dal pianeta fosse diversa da quella prodotta sulla Terra.
Pertanto,
nel momento in cui la nave era entrata nell’orbita del pianeta, tutti gli
strumenti erano come impazziti, e la Chelokev si era
vista costretta ad un atterraggio di emergenza; dramma nel dramma, durante la
discesa quasi la metà dei nuclei di contenimento dove era alloggiata la maggior
parte dei coloni si erano distaccati proprio a causa dell’avaria dei sistemi,
disseminandosi lungo un’area sterminata che andava dalle pendici dei monti Volkof fino alle isole settentrionali.
Erano
occorsi molti anni per riuscire a raggruppare tutti i superstiti, e le perdite,
purtroppo, erano state nell’ordine di alcune migliaia di persone, uccise già
all’atto dell’atterraggio o dalle condizioni climatiche altamente proibitive
che caratterizzavano alcune aree nel nord di Erthea.
Solo
quando si era riusciti a riadattare le strumentazioni era stato possibile
iniziare una vera opera di raggruppamento, che grazie alla natura “mobile” dei
vari nuclei aveva permesso a molti di questi ultimi di riunirsi in tre grandi
agglomerati che nel tempo si erano tramutati in veri e propri insediamenti
permanenti: Soloveznik, sull’Isola di Nicola II, Lybova, nel sud, e la grande Volgorad,
sulle sponde del Fiordo di Pietro, una gigantesca spaccatura che proiettava il
mare del nord fin nel cuore del continente dividendosi in due lunghi rami: uno
seguiva la costa verso ovest dando vita ad una larga penisola e l’altro,
proseguendo a sud, arrivava fin quasi a lambire la cordigliera dei Volkof.
Altri
centri più o meno grandi erano disseminati qua e là per mezzo continente, e lo
stesso valeva per coloro che non ce l’avevano fatta; i nuclei periti assieme ai
loro occupanti erano stati trovati un po’ dappertutto: conficcati tra le rocce,
persi in steppe congelate, persino in fondo all’oceano.
Delle
migliaia di unità scomparse o precipitate, a dieci anni distanza solo cinque
non erano ancora state ritrovate; A-1498, B-301, E-985, N-163 ed Y-2801. Per
questo alla nazione era stato dato, temporaneamente si diceva, il nome di Eyban; per ricordare coloro che non ce l’avevano fatta, ma
che anche, salvo qualche evento fortuito, non avrebbero potuto godere almeno di
una degna sepoltura.
Dal
canto suo, il Capitano Anya Polikovka
non sapeva se essere fiera o avvilita per il destino che l’aveva condotta fin
lì.
Lei non
aveva scelto di partire, le era stato ordinato.
L’alto
comando di Mosca, al momento della partenza, aveva insistito per affiancare ai
membri dell’Agenzia anche una squadra di Spetsnaz,
capace in condizioni di necessità di rappresentare una valida difesa sia a
sostegno dei civili, quanto, soprattutto, delle autorità appositamente nominate
per guidare la nuova nazione, diventando l’ossatura di una nuova forza
militare.
Anya e i suoi
undici compagni erano stati addestrati fin dall’ingresso in accademia a
svolgere il ruolo che era stato scelto per loro, sopportando un addestramento
estremo e spesso brutale, ma che aveva fatto di loro degli uomini e dei soldati
di qualità superiore.
Il loro
apporto era stato vitale per salvare innumerevoli vite all’indomani di quello
sventurato atterraggio, ma, tra una missione e l’altra, in dieci
anni la squadra si era più che dimezzata, e non c’era speranza di veder
comparire nel breve periodo altre unità militari degne di questo nome.
Ogni
tanto la giovane donna ripensava alla sua casa, vicino a Pietroburgo, a quei
parenti che ormai erano morti e sepolti da un pezzo, e più in generale a quella
vita che aveva lasciato sulla Terra, ripetendo a sé stessa che accettare quel
nuovo mondo era l’unico modo per andare avanti.
Quel
pomeriggio Anya, assieme ad alcuni dei suoi uomini,
stava aiutando gli altri coloni nella costruzione di quella che sarebbe dovuta
diventare la prima scuola di Volgorad, quando venne
chiamata nell’ufficio del Presidente Rachenko, verso
cui si avviò dopo essersi data una rinfrescata per apparire almeno
presentabile.
Attorno
a lei, un poco per volta, Volgorad stava crescendo. I
nuclei abitativi stavano lasciando il posto ai primi edifici in muratura e
legno, soprattutto case, ed alcuni edifici, come il palazzo presidenziale sulla
collina che sovrastava il centro abitato e la sede provvisoria dell’Agenzia,
erano già in fase di completamento, e sarebbero stati inaugurati entro l’anno.
Tuttavia,
così come era evidente il tentativo della comunità di tornare quanto prima a
condurre uno stile di vita simile a quello che avevano conosciuto prima della
partenza, allo stesso modo era altresì vero che ciò si stava rivelando di
giorno in giorno sempre più difficile.
Del
resto nessuno avrebbe mai potuto prevedere che la magia prodotta da Celestis, e attorno a cui ruotavano tutto il sapere
scientifico e la tecnologia umane, fosse così diversa da quella della Terra.
La magia
era un po’ come un’onda radio: correva su diverse frequenze d’onda, ma già
all’atto di preparare la missione colonizzatrice tutti, a cominciare dagli
scienziati, avevano dato erroneamente per scontato che la frequenza di Celestis fosse la stessa della Terra.
A ciò si
doveva il fatto che tutte e tre le navi colonizzatrici, nel momento di entrare
nell’atmosfera, fossero andate in tilt, e per lo stesso motivo tutte le
apparecchiature che i coloni avevano portato dalla Terra per l’assorbimento e
lo sfruttamento dell’energia si erano rivelate, in un primo momento, del tutto
inutili.
Per
fortuna c’erano i generatori, uno per ogni nucleo, senza contare quelli mobili
o in dotazione alle navi coloniali, ma l’energia al loro interno era limitata,
e a distanza di dieci anni andava pericolosamente esaurendosi.
Se non
altro, con il tempo, gli scienziati erano riusciti a individuare la giusta
frequenza d’onda per lo sfruttamento del potere di Celestis,
ma sarebbero serviti di sicuro ancora parecchi mesi per ricalibrare tutta la
strumentazione e portarla a piena efficienza, con il risultato che gran parte
della tecnologia, a cominciare da quella che avrebbe dovuto funzionare in
maniera autonoma e distaccata dalla rete, risultava ancora quasi
inutilizzabile.
In
questa situazione così drammatica, però, una luce aveva rischiarato le speranze
dei coloni; una luce azzurra e scintillante, prodotta da un minerale
sconosciuto sulla Terra, ma che abbondava su Celestis,
e che ancor più dell’argento o del silicio aveva rivelato una sorprendente
capacità di assorbimento e risonanza con il potere magico del pianeta.
Lo
avevano chiamato krylium, e secondo i più era dagli
studi sul suo utilizzo che sarebbero venute le risposte in grado di assicurare
ai coloni un nuovo futuro di progresso e prosperità, ma a quasi cinque anni
dalla scoperta dei primi giacimenti non si era ancora riusciti a trovare il
modo di sfruttare veramente le sue enormi capacità.
Raggiunto
il palazzotto, e come fu certa di avere un aspetto decoroso, Anya si fece introdurre alla presenza del Presidente,
trovandolo seduto al tavolo del salotto assieme al Direttore Galinin e al capo delle forze armate Generale Felikov. Erano tutti e tre scuri in volto, e come il
Capitano fu entrato nello studio, mettendosi sull’attenti, mandarono subito
fuori l’attendente che l’aveva accompagnata.
«Riposo,
Capitano.» le disse Felikov. «Abbiamo un nuovo
incarico per lei e la sua squadra.»
Anya era
stata addestrata a non far trasparire emozioni, ma il suo diretto superiore
riuscì a scorgere chiaramente un moto di disappunto nel suo inarcare gli occhi
e stringere un po’ più forte i pugni dietro la schiena.
«Sono
pronta ad eseguire i suoi ordini, Signore.»
I tre si
consultarono un momento con lo sguardo, quindi il Presidente prese la parola.
«Sei ore
fa abbiamo perso i contatti con uno dei nostri elicotteri, l’Hind03.»
«Un
incidente?»
«Non lo
sappiamo» rispose Felikov, che presa una mappa dalla
libreria la srotolò sul tavolo. «Abbiamo individuato il segnale emesso dalla radioboa di emergenza. Si trova qui, del centro della
cordigliera dei Volkof. Riteniamo possa trattarsi di
un lago ghiacciato, probabilmente di origine vulcanica.»
«L’Hind era diretto a Kyrador»
spiegò il presidente. «E ha dovuto virare in questa direzione per evitare il
punto più intenso di una violenta perturbazione che già alcuni giorni
imperversa nell’area» quindi il Generale porse ad Anya
una foto che teneva nel taschino. «A bordo dell’elicottero c’era questa.»
La donna
la prese e la guardò: raffigurava una specie di piccolo cilindro di vetro,
probabilmente lungo una decina di centimetri, con manicotti metallici alle due
estremità e una strana sostanza azzurro brillante racchiusa al suo interno.
«Che
cos’è, se posso chiedere?»
«È una batteria»
rispose il Direttore Galinin. «La prima batteria al krylium.»
Ancora
una volta, Anya faticò a nascondere la propria
emozione.
«Lei
capisce quali siano le potenzialità di questo oggetto» proseguì Rachenko. «Grazie a questa batteria potremmo riuscire a
dare energia ad un numero incalcolabile di apparecchiature e strumenti che fino
ad oggi hanno funzionato a regime ridotto: veicoli, strumentazioni mobili,
apparecchiature. Potremmo persino sostituirle ai generatori.»
Anya non era
nella posizione di poter fare troppe domande o manifestare le proprie
perplessità, ma dal suo sguardo Felikov dedusse quali
dovessero essere i suoi pensieri.
«Se si
sta domandando per quale motivo un oggetto tanto importante sia finito nel bel
mezzo delle montagne di Volkof, le rispondo subito.
La batteria è incompleta. Siamo riusciti a realizzare un dispositivo capace di
immagazzinare il potere magico di questo pianeta per mezzo del krylium, ma non siamo stati in grado di rendere sfruttabile
l’energia così immagazzinata. A Kyrador però hanno
risolto il problema; la batteria doveva essere portata laggiù per venire
completata e testata.»
«Non si
può costruirne un’altra?»
«No»
rispose seccamente Galinin. «Per due ragioni. La
prima è che l’equipe di scienziati che l’ha sviluppata era per buona parte a
bordo dell’elicottero assieme al prototipo. La seconda, per costruirne un’altra
ci vorrebbe tempo. Tempo che non abbiamo.»
«Per
svolgere questa missione abbiamo sacrificato uno dei nostri ultimi elicotteri»
disse Rachenko. «Non possiamo, ribadisco, non
possiamo permetterci di perdere quel prototipo.»
«Il
Presidente ha ragione» intervenne di nuovo Felikov.
«La stagione fredda è alle porte, e i generatori che abbiamo portato dalla
Terra sono ormai quasi tutti esauriti. Senza quella batteria la nostra gente
finirà congelata nell’inverno artico che sta per arrivare. Questo senza contare
che l’impossibilità di poter fare affidamento su di una fonte di energia sicura
e trasportabile ci sta costando la nostra opera di colonizzazione di questo mondo.»
«Con il
dovuto rispetto Signore, non dovrebbe essere complicato inviare un altro
elicottero sul posto e recuperare il carico.»
«Impossibile,
Capitano. Non conosciamo la posizione esatta dello schianto. Potrebbe essere
ovunque in un raggio di tre miglia dalla posizione della radioboa.
Avevamo dieci elicotteri al nostro arrivo, ora ce ne resta solo uno, con
energia appena sufficiente per compiere un viaggio completo da Volgorad a Kyrador. Non possiamo
mandarlo a cercare a casaccio su e giù per tutta la cordigliera dei Volkof.»
«E
allora, Signore, come faremo a raggiungere il posto?»
«Ci
stavo giusto arrivando. Siamo riusciti a far funzionare un piccolo aereo da
ricognizione spento da tempo, dandogli carica sufficiente per arrivare fin
laggiù.
Piloterete
fino al luogo dello schianto, quindi vi paracaduterete in loco e proseguirete
le ricerche a piedi. Una volta che avrete trovato il carico ed eventuali
superstiti dovrete solo trasmetterci le coordinate, e noi invieremo l’ultimo hind a recuperarvi.»
«E se il
carico è andato perduto?»
«La
batteria è contenuta all’interno di uno speciale involucro protettivo, a sua
volta dotato di radiolocalizzatore» spiegò Galinin.
«Dal momento dello schianto non ha mai smesso di trasmettere, e la sua attuale
posizione non dista molto da quella della radioboa.
Probabilmente si trova ancora in mezzo ai rottami.»
A prima
vista non sembrava una missione troppo impegnativa: nulla di più difficile di
quello che lei e i suoi uomini avevano già passato negli ultimi dieci anni.
«Ha i
suoi ordini, Capitano. Li esegua. La missione parte fra un’ora.»
«Sissignore!».
Dimitri era l’unico membro
della squadra che avesse conosciuto Anya già da prima
di entrare a far parte del corso intensivo per l’ingresso nelle Forze Speciali.
Probabilmente
era per questo che il Capitano lo aveva scelto come suo secondo; si fidava del
suo giudizio e del suo senso di responsabilità, ma anche della mira eccezionale
e delle doti di combattente.
Avevano
cominciato assieme nella stessa scuola militare, e assieme avevano superato con
le unghie e con i denti quell’addestramento disumano; sempre insieme erano
sopravvissuti a prove di ogni genere, assistendo, spesso senza poter far
niente, alla morte dei loro compagni.
Per
tutti questi motivi, era l’unico membro della squadra che sentiva di poter dire
di conoscere veramente il suo comandante, e nel momento in cui gli avevano
riferito della convocazione presso il palazzo presidenzale
sapeva benissimo dove l’avrebbe potuta rincontrare.
E
infatti la trovò lì, su quella roccia a proboscide protesa sull’acqua, a
qualche centinaio di metri dal centro abitato, gli occhi persi verso le
montagne che si intravedevano all’orizzonte, dall’altro capo del fiordo, e che
nei giorni luminosi sembravano così vicine da poterle toccare.
«Una
nuova missione?» le domandò sedendosi accanto a lei.
«Sulla
cordigliera Volkof. Non chiedermi altro.»
«Come
desideri.»
Dimitri
non metteva in dubbio le qualità di comando di Anya,
ma aveva come la sensazione che il suo grado attuale le fosse stato assegnato
solo in ragione del suo essere stata, fin dai suoi primi giorni sulla Terra,
una delle poche reclute dotata di poteri magici, e di certo una delle più
promettenti che le forze speciali avessero mai avuto.
«Nicholai. Iuliana. Marko. Abbiamo perso molti dei nostri compagni in questi
dieci anni. Quanti altri ne dovranno morire prima che questa sottospecie di
colonizzazione possa davvero portare a qualcosa?»
«Ha già
portato a qualcosa, Anya. Noi siamo qui. Siamo vivi.
Ci siamo imbarcati in un viaggio che nessuno nella storia aveva mai neanche
immaginato, abbiamo raggiunto un nuovo pianeta, siamo riusciti a sopravvivere
alle prove che ci ha imposto.»
«Sì, ma
a quale prezzo?»
Non era
un caso, in fin dei conti, se la loro nazione si chiamava Eyban.
Da una parte quel nome voleva essere un omaggio a coloro che non ce l’avevano
fatta, o almeno ad alcuni di essi, ma dall’altra, per come la vedeva lei,
serviva anche e soprattutto a ricordare come quel sogno di una nuova vita tra
le stelle che aveva accomunato la grande maggioranza di coloro che si erano
imbarcati per Celestis non fosse solo rose e fiori,
come i più probabilmente si erano illusi.
Anche a Caldesia e Amaltea le cose non
stavano andando troppo bene, malgrado potessero vantare un clima e, più in
generale, condizioni di vita assai meno proibitive rispetto alla fredda Volgorad, a dimostrazione che, nonostante tutti i calcoli,
i corsi di formazione e le esercitazioni condotte sulla Terra Celestis si stava rivelando un mondo duro, e forse persino
ostile.
Anya ripensò
per un attimo a quello che aveva appena sentito, e ai rischi legati a un
fallimento della missione che stavano per andare a compiere.
Dimitri
non era il solo; molti altri, nonostante tutto, continuavano a credere nelle
speranze e nei sogni con cui avevano messo piede su quel pianeta, e forse anche
lei un po’ riusciva ancora a crederci.
Per questo motivo, non potevano permettersi di fallire.
Grazie
al cielo, una volta tanto, non sembrava destinata a essere una missione troppo
complicata.