Questo
secondo cap giunge in ritardo, ma davvero non mi veniva in mente il
modo giusto
per metterci quello che volevo senza anticipare troppo. Credo di
esserci
riuscita.
So
che nel primo la situazione era davvero piena di incognite, ma credo
che quasi
tutte troveranno risposta molto avanti perché quello che
presento ora è un
altro aspetto della situazione.
P.S:
siccome per descrivere la protagonista non mi veniva in mente niente,
ho preso
come modello Amanda Seyfried, che come caratteristiche dovremmo starci.
2_New
life, Old life
Era
passata appena una settimana.
Non
aveva più una casa.
Né
amici.
Aveva
vagato per tutto il tempo per la città, fermandosi a volte
in biblioteca, a
volte al cinema.
Si
era resa conto che il sonno non era una necessità, non lo
sentiva. Come non
sentiva la fame. Per ora, si diceva spesso. Perché prima o
poi avrebbe
necessitato anche lei di nutrirsi e lo sapeva cosa avrebbe cercato per
soddisfare il suo bisogno.
Anche
in quel momento, passeggiando solitaria per osservare le vetrine dei
negozi,
scintillanti di luci e oggetti costosi.
Decise
di entrare in una boutique, la sua preferita, quella che durante la sua
vita
frequentava spesso con le sue amiche.
Ripensando
ai giorni che aveva vissuto e a quanto le sue amiche le mancassero
sentì le
lacrime affacciarsi agli angoli degli occhi. E le lacrime scesero
copiose lungo
le guance.
Era
ferma davanti ad uno specchio appeso alla parete all’interno
del negozio. E guardava
l’immagine che rifletteva: una ragzza che sarebbe dovuta
essere lei. Ma non
riusciva a riconoscerla. I lunghi capelli un tempo castano chiaro erano
biondi
e le scendevano in morbide onde oltre le spalle. La pelle
così pallida e lattea
la rendeva simile a una bambola. E pensare che durante le vacanze
passava ore a
farsi la lampada con la sua migliore amica! Eppure ciò che
la sconvolse di più
fu guardarsi negli occhi, quegli occhi che non le appartenevano
più. Come fumo,
erano grigi, scuri, così diversi dai suoi verdi.
Non
poteva sopportare ulteriormente di vedersi così. Era come se
tutta lei fosse sbiadita.
Corse
fuori dal negozio e lungo tutto il viale fino a girare dietro un
locale. Lì, di
fronte a un muro si gettò seduta a terra e si strinse le
ginocchia al petto. Solo
allora, dando sfogo a tutta la tristezza e la rabbia che aveva represso
da
quando era fuggita dall’ospedale, capì.
Inutile
lottare.
Inutile
cercare un senso a tutto.
Doveva
solo accettarlo e andare avanti. Che altra scelta aveva in fondo?
Lei
era morta. Lei non era più lei. Era un… Si
sfiorò con i polpastrelli i fori al
lato del collo e smise di piangere.
-Tanto
non serve a niente. Devo trovare un posto dove andarmene. Ma
perché poi? Io non
esisto.-
Alzò
il capo e si appoggiò al muro con lo sguardo rivolto al
cielo. E come il sole
si stava preparando a tramontare così un’idea si
apprestava a sorgere nella sua
mente.
Si
rimise in piedi, spolverandosi i jeans e
s’incamminò con una nuova luce negli
occhi verso il parco della città.
Mancava
solo un centinaio di metri fino ai cancelli d’ingresso,
quando una coppia di
anziani signori la bloccarono per un polso.
Presa
di sorpresa si voltò di scatto, ma vedendo chi fosse si
tranquillizzò.
-Cara-
le disse il signore –sono giorni che non ci vieni a trovare,
ti sei forse
stancata di due poveri vecchi bacucchi come noi?-
-Come
prego? Scusate ma credo che mi abbiate scambiato per
un’altra.- cercò di
andarsene per la sua strada, ma i due noon ne volevano sapere di
lasciarla
andare.
-Ieri
dovevi venire alla casa di cura per farci visita ma non sei venuta, ti
è
successo qualcosa?-
Vedendo
la coppia tanto dolce decise di fermarsi a spiegare loro il malinteso.
-Mi
dispiace, vedete però io non sono vostra figlia o nipote. Io
in questa città…-
Cosa?,
si disse. Cosa stava per dire? Che non aveva nessuno? E i suoi
genitori? I suoi
amici? I suoi parenti? Era davvero sola?
-Io
sono qui solo di passaggio. Il mio nome è…-
esitò.
I
due anziani la guardarono pieni di comprensione vedendola
così in difficoltà. Forse
avevano capito l’errore, ma quella che avevano davanti
somigliava davvero alla
loro nipote.
-Cara,
scusaci. Tu somigli molto a nostra nipote Margaret. Abitiamo qui da
tanti anni,
ormai conosciamo tutti, ma purtroppo la nostra vista e memoria dei
volti
comincia a fare i capricci. Sei sicura però di non essere
Margaret?-
-Mi
dispiace davvero ma non sono vostra nipote. Mi chiamo…-
pensò un attimo –Livia.-
Non
seppe dire perché disse un altro nome e non il suo. Forse si
rese conto che non
c’era motivo di dire Emilie. E perché poi? Era
morta. O almeno così tutti credevano. E se qualcuno
l’avrebbe vista, dubitava che avrebbe capito che fosse
lei.
Era
giunto il momento di iniziare una nuova vita. Quella in cui lei era
rinata. E non
era più Emilie.
Era
Livia. Solo Livia.
Lentamente
l’idea di morire davvero affogata nel laghetto del parco
svanì. Come nebbia.
Salutò
calorosamente la coppia che se ne andò mano nella mano e
senza saperlo le
avevano dato più di quanto credevano. Una ragione per
restare viva. O per non morire.
Si
accoccolò su una panchina e chiuse gli occhi, con la
speranza che magari il
sonno, quel giorno, sarebbe arrivato.
Fu
un richiamo a destarla.
Non
aveva dormito. Non essattamente almeno. Ma i suoi sensi erano come
scesi in uno
stato di ibernazione. E una luce strana, pura, li aveva infiammati.
Tutto
attorno a lei era buio, silenzioso. Doveva essere notte fonda.
L’unica
fonte d’illuminazione splendeva sopra la sua testa: la luna.
La
osservò a lungo e dentro di lei sentì farsi largo
un istinto primitivo con una
forza incontrollabile. Non sapeva riconoscerlo, stava prendendo il
sopravvento
sul suo coprpo e sulla sua mente.
Infine
un solo imperativo che risuonò nelle sue orecchie come una
condanna e allo
stesso tempo come un’assoluzione: uccidi.
E
così fece, durante tutta la notte.
Si
alimentò e acquisì forze che non credeva di
volere ottenere.
Si
liberò della sua vecchia volontà di controllarsi
e cercare di sottomere ciò che
era.
Fece
spazio in sé alla sua brama di sangue, alla sua spietatezza
nell’ottenerlo.
Si
abbandonò completamente ai sensi, al fiuto della preda, al
sentore delle vene
pulsanti che sentiva sotto le mani nel momento in cui posava le dita
bianche
sul collo della vittima per prepararsi a mordere.
E
godette nell’affondare i canini nella pelle e nella carotide,
nell’assorbire la
sua fonte di sostentamento.
Quella
notte, con la luna piena, un nuovo vampiro era sorto.
Quella
notte la vita passata fu affogata nel sangue di una nuova esistenza.
Infine,
all’alba del giorno che seguì, Livia
si pulì le labbra rosse delle ultime gocce e sorrise.
Qualunque
cosa fosse diventata, l’accoglieva a braccia aperte.
Senza
rimorso.
In
fondo, perché averne? Il vampiro che era aveva sostituito un
fantasma. Uno spettro.
Che giaceva in una tomba.
Ora
voleva solo trovare chi l’aveva trasformata. E forse,
fargliela pagare.