Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: CupOfEternitea    24/11/2014    2 recensioni
“Tempo da lupi, stanotte”. Sansa si immobilizzò all’istante, non appena quella voce graffiante si sovrappose al rumore del temporale. Ora lo sentiva, inconfondibile e familiare: odore di vino e di ferro. O forse di sangue. L’odore è il medesimo. Lo aveva imparato sulla propria pelle: il sangue che sgorgava dai suoi graffi aveva lo stesso odore del duro guanto di ferro di Meryn Trant. “Ma tu sei un uccelletto. Che ci facevi sul davanzale? Non è la notte adatta per volare.”
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sandor Clegane, Sansa Stark
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Le aveva dato il tempo di indossare un abito. «Qualcosa di semplice. Non stai andando a una festa», le aveva raschiato nell’oscurità, mentre le dava le spalle per consentirle di disfarsi della camicia da notte e scivolare in un semplice abito grigio, allacciando meglio che poteva  i nastri sul fianco. Non era comodo come quegli abiti da selvaggia che sua sorella era solita scegliere, ma era l’unico che sarebbe riuscita a indossare senza l’aiuto di una serva e che non l’avrebbe intralciata troppo nei movimenti.
Sandor Clegane non attese il suo segnale, per voltarsi: senza degnarla di un’occhiata si impossessò di una coperta di medie dimensioni e gliela lanciò addosso senza alcuna delicatezza, prima di allontanarsi nuovamente.
«Mettici dentro quello che riesci a trovare. Gioielli, oggetti preziosi…» Sansa poteva vedere la sua sagoma accanto alla finestra, mentre scrutava il mondo esterno. Un enorme mastino nero di guardia.
Non era cambiato dalla notte della battaglia delle Acque Nere; le sembrava perfino che le macchie di sangue sul suo viso fossero le stesse, per quel poco che la luce le consentiva di vedere. Seguì istintivamente la linea del suo profilo scuro, la fronte alta, resa appena irregolare dalle cicatrici dell’altra metà del viso, il naso aquilino… A vederlo così, un profilo nella penombra, non sarebbe sembrato diverso da un qualunque altro uomo. All’improvviso, lui aveva voltato la testa e Sansa si era sentita infilzare da due occhi grigi che non poteva vedere, ma che riusciva comunque a percepire nel buio. «Ora! Non domani!», abbaiò a mezza voce, ma abbastanza deciso da convincerla a seguire i suoi ordini senza ulteriore indugio mentre lui restava a guardia della situazione.
Recuperò dal mobilio una coppa d’argento istoriato, e uno specchio e una spazzola decorati con perle di fiume e opali, le posate d’argento ancora sporche del suo ultimo pasto consumato nella solitudine della stanza e una cintura d’oro, dono del suo sposo Lannister. Svuotò il suo portagioie, ma nel far cadere nella coperta i doni di Joffrey e della Regina Cersei si sentì sporca come se li stesse rubando, nonostante essi ora le appartenessero.
Lo sguardo indugiò sulla bambola che suo padre le aveva regalato un giorno di un passato che sembrava non essere mai esistito, tanto le appariva semplice e luminoso. Stava per prenderla, quando si ricordò del modo in cui, in quell’occasione, aveva trattato suo padre: la sua ingratitudine di fronte a quel suo ingenuo tentativo di consolarla dalla morte di Lady. La sua mano indugiò a mezz’aria per qualche secondo, quindi ricadde.
Non voleva portare quel genere di ricordo con sé. Si sarebbe costruita nuovi ricordi, decise, più felici di quelli che aveva conservato nel Fortino di Maegor.
Si chinò sulla cassapanca per prendere un abito di riserva. Doveva averne uno color ametista che aveva utilizzato nei primi tempi della sua prigionia ad Approdo del Re, da indossare per cavalcare nel cortile, sotto lo sguardo vigile delle guardie della Regina. Dopo tutto quel tempo, doveva ormai essere finito sul fondo.
Affondò il braccio tra i flutti di sete e velluti, rovistando senza preoccuparsi del disordine che stava creando, il cuore che batteva a mille per la paura che qualcuno potesse entrare nella stanza e sorprenderli.
Scorse finalmente un ricamo familiare, riconoscibile perfino in quella semioscurità. Trovato!
Nel tirarlo via, qualcosa scivolò fuori dalla cassapanca, fuori da quel groviglio di abiti donatile dalla Regina.
Sansa lo strinse tra le mani, lanciando una rapida occhiata all’uomo accanto alla finestra. Ne fece, quindi, un unico malloppo che infilò rapidamente nella coperta, attorno agli oggetti preziosi, annodandone in fretta i lembi.
Era un fagotto più leggero di quello che avrebbe mai ritenuto adatto a una lady come lei, ma se lo sarebbe fatto bastare. Un giorno, rifletté mentre si posava un mantello pesante sulle spalle, avrebbe ripreso il posto che le spettava, riconquistato la sua dignità e la sua posizione. Allora l’unica privazione che avrebbe provato sarebbe stata quella della sua famiglia; ma, forse, sarebbe stata consolata dall’idea che anche i Lannister avrebbero pianto le loro perdite.
«Andiamo via di qui», mormorò a bassa voce, il fagotto stretto al petto.

La fuga era stata una corsa nel buio, esaltante e spaventosa. Per innumerevoli lune aveva pregato gli dei per quella possibilità, eppure, ora che il momento era giunto, si riscopriva preda di un timore che la faceva tremare di vergogna.
Tutto le faceva paura: rumori di orecchie posate dietro le porte del palazzo a spiare i loro movimenti; ombre nei corridoi che nella sua mente assumevano le sembianze delle guardie Lannister ; il clangore dell’armatura del Mastino risuonava così assordante al suo udito, che Sansa era certa che avrebbe richiamato l’attenzione della Regina su di loro.
Più di tutto, però, la cosa che davvero la terrorizzava era il pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere se fossero riusciti ad uscirne vivi. Aveva atteso così tanto perché quel momento arrivasse: se ne fosse rimasta delusa?
Erano strisciati nei corridoi della Fortezza rapidi come il vento del Nord, eppure a Sansa non era sembrato di essere realmente cosciente delle sue azioni. Rammentava appena di aver sorpassato il corpo di un soldato morto, il sangue che si allargava sulla sua cappa color porpora. Lo aveva scavalcato come avrebbe fatto con una pozzanghera, allungando il passo e sollevando la gonna per non sporcarla, come se tutto fosse irreale. La mano del Mastino stretta attorno al suo polso le faceva male, ma le impediva di inciampare nel buio o di perdere la via verso la salvezza.
Non sapeva che strada fosse quella. Le sembrava di riconoscere luoghi del Fortino, eppure ad essi si alternavano lunghi corridoi oscuri mai visti prima. Sandor Clegane non aveva alcuna torcia con sé, ma procedeva con un’incredibile sicurezza, mentre Sansa continuava a inciampare e a doversi appoggiare alle pareti umide per non perdere l’equilibrio. Avrebbero potuto farsi luce in qualche modo.
È a causa del fuoco? Lo terrorizza.
Ma non poteva essere così. Lo aveva visto impugnare torce, prima di quel momento. Quando Joffrey gli aveva ordinato di scortarla nel castello, ad esempio. Forse, semplicemente, non voleva dare nell’occhio, si rispose: era troppo impegnata a non rompersi l’osso del collo per districarsi tra le sue troppe domande.
Tra le ombre, orbite vuote spiavano i loro movimenti. Immobili e terribili, i draghi della dinastia Targaryen erano i muti testimoni della sua liberazione.
Arya. Arya parlava di questo luogo, ma io non avevo voluto ascoltarla. Ero troppo impegnata a vergognarmi di lei.
Credeva che fosse uno scherzo, un modo per attirare l’attenzione del lord loro padre e non farsi punire per il suo comportamento imbarazzante.
«Ti fanno paura, uccelletto?»
La voce di Clegane, dopo quel lungo silenzio, quasi le fece mancare un gradino dallo spavento. La presa sul suo polso si fece così stretta da strapparle un gemito, quindi sentì le dita allentarsi senza lasciarla. Sentiva la pelle bruciare nel punto in cui la circolazione riprendeva a scorrere in direzione delle dita formicolanti. «Hanno poco da fare paura, da morti. Dannate bestiacce».
«No… No, non mi fanno paura».
Il Mastino rise. «Già. Lo so io cosa ti fa paura».
Per il resto del tragitto le parve di camminare in bilico su una fune, come aveva visto fare a dei guitti durante una cena a corte. Joffrey, qualche giorno dopo, aveva proposto che alcuni postulanti provassero a ripetere il numero sulle mura della Fortezza, ma l’arrivo della Regina Reggente aveva fortunatamente impedito che la provocazione del Re si tramutasse in un ordine perentorio.
A Joffrey sarebbe piaciuto vederla camminare su una corda. Non cadere, quello no: la sua morte avrebbe significato la fine dei giochi, per lui. Vederla implorare, invece, piangere e pregare dalla paura: quello per lui sarebbe stato uno spettacolo imperdibile.
Non sarebbe caduta, però.
All’esterno, la pioggia batteva ancora copiosa e implacabile, anche se meno violenta rispetto al momento in cui l’aveva svegliata. Camminarono raso mura, all’ombra della Fortezza, il Mastino davanti a lei che la schermava da eventuali presenze ostili e Sansa china in avanti per ripararsi al meglio dall’acqua e proteggere il carico che stringeva al petto. Bagnato dal maltempo, il mantello le gravava pesante sulle spalle. Il cappuccio continuava a scivolarle davanti al viso.
Non vedeva niente. Il buio, la cortina di pioggia, il cappuccio, il grande corpo del Mastino: tutto sembrava volerle impedire di comprendere cosa stesse accadendo attorno a lei. Ripensò alla bambola che suo padre le aveva donato: anche lei si sentiva una bambola, strattonata e trasportata solo dalla volontà dell’uomo che ancora una volta la stava aiutando. Si sentiva pesante, goffa nei movimenti, ma la presa del suo salvatore era abbastanza forte per entrambi. Quanto avrebbe desiderato abbandonarsi finalmente a qualcuno, sentirsi di nuovo una bambina protetta dagli altri, sgravata da ogni responsabilità.
Solo per un po’.
Le sarebbe piaciuto essere portata di peso in quell’oscurità in cui non poteva vedere brutture e in cui ciò che la circondava poteva essere bello o orribile a seconda di ciò in cui sceglieva di credere. C’era stato un tempo in cui non avrebbe dovuto fare altro che obbedire alle regole e agli ordini della septa e dei suoi genitori. Se si fosse comportata bene, se fosse diventata la lady perfetta che tutti si aspettavano, avrebbe trovato un marito che si prendesse cura di lei, che l’avrebbe fatta vivere negli agi, circondata da bellezza e cortesia. Non avrebbe avuto preoccupazioni, né tutta quella paura di commettere errori: la sua vita non sarebbe mai dipesa dalle sue scelte. Era un’idea invitante, dopo tanta sofferenza, ora che le veniva offerta l’occasione di arrendersi.
No, devo andare avanti.
Si era ritrovata a sbattere contro la schiena del Mastino, cozzando contro la maglia in ferro.
«Sta’ attenta! Mica ti posso portare dalla tua famiglia tutta ammaccata! Come glielo spiego che non sono stato io?»
«Scusami», aveva bisbigliato così piano che anche lei aveva fatto fatica a udirsi. Non aveva una famiglia, avrebbe voluto aggiungere, ma quello era meglio tenerlo per sé.
Il Mastino la stava portando da degli estranei, ma quegli estranei erano anche le uniche persone che le fossero rimaste al mondo. Se le sarebbe fatte bastare. Non chiedeva altro che un po’ di gentilezza, dopotutto; magari guardare il viso dei suoi zii e ricercare delle somiglianze con sua madre, Lady Catelyn. Tutti le dicevano che le somigliava tanto, ma, quando si guardava allo specchio, Sansa vedeva ormai solo una fanciulla troppo pallida, troppo triste, troppo taciturna. Della forza di sua madre non riusciva a vedere nulla.
Il nitrito di un cavallo squarciò la notte. Un’ombra nera nel nero di quel luogo senza nome si avvicinò a loro con un rumore di zoccoli sul terreno battuto. Non riusciva a vederlo, ma Sandor Clegane non sembrava avere lo stesso problema. Avvertì la stretta delle sue dita sciogliersi dal suo polso, il freddo vento notturno che soffiava su quella pelle accaldata e sudata provocandole brividi che le correvano lungo tutto il corpo.
Straniero.
Non lo vedeva neanche ora che era così vicino da percepirne il calore e l’odore penetrante, eppure era certa che fosse lui dal modo in cui l’uomo l’aveva lasciata per rassicurare il cavallo.
Ricordava Straniero: un enorme destriero forte e feroce come il suo proprietario. Ricordava anche che a Grande Inverno, il giorno dell’arrivo di Robert Baratheon e della sua corte, i loro stallieri avevano faticato a occuparsi dell’animale: questo sembrava rispondere solo agli ordini del Mastino, per un qualche strano accordo di tacita fedeltà reciproca.
«Eccoti qua», lo salutò l’uomo, avvicinandosi di un passo all’enorme sagoma nera, lasciando che il vuoto e la pioggia riempissero lo spazio che fino a quell’istante aveva occupato.
Sansa non vedeva niente. Le sembrò di essere diventata cieca in un mondo pieno di insidie, con le orecchie piene dei rabbiosi sussurri della pioggia. Le gocce le sferzavano il viso, più piccole, ma rapide e dolorose, mentre tentava di ripararsi con il cappuccio e rabbrividiva per il freddo che l’assenza del calore umano del Mastino le provocava.
Le parve di non percepirlo più, un’ombra sovrapposta all’ombra di Straniero, confusa in tutto quel nulla attorno a lei. Spaventata, avanzò di due rapidi passi, brevi come i suoi respiri, finendogli addosso, le dita strette sulle maglia di ferro che gli avvolgeva il torace.
«Ti ho detto di stare attenta!», la rimproverò lui, la voce simile al suono che accompagnava suo padre intento ad affilare Ghiaccio nel parco degli dèi, freddo e rassicurante allo stesso tempo.
«Non lasciarmi». Doveva essere un ordine di Sansa Stark, erede di Grande Inverno, ma suonò molto più simile al lamento di una bambina spaventata.
Non lo vedeva, ma lo sentì voltarsi. Riusciva a sentire il suo fiato caldo sfiorarle la fronte e l’odore del vino che ne testimoniava la vicinanza. Strinse più forte il fagotto morbido che teneva tra le braccia. Come poteva spiegargli che, se si fosse allontanato, sentiva che non l’avrebbe più ritrovata, in quell’oscurità? L’avrebbe trattata ancora una volta da stupida, incapace di badare a se stessa senza qualcuno che la prendesse per mano. Non era così. Aveva percorso un lungo cammino potendosi fidare solo di se stessa: sapeva di poter trovare un modo per sopravvivere; solo che non voleva più farlo a quel prezzo.
Come se le avesse letto nel pensiero, il Mastino le rispose: «I cani sono bravi a ritrovare le persone». Le fece scivolare le mani sotto le braccia, sfacciate, eppure delicate come le mani che l’avevano difesa innumerevoli volte durante la sua prigionia. Erano mani che ricordava bene, mani grandi che avevano impugnato spade enormi e fatto a pezzi chissà quanti nemici. Avrebbe potuto spezzarla, con quelle mani. «E io riconosco il tuo odore», aveva concluso, in un modo che l’aveva imbarazzata.
Aveva tremato, stavolta non a causa del freddo. Le mani di Sandor Clegane erano calde attraverso i vestiti inumiditi dalla pioggia ed era anche certa che non fosse tornato ad Approdo del Re a rischio della propria vita solo per farle del male. Non era questo a intimorirla.
Aveva pensato che volesse baciarla ancora una volta, come la notte della battaglia; invece i suoi piedi si staccarono da terra e si ritrovò seduta sulla sella di Straniero.
«Reggiti. Con questo buio non credo di riuscire a recuperare tutti i pezzi, se dovessi cadere».
  
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