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Autore: Lottie Pepper Sanders    22/11/2014    2 recensioni
Conoscere i Sevenfold è stata la cosa migliore che potesse accadermi.
Sono stati per me una sorta di anestetico, devo ammetterlo.
La loro musica, la voce di Matt, i loro concerti...mi hanno aiutata ad estraniarmi dal mondo, quando nessuno poteva far niente per me o per lenire il mio dolore, la mia sofferenza, e tutti quei tuffi improvvisi nella realtà che molte volte ho creduto mi avrebbero portata ad affogare.
Mentre scrivevo questo testo, che non so bene come definire ancora....erano lì, come sempre a farmi compagnia.
Queste righe però non parlano di loro, ma di me.
E anche se si tratta di quello che oserei definire il mio punto debole, ho deciso di condividerlo con voi: in una sorta di prova del 9 per capire se tutto questo possa portarmi alla fine un qualche riscontro positivo, una rivincita,
quasi un urlo al mondo che parla della mia interiorità, perchè credo che non ci sia niente di cui vergognarsi nell'ammettere di essere stati deboli, di essere caduti almeno una volta nella vita.
Buona lettura,
a chiunque voglia fermarsi in questo frammento di vita.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Sapevo che qualsiasi scelta avesse fatto, mi avrebbe ferita, in ogni caso. Se ne sarebbe andato anche questa volta, lo sapevo.

Fingevo di non saperlo.

Mi sembrava di avere costantemente una clessidra avanti agli occhi quando il tempo iniziava a scorrere in sua compagnia, e dopo l’ultimo granello di sabbia, dopo l’ultima lacrima caduta sul suo cappotto, mi avrebbe voltato le spalle per iniziare a camminare.

Per allontanarsi da me, ancora.

 Ogni sorriso aveva un prezzo.

Adesso come a 1 anno, a 2, a 7, a 13…Eppure sembrava una novità, ogni santa volta, venivo colta di sorpresa da una certezza.

 E questo accadeva solo con lui.

 Mio padre era fatto a modo suo, e per una strana ironia della sorte, dovevo capire ancora come.

 Io. Sua figlia.

 Sangue delle sue vene, il frutto del suo respiro:

non sapevo assolutamente niente di lui se non la sua data di nascita, o almeno credo, andavo con i piedi di piombo anche per l’età.

La cosa inconfondibile era invece il suo odore.

 

 Mi aveva promesso a tanti compleanni che sarebbe arrivato con un pacco grande grande e che mi avrebbe stretta forte forte.

E io aspettavo.

Ogni anno.

Allo stesso modo.

Sapevo che qualsiasi scelta avesse fatto, mi avrebbe ferita, in ogni caso: perché se davvero si sarebbe presentato

avrei di sicuro mandato indietro quel famoso pacco ma non il suo corpo caldo, quelle braccia che sembravano il posto più sicuro sulla faccia della terra, anche se si trattava magari della persona più sbagliata del mondo, ma se al contrario non avrebbe varcato la soglia di quella porta

 sarebbe stato senza dubbio il peggior compleanno della mia vita, uno  dopo tanti altri, perché avevo una lista sbilenca dei compleanni passati “alla meno peggio”, e come ogni volta mi sedevo al bivio del se, o meglio, era la mia anima a farlo.

Seduta su quel marciapiede, inserviente della notte, completamente dipendente dal tramonto perché le faceva paura il buio. Allora si fermava lì, buona buona, ad aspettare, sperando che i fari di una bella auto l’accecassero, che quell’uomo l’avrebbe raccolta, per portarla via, lontano da tutti al sicuro nel suo castello.

La psicologa mi ribadiva spesso che avevo posto mio padre su un cavallo bianco e che mia madre era la strega della favola.

Avevo una madre? Nah.

 E riguardo mio padre la cosa era vera, ma solo in parte. Fatto sta, che quello non era un compleanno qualsiasi, ma il mio 18esimo compleanno. E questa volta non aspettavo con ansia lui con pacco, ma aspettavo solo lui.

Anche se del pacco non è che mi sia mai interessata più di tanto, era divenuto ormai  una specie di diversivo nel momento in cui dovevo salutarlo, un pezzo che restava: ed ecco gli accumoli di bambole e peluche forse finalizzati più a ripulire la coscienza di un uomo dal senso di colpa che a far compagnia a una bambina, prendendo il posto di una famiglia bruciata, in polvere.

Ma questa volta doveva essere diverso, non avevo più bisogno di questo: lo aspettavo per fare un ballo insieme, perché me lo aveva promesso e perché non era possibile che a 18 anni quasi compiuti, ci fossi caduta ancora, come una stupida, nello stesso tranello.

Invece era riuscito a sorprendermi anche questa volta.

Mi sentivo in un videogioco.

 Il problema è che la scritta GAME OVER si faceva prepotentemente largo sullo schermo sempre nello stesso punto e allo stesso livello.

 

Ero perdutamente innamorata di lui, come può esserlo ogni figlia del proprio padre.

 Vivevo per lui.

Nonostante continuasse a farmi male.

Pendevo dalle sue labbra nonostante ogni sua promessa fosse una bugia. E lo sapevo.

 E continuavo a sorprendermi.

 

Continuavo a permettergli di farmi la stessa sorpresa a ogni compleanno.

La mia anima era ancora lì seduta sul marciapiede, come una prostituta.

Avrebbe voluto concedersi a qualsiasi tipo di tortura per non pensare.

E adesso le andava bene qualsiasi auto, voleva solo scappare, stanca ormai di aspettare il suo principe azzurro.

 

Non volevo accettarlo ma stavo soffrendo ancora.

E la cosa peggiore era la consapevolezza.

 

 

 

 

  
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