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Autore: GiuUndergroundNOH8    23/11/2014    0 recensioni
Quando Driss Lacks riceve il naso mozzato del suo mentore Stratos Aspis, capisce che è ora di agire. Non può più accettare i soprusi a cui tutta Pogar è costretta a subire per mano della Dama Oscura entità tanto reale quanto imprendibile. Questa tiene il paese sotto il suo pugno di ferro ed invia pezzi di cadaveri alle persone più care della vittima, per ribadire che è lei che comanda.
Driss Lacks intraprende un cammino insieme agli amici del Comitato per scovare informazioni sulla Dama Oscura e cercare un modo per annientarla.
Ma nel cammino, Daniel, il migliore amico di Driss, scoprirà la verità su suo padre, allontanato dieci anni prima perché accusato di omicidio. Ma a raccontargli come sono andate le cose è un personaggio ambiguo e poco affidabile..
Chi è veramente quest'uomo? I ragazzi potranno fidarsi di lui? Riusciranno i giovani a sconfiggere la Dama Oscura?
Scopritelo in questo intrigante fantasy, dove i miti, le leggende e le superstizioni sono reali.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2
 
 
Appena Daniel fu liberato, si precipitò fuori dalla piazza per ritrovare la madre.
Cercò in tutti i chioschi, le botteghe, le vie principali ma niente. Di Catherine non vi era traccia. Corse fino a casa che si trovava ai margini del paese e tirò un sospiro di sollievo quando la vide dentro sana e salva. Era in cucina, intenta a preparare qualcosa.
«Mamma..»
Catherine si voltò con un sorriso smagliante e Daniel vi rimase di stucco.
L’aveva lasciata in lacrime e ora il suo volto era disteso e rilassato, come se non fosse successo nulla poco prima.
«Oh Daniel caro» gli disse abbracciandolo, «avrai fame immagino. Va’ a lavare le mani, dà da mangiare ai polli e poi mettiti a sedere. Ti preparo la colazione. Scommetto che appena alzato tu non abbia pensato a mettere qualcosa sotto i denti.»
Daniel la scrutò per un po’ prima di aggiungere «Mamma, cosa hai detto a Pinguish per non fargli segnare il mio nome sulla lista?»
Catherine non si girò a guardare il figlio e continuò nei suoi preparativi per il pranzo.
«Niente, tesoro.» rispose in un sorriso smagliante. «Le persone non sono così cattive come sembrano.»
«Oh no» si intromise Daniel. «Sono molto peggio.»
Catherine sbuffò ma non replicò.
Daniel assolse i compiti che la madre gli aveva assegnato, infine si sedette a tavola. La signora Rochefort aveva preparato del latte con pane e biscotti.
Era pieno Inverno e la terra non produceva granché.
Daniel storse il naso: il pane era vecchio di 4 giorni e il latte era andato a male.
Catherine colse il suo disappunto. «Per pranzo potrei cucinare un pollo. Che ne dici?» Daniel alzò lo sguardo e lo posò sulla madre. «No. Altrimenti non ne avremmo più per le occasioni speciali.»
«Ogni giorno è un’occasione speciale, Dan.»
Il ragazzo ghignò. «Ogni giorno è un inferno. Ogni sera prima di addormentarmi prego che nessuno a me caro venga preso e portato via per sempre. Questa vita fa schifo.
La mattina puoi divertirti con i tuoi amici e la sera compiangerli per la loro misteriosa scomparsa!» disse tutto d’un fiato.
Poi aggiunse sottovoce: «A volte ti odio con tutto me stesso, se penso che sei stata tu a mettermi a questo mondo.» Detto ciò si alzò, senza neanche aver terminato la colazione.
Catherine non riuscì ad arginare le lacrime. «Per questo ogni giorno è un’occasione speciale: perché può essere l’ultimo. E se io sapessi che oggi è il mio ultimo giorno, cercherei di scusarmi con le persone a cui ho fatto un torto; risolverei dei conti lasciati in sospeso; abbraccerei e bacerei i miei cari fino a farmi togliere il respiro.» Catherine si passò una mano sul volto per asciugarsi le lacrime che sembravano non voler terminare. Quella frase, a volte ti odio con tutto me stesso, se penso che sei stata tu a mettermi a questo mondo, le rimbombava in testa e pesava sul suo cuore come un’ incudine.
Daniel si fermò accanto alla porta della cucina che dava su un piccolo soggiorno. Sentì il suo cuore chiudersi in una morsa. Nonostante la sofferenza che aveva patito per la scomparsa del marito, Catherine ogni mattina si alzava convinta dell’idea che quel giorno sarebbe stato un giorno migliore. Passava anche lei dei momenti in cui desiderava di poter dormire all’infinito e di poter vivere costantemente nelle favole da lei create, momenti in cui ogni cosa sembrava volgere dal verso sbagliato. Nonostante ciò non si era mai persa  d’animo e con grande tenacia aveva sempre cercato di rialzarsi e di affrontare la giornata.
Daniel a volte l’ammirava. Altre la considerava una povera illusa. Il ragazzo sosteneva che la madre credesse ancora nelle favole, dove in una situazione di ostilità sarebbe arrivato l’eroe a portare pace e serenità a tutti quanti. Daniel non era così. Al contrario la sua frase più ricorrente era di male in peggio.
«Tu vedi il bene dappertutto, anche quando non c’è.»
Abbandonò la stanza senza degnare nemmeno di uno sguardo la madre.
Uscì di casa e si diresse nell’orto. Si sedette sotto l’albero di fico ormai spoglio e tirò fuori dalla tasca l’occhio di Stratos che quella mattina aveva ricevuto in regalo dalla Morte. Con le mani scavò una piccola buca accanto al tronco del fico e vi depositò l’occhio dall’iride cerulea.
Ricoprì il tutto con della terra e sottovoce, ad occhi chiusi, con il pugno che batteva a ritmo sul petto, intonò un canto funebre:
Ora che dalla vita te ne sei andato
E che i tuoi cari soli hai lasciato
Veglia sui vivi con amore
Affinché possano sentire il calore
Che in vita hai donato
E che la sorte ti ha rubato.
 
Non si accorse che delle lacrime presero a rigargli silenziose il volto, lacrime che si trasformarono in una cascata pochi secondi dopo.
La tristezza, il rancore e la disillusione accumulata nel tempo che con grande forza di volontà aveva domato, ora erano sfociate in quel lungo pianto e se qualcuno avesse chiesto a Daniel perché stava piangendo, molto probabilmente la risposta sarebbe stata «La mia vita è uno schifo.»
 
**
 
Quella mattina Driss non uscì dalla sua camera. Il dolore per la perdita di Stratos gli aveva offuscato la mente, lo aveva reso scontroso e non se la sentiva proprio di stare in mezzo alla gente.
Sergia e Ludovico, i genitori del ragazzo, avevano subito intuito che qualcosa quella mattina fosse successa perché l’ultima volta che Driss era rimasto rinchiuso in casa risaliva a un anno e mezzo prima, quando si era buscato 39 di febbre e per poco non ci rimaneva secco.
A nulla valsero gli sforzi di Sergia e Ludovico per stanare il ragazzo dalla sua camera. Sia con benevole promesse che con dure minacce, Driss non sembrava inviare segnali di vita. Inutile bussare freneticamente la porta, spendere parole dolci o seri rimproveri. Era come parlare al vento.
Il diciannovenne dopo aver finito tutte le lacrime era come pietrificato, immobile, come una statua di cera. Si sentiva uno straccio.
Aveva riposto tutte le sue speranze in Stratos, tutti i suoi sogni e progetti.
Una mattina di circa due anni prima, quando Driss aveva appena iniziato a seguire l’uomo, Aspis aveva tenuto come di consueto una lezione al Comitato.
Quel giorno, l’ultimo esponente dei Fondatori aveva raccontato loro un mito. Narrava che la vola celeste era retta da un titano. Se quest’ultimo fosse venuto meno al suo compito la Terra e tutti i suoi inquilini sarebbero morti schiacciati.
Driss aveva sempre considerato Stratos come quel titano e il fatto che ormai non vi fosse più lo faceva sentire più vicino ai morti che ai vivi.
Quando il suo stomaco cominciò a brontolare, decise che era giunto il momento di abbandonare la sua stanza delle dimensioni di un ripostiglio, dove un letto troppo corto per Driss ed un armadio riempivano la camera senza lasciare posto per altro. Se il ragazzo avesse dormito su un letto più lungo e giusto per la sua statura (in questo metà polpaccio fuoriusciva da sotto le coperte) sarebbe stato impossibile aprire l’anta dell’armadio. Così il diciannovenne si ritrovava a dover dormire tutte le sere rannicchiato in posizione fetale affinché il letto potesse contenere tutto il corpo.
Ogni mattina Driss si svegliava rattrappito e con gli arti che gli dolevano. Ci aveva fatto l’abitudine ormai e non si lamentava più come un tempo. Si ripeteva che doveva considerarsi fortunato ad avere un letto e delle coperte calde. Alcuni suoi amici erano talmente poveri da dormire dentro le stalle sulle balle di fieno.
Driss si alzò e lasciò cadere il naso gocciolante sangue a terra senza rivolgergli un ulteriore sguardo. Si diresse verso la porta che come di consueto era chiusa a chiave. La aprì e si ritrovò sul corridoio del secondo piano, accanto all’inferriata arrugginita delle scale che portavano al piano di sotto.
La carta da parati dell’abitazione era vecchia e logora come ogni cosa in quella casa e in quella città. Nei gradini erano visibili profonde crepe, gli infissi delle finestre stavano per cedere, così come le tegole del tetto.
Tuttavia finché ancora i muri reggevano non c’era da preoccuparsi. Quando a stento riesci a sfamarti le mattonelle traballanti di casa tua sono l’ultimo dei tuoi affanni, era solito dirsi il giovane.
Driss scese i gradini, facendo attenzione a non cadere, essendo piccoli, alti ed instabili. Girò a sinistra verso la cucina credendo di trovare i suoi genitori e la sorella e si stupì di trovare la stanza vuota.
Per un’ora Sergia e Ludovico avevano tentato di stanarlo dalla sua camera come un ragno dal buco ed ora erano spariti.
Sollevato da una parte perché così non avrebbe dovuto risentire un altro predicozzo dai suoi per aver chiuso a chiave un’altra volta la stanza e per non rispondere alle valanghe di domande che sua madre gli avrebbe posto sul come e perché non fosse uscito da camera sua, aprì l’anta dell’armadietto sopra il lavandino per vedere cosa ci fosse da mangiare.
La credenza era quasi vuota. C’erano solo due patate e una verza.
Con disappunto Driss chiuse l’anta. Il giorno prima Sergia aveva preparato un dolce alle mele che aveva un aspetto delizioso. Non trovandolo, il ragazzo pensò che i genitori e la sorella lo avessero mangiato tutto, non lasciandogliene nemmeno una piccola fetta.
Dopo il dissestante dolore, a Tom stava salendo una rabbiosa collera.
Quando si inizia male alla mattina, il resto del giorno non può che peggiorare, pensò.  Uno dei suoi amici più cari Daniel Rochefort, un pessimista cronico, glielo ripeteva sempre. Driss aveva cercato a volte di tirargli su il morale e di mostrargli che la vita non era poi così nera, ma a lungo andare si era lasciato influenzare dal negativismo dell’amico e aveva abbandonato gradualmente il suo ottimismo.
Lo stomaco del diciannovenne prese a brontolare con più insistenza.
Driss aprì tutte le credenza ma non trovò nulla che lo potesse soddisfare.
Alla fine, vinto dalla fame prese una carota che aveva trovato sul fondo di un cassetto e cominciò a rosicchiarla. Non aveva un gran bell’aspetto e niente faceva pensare che avesse un buon sapore. Poteva trovarsi in quell’angolo nascosto del cassetto da settimane, ma  a Driss poco importava. Se la corteccia degli alberi fosse stata commestibile, non si sarebbe fatto problemi a servirsela su un piatto.
Dopo essersi rifocillato, Driss uscì di casa e fermatosi nel cortile ad osservare le colline giallastre ed il cielo plumbeo, si accese una sigaretta.
In quell’istante tra una boccata di fumo e l’altra, riuscì a non pensare a Stratos e alla sua scomparsa.
Era come se la sua mente fosse stata messa in pausa, i suoi pensieri rimossi e riflessioni bloccate. Per un attimo Driss non avvertì più il peso del mondo, ma era un attimo destinato a sfumare nell’arco di secondi.
Finito quel momento idilliaco, Driss ripiombava nella realtà, scaraventato con violenza come su una catapulta. Sentiva il corpo farsi più pesante, lo stomaco contorcersi e salirgli l’amaro in bocca. La sensazione di delusione e rammarico è la stessa che coglie qualsiasi persona quando si sveglia da un sogno che l’ha coinvolta emotivamente così tanto da pensare e desiderare che fosse vero.
Driss non fumava mai una sigaretta sola. Diceva che fosse inutile e che quel poco di serenità che ti conferiva rendesse le persone ancora più scontrose e depresse.
«Meglio niente che poco», andava ripetendo. «E’ come quando non mangi da giorni: in quel momento riesci a contenere la fame, ma appena assaggi del cibo o solamente ne esali il profumo, vieni travolto dal desiderio incontenibile di sfamarti. Così se fumi solo una sigaretta rimarrai per tutta la giornata in preda ad un convulso istinto di fumarne un’altra.»
A volte il suo desiderio di trovare tranquillità, ordine e spensieratezza nella vita lo portava a fumare una sigaretta dietro l’altra senza che lui potesse opporre resistenza.
La vocina che dentro di lui lo richiamava al dovere, che cercava di farlo ragionare dicendogli che si rovinava la vita  e che così facendo sprecava soldi che sarebbero potuti servire per il cibo o per degli abiti caldi, veniva eclissata e oppressa dalla voglia di nicotina che prometteva una facile e superflua felicità. Ma la breve felicità della sigaretta nascondeva un compromesso: la dipendenza. Driss aveva cominciato come tutti gli altri, ovvero ripetendosi la frase smetto quando voglio come un mantra, convincendosi che all’occasione avrebbe avuto la giusta dose di volontà per controllarsi e porre fine a quella situazione.
La morte improvvisa del nonno, la miseria, il degrado gli avevano impedito di fare avverare il suo ottimistico quanto ingenuo proposito. Era un periodo in cui vedeva tutto nero, in cui credeva che il mondo ce lo avesse con lui e che la fortuna lo odiasse.
Poi una mattina si alzò e decise che era ora di smettere di fumare.
L’intuizione non gli venne nel sonno, bensì fu un uomo la sera prima a persuaderlo in ciò, un uomo che durante una lezione al Comitato, guardandolo dritto negli occhi, aveva detto: «La gente fuma per scaricare le proprie ansie, io non fumo perché le mie ansie mi servono a ricordarmi i miei obiettivi.»
Driss era rimasto affascinato da quelle parole. L’uomo le aveva pronunciate  non staccando mai gli occhi dal ragazzo, e più volte Driss pensò che Stratos lo avesse capito a fondo più di quanto lui stesso aveva potuto capire in diciassette anni di vita.
 
**
 
Quando Sergia, Ludovico e Tanya tornarono a casa dopo essere andati a porgere le condoglianze ai parenti più prossimi di Stratos Aspis, trovarono Driss steso nel giardino supino che fissava il cielo nuvoloso.
Una nuova ondata di tristezza e malinconia aveva travolto il ragazzo. Le gambe si erano fatte più deboli e cedettero al peso del corpo. Immobilizzato da una forza invisibile, Driss non era più riuscito ad alzarsi e gli occhi che lasciavano passare delle lacrime indisturbate erano fissi al cielo nero come la pece.
«Driss? Ma che stai facendo?» Chiese Sergia con un velo di apprensione.
Il ragazzo non si scompose e si comportò come se fosse ancora solo nel giardino.
Solo quando la madre si avvicinò al figlio per capire se stesse dormendo, meditando oppure se malauguratamente gli fosse accaduto qualcosa, il ragazzo si svegliò dal suo stato catatonico. Si portò entrambe le mani al volto per nascondere le lacrime. Si vergognava a farsi vedere fragile. L’immagine che voleva far passare di lui non era propriamente di un ‘duro’, piuttosto di una persona che non si lascia trasportare troppo dalla vita; che non si fa abbattere dalle avversità del destino; che non cade per poi non rialzarsi più. Nascondeva le sue debolezze perché non voleva mostrare i suoi sentimenti.
L’immagine risultante era di un ragazzo costantemente indignato.
Driss Lacks era uno dei pochi a Pogar che rimaneva indifferente ai commenti delle persone sul suo conto.
I lunghi dreadlocks che gli incorniciavano il viso e cadevano liberi fin sotto le spalle sottili attiravano più giudizi negativi che formiche su una carcassa in decomposizione.
«Sono sporchi» sostenevano i più, «non li lava mai.  E scommetto che anche lui è da un po’ che non incontra più acqua e sapone.»
Quando Tom Lacks passeggiava per le vie di Pogar, le persone non avevano occhi che per lui. Erano tuttavia sguardi carichi di disapprovazione.
«E’ strano come in una cittadina in cui la povertà e la miseria regnano sovrane e dove di certo l’igiene non è il suo cavallo di battaglia, la gente critichi duramente chi non si lava.» ero solito commentare Driss con una punta di malizia e precisando ogni volta che quello non fosse il suo caso.
Il ragazzo si lavava, come tutti quanti, sporadicamente e non soltanto il corpo ma anche i capelli. A questi ultimi applicava un olio all’estratto di ricino e non un normale sapone che li avrebbe solo rovinati.
Anche la diceria sul fatto che i suoi dreadlocks fossero nati da un periodo prolungato di astinenza a qualsiasi forma di lavaggio, era falsa. I capelli intrecciati in quel modo Tom se li era fatti in parte da solo, in parte grazie all’aiuto di una sua amica. Cecile gli aveva sistemato le ciocche frontali perché da solo non ci sarebbe riuscito. Se queste gli procurarono un gran dolore, le altre che invece intrecciò da solo non gli diedero il minimo fastidio.
Inutile dire che Sergia non fu affatto contenta del nuovo look del figlio e conclusa la fase delle minacce, dove la donna aveva promesso al ragazzo di tagliargli i capelli a zero, si abituò, anche se con fatica alla sua nuova acconciatura.
Ma la capigliatura bizzarra del ragazzo, non era l’unica sua caratteristica ad attirargli i commenti più insoliti. Driss era alto quasi un metro e novanta e aveva la costituzione di un ragazzo alto almeno trenta centimetri in meno. Se Driss Lacks fosse stato solo magrissimo, ciò non sarebbe stato oggetto di commenti. Nella piccola cittadina si contavano sulle punte delle dita coloro che disponevano di un sottile strato di grasso tra le ossa e l’epidermide.
Ma il fatto che alla sua corporatura esile si aggiungesse un’altezza spropositata tanto che poche persone a Pogar potevano vantare il lusso di riuscire a guardarlo fisso negli occhi, era ancora una volta oggetto di un frivolo spettegolare.
Driss non si sentiva a suo agio a guardare tutti quanti dall’alto verso il basso. Questo gesto presupponeva supponenza ed il diciannovenne non ne era proprio il tipo. Così finiva sempre per incurvare la schiena, a stare gobbo per cercare anche se invano di mettersi sullo stesso piano degli altri.
Se c’era un’ideale in cui Driss credeva era la parità. Fosse stato per lui non ci sarebbero stati capi, ma colleghi in cui era la maggioranza a decidere le sorti di una comunità. Era giusto che vi fossero dei leader, ma che lo fossero solo sul piano morale e non tecnico.
«Tutti sullo stesso piano è meglio» era il suo motto.
Una cittadina al cui governo sedeva un dittatore Driss Lacks l’avrebbe definita un incubo. Ed era proprio in un incubo che viveva, lottando ogni giorno per la sopravvivenza.
«Driss?» lo chiamò ancora la madre che ora lo sovrastava e che parava con il suo corpo quella poca e fioca luce giornaliera che timidamente prese ad infiltrarsi tra la spessa coltre di nubi.
«Sto bene.» biascicò il ragazzo, mettendosi a sedere.
Sergia si inchinò verso il figlio e in sussurro gli chiese se avesse ricevuto uno sgradevole regalo quella mattina.
«Il naso.» rispose con un filo di voce, le mani ancora a coprirgli il volto.
La donna in un gesto materno ed amorevole gli passò una mano sul capo e gli stampò un bacio proprio su quei capelli che tanto odiava. Non lo aveva mai fatto né lo avrebbe rifatto mai più, tuttavia ci sono circostanze nella vita in cui le parole perdono il loro valore e solo dei gesti affettuosi possono confortare le persone. E la morte della persona che Driss aveva stimato di più in vita sua, era una di quelle circostanze.
«Siamo andati a porgere le nostre condoglianze al padre e ai fratelli di Stratos. Abbiamo offerto loro la torta che avevo cucinato ieri e che oggi avremmo dovuto mangiare per colazione. Era una torta così bella. Avevo risparmiato i soldi di una settimana per preparare quel dolce. Stamattina appena ho appreso la notizia, ho ritenuto opportuno regalarla alla famiglia del defunto. E’ stato uno di quei momenti in cui realizzi quanto sei fortunato ad essere te stesso.»
«Ah davvero?» proruppe il ragazzo. «E perché io non ne ho mai di questi momenti?»
Sergia sospirò. Il cinismo del figlio e la sua torbida visione della vita a volte le facevano perdere le staffe.
«Perché sei cieco.» tagliò corto lei.
Driss non ribatté. In cuor suo sapeva che la madre aveva ragione.
Si alzò in piedi un po’ barcollante, si sentiva la testa pesante.
«A mezzogiorno ci sarà il funerale. Dovresti venire.»
«Non voglio. Sai che odio i funerali.» sentenziò il diciannovenne.
Sergia sospirò. Era difficile smuovere Driss dalle sue convinzioni che per sfortuna o fortuna erano tutte ben salde e radicate nel suo animo.
«Questa volta è diverso..»
«In che cosa?» domandò su di giri il ragazzo, interrompendo la donna. «Stratos non è morto? E questo funerale non sarà sempre la solita cerimonia di commemorazione di un morto per dirgli addio definitivamente? Io non voglio dirgli addio, mamma. Perché non lo è, lui non è morto. Una persona così non può morire. Un uomo così vivrà in eterno.» Sentendosi risalire le lacrime agli occhi, Driss si diresse verso l’abitazione. Camminava spedito e con grandi falcate. Non poteva farsi vedere dalla sua famiglia in lacrime.
«Devi ricevere qualcosa.»
A quelle parole Driss si fermò all’istante. Che cosa significavano? Il ragazzo si voltò e con aria confusa guardò la madre.
Sergia non pareva avere le idee più chiare.
«Me lo ha detto Lucas, uno dei fratelli..» abbassò gli occhi, sforzandosi di trovare le parole adatte.
Ludovico e Tanya erano degli spettatori scrupolosi e silenziosi.
Driss non staccava gli occhi di dosso alla madre, confuso più di prima.
«Sei nel testamento di Stratos Aspis.» dichiarò infine.
Il diciannovenne sgranò gli occhi e spalancò la bocca. Era davvero una notizia inaspettata e sentì un moto d’orgoglio nascergli dentro il petto.
Stratos lo aveva considerato a lui così caro tanto da lasciargli qualcosa? E che cosa poi? Driss non poté fare a meno di abbozzare un sorriso. Non vedeva l’ora di scoprire che cosa l’uomo gli avesse lasciato. Stratos aveva vissuto nella miseria più totale: in vita sua aveva posseduto pochissimi oggetti, quelli indispensabili a sopravvivere. Un coltello, una borraccia, delle scarpe logore, un cappotto consunto. Una casa ce l’aveva sì, e Driss pensava che forse Stratos gliel’avesse lasciata. Sarebbe stato bello andare a vivere nell’abitazione di un grand’uomo quale era stato Stratos Aspis..
In fin dei conti non aveva avuto figli e Driss si era legato molto a lui negli ultimi tempi…  A quell’idea il viso del ragazzo si illuminò, mentre il suo sorriso si faceva sempre più grande.
Quella fu una delle poche volte in cui Driss sperimentò la felicità senza l’aiuto della nicotina.
 
   
 
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