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Autore: Red_Coat    26/11/2014    7 recensioni
Questa è la storia di un soldato, un rinnegato da due mondi. È la storia del viaggio ultimo del pianeta verso la sua terra promessa.
Questa è la storia di quando Cloud Strife fu sconfitto, e vennero le tenebre. E il silenzio.
Genere: Angst, Guerra, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cloud Strife, Kadaj, Nuovo personaggio, Sephiroth
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'allievo di Sephiroth'
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Giorno 0. Ricordi sfuggenti
 
C’è un piccolo ostello vicino al grande lago a poche ore di treno da Midgar, luogo della mia infanzia e custode dei ricordi del piccolo soldatino ingenuo che non sono più. È un luogo di pace, in cui il verde e la vitalità della natura stordiscono i sensi e riducono al nulla ogni malessere, e dove la pace e la tranquillità delle acque cristalline e azzurre annientano ogni tipo di malumore o paura, lasciando l’animo libero di risollevarsi e riprendere fiato dalla sfiancante lotta che ognuno di noi, civile o soldato, è costretto a combattere.
Quando mio nonno morì, scappai di casa e mi rifugiai per qualche giorno lì, certo che mio padre avesse compreso il momento e sapesse dove cercarmi. Difatti, non ci mise molto a capire che i soldi che avevo rubato dal suo portafogli li avevo spesi per pagare l’alloggio alla dolce signora che lo gestiva. Manimi si chiamava, e quell’enorme edificio rosso mattone col tetto in tegole di argilla era di proprietà della sua famiglia da undici generazioni.
Un grande maniero rurale a due piani composto da sei stanze con bagno al piano superiore e cucina, sala da pranzo e hall al piano di sotto. Situato alla fine del piccolo villaggio che affacciava su quello splendido lago di cui ancora oggi ignoro il nome, io e mio nonno ci passavamo giornate intere durante i fine settimana, e quando lui morì mio padre decise di continuare la tradizione per rendermi il distacco meno traumatico. Penso sia l’unico posto al mondo in cui la luce accecante non mi dà fastidio e la purezza della natura – in contrasto con lo squallore della mia città – mi rinfranca invece di stordirmi.
Subito dopo il colloquio con Sephiroth, quel goffo scienziato mi ha fatto un’iniezione di calmanti per farmi addormentare e poter ultimare la medicazione, e durante quel lungo sonno durato altre cinque ore ho sognato quei momenti, belli e indelebili nel mio cuore e nella mia mente, e al mio risveglio dopo aver visto la mia mano completamente fasciata da una benda strettissima e costretta a sopportare il peso dell’inibitore ho desiderato ardentemente tornare lì.
Ho salutato Kunsel – l’unico Soldier oltre a Zack che pare non arrendersi di fronte alla mia riluttanza al dialogo –  e ho dato la mia parola a Sephiroth che durante quel periodo avrei obbedito al suo ultimo ordine, e dopo aver radunato le mie cose e salutato i miei sono partito, lasciandomi dietro la mia amata Midgar, la sua aria inquinata e soffocante, la sua atmosfera grigia e malata, la sede della Shinra e il mio adorato Generale, assieme allo sguardo torvo e preoccupato di mio padre e al sorriso rassicurante e complice di mia madre.
Ed ora che sono in viaggio da più di un’ora su questo treno vecchio e malandato, improvvisamente mi accorgo di sentirmi angosciato e con lo spirito affranto per un qualcosa di terribile che sta per accadere, come un presentimento che vorrei non si avverasse mai e lasciasse al più presto la mia testa, già abbastanza aggravata dalla nostalgia per quello che sto lasciando. Non so spiegare ma … è come se ricordassi che, in questo preciso punto della storia, qualcosa deve accadere, ma per quanto io mi sforzi mi sfugge il significato di questa sensazione di déjà-vu preannunciato e le domande che non trovano risposta non fanno che appesantire ancor di più la mia mente.
Forse è solo stress, mi dico, forse questo ritiro forzato mi farà più bene di quanto io possa immaginare. Ma non riesco a non pensare che non ho fatto in tempo a salutare Zack. E che non vedo il suo mentore da ormai quasi due mesi.
 
***
 
Giorno 5. La ragazza del lago
 
Solo cinque giorni da che sono qui, e dico solo perché a me sembrano un’eternità. Oltre ad aver scoperto che mamma Manimi vive ancora ed è esattamente come la ricordavo, sono sempre più determinato a non bruciare più neanche una sola occasione per dimostrare a Sephiroth che stavolta faccio sul serio. Sin dal primo giorno, dopo aver spento il telefono e averlo chiuso a chiave in un cassetto del comodino in legno vicino al letto, ho sistemato il mio borsone nero targato Shinra nell’armadio e mi sono precipitato in riva al lago ad esercitarmi con l’unica arma che mi è stato concesso di portare, un piccolo bastone da combattimento, e ci sono rimasto fino a tarda sera, senza neanche cenare. Il giorno dopo e anche quelli successivi la cosa si è ripetuta, ed io ho scoperto di essere un maestro molto più inflessibile di Sephiroth verso me stesso.
Ma ricordo le parole del mio generale, e mi rendo conto di aver sottovalutato il mio addestramento e di aver invece sopravvalutato il mio autocontrollo. “Fai ciò per cui ti sei arruolato. Fallo sul serio!”. Si, signore! Hai ragione, questo non è un gioco, non è per una semplice esercitazione che ho perso la mano. Ho combattuto contro un avversario più potente di me ed ho rischiato di morire, sono stato presuntuoso e ingenuo, ma da adesso in poi neppure io tollererò questo genere di errori stupidi da parte mia.
Mentre rimanevo concentrato su ciò che stavo facendo, estraniandomi da ogni cosa al di fuori della mia mano sinistra e del bastone che essa stringeva e dimenticandomi perfino del tempo che passava intorno a me, mi sono accorto per la prima volta di stare finalmente mettendo in pratica tutto quello che avevo imparato, e dopo quasi due mesi di addestramento mi sono finalmente convinto di stare rendendo giustizia al mio maestro. Ma non è abbastanza. Non lo sarà mai se limito quella concentrazione solo durante le sessioni di addestramento e non la uso sul campo, quando il dolore e la rabbia divampano e i miei poteri fanno a botte con la mia lucidità mentale per riuscire a manifestarsi.
Tuttavia, le difficoltà non sono per nulla poche, anche durante queste sessioni di addestramento singolo.
È snervante dover dipendere solo da una mano, mi sento un ritardato nei movimenti, pesante, goffo e impacciato come un elefante. E non solo mentre combatto, ma ogni istante di ogni singolo giorno. Anche prendere in mano una tazzina di caffè diventa frustrante, così che il più delle volte salto quella che fino a poco tempo fa era una piacevole abitudine ed esco ad allenarmi a stomaco vuoto. Ormai evito perfino di guardare il mio braccio destro per non sentirmi un invalido, ma a ricordarmi che esiste anche lui ci pensano le piccole scosse di dolore che ogni tanto – a causa di un mio movimento un po’ troppo brusco e del bendaggio strettissimo – partono dai nervi tranciati ed arrivano a farmi vibrare di dolore.
Non ho potuto portare con me la divisa, Sephiroth e Lazard hanno pensato che sarebbe stato meno rischioso per me vestire abiti normali, così per coprire la fasciatura e farla sembrare meno evidente ho indossato un vecchio guanto in pelle di mio nonno, l’unico ricordo tangibile che ho di lui e del fatto che fosse un 1st class. Oltre a rendere la mia mano meno vistosa, quel vecchio indumento in pelle consumata mi ricorda il suo esempio, le volte che non si è mai arreso di fronte alle ferite che portava sul corpo e alle sconfitte, proprio come Zack o Sephiroth. Mi piacerebbe sapere se sono riuscito a renderlo fiero, perché a volte ho così poca stima di me stesso che non né sono più sicuro tanto sicuro.
È a questo che penso ora che sono seduto in riva al lago silente e lancio stancamente dei sassolini nelle sue acque limpide e rischiarate dalla pallida luce lunare.
È mezzanotte, o almeno così diceva l’orologio digitale appoggiato sul comodino della mia camera quando sono uscito, circa mezz’ora fa. Fa freddo, nonostante la serata sia limpida e piena di stelle, ed io ho indosso solo i miei leggeri e stretti jeans bianchi, i miei anfibi neri e una maglia bianca a mezze maniche, ma non mi lamento perché in questo momento il gelo è l’ultimo dei miei pensieri.
Sono tre giorni che gli incubi non mi permettono di dormire. Sono quasi sicuro che siano quelle immagini i pensieri che mi tormentavano sul treno che mi ha portato qui, quegli eventi che non riuscivo a ricordare. Mi è successo anche durante l'ultima missione di Zack a Banora, ma poi non ho più avuto tempo di pensarci e mi sono accontentato di rivederlo vivo e vegeto, anche perchè quei sogni non erano così orribili, solo molto tristi. Ma stavolta è tutto diverso, ho davvero paura che possano avverarsi, perché ciò che ho visto non solo non mi piace, ma mi riempie il cuore di angoscia e dolore insopportabile. Non riesco a liberarmi di quelle immagini, della forte voglia che ho di mandare la mia convalescenza al diavolo per correre ad avvisare Zack di stare alla larga da un paese innevato di nome … Modehoheim.
Ma non posso farlo. Perché gli ordini di Sephiroth sono insindacabili, la situazione è complicata ed io ho troppa paura di deluderlo di nuovo. Sono solo sogni, mi ripeto, non posso rischiare di mandare all’aria l’ultima possibilità che ho di dimostrare al mio generale la mia fedeltà per dei sogni. I sogni notturni sono solo illusioni create della nostra mente stanca, non si avverano mai, lo sanno tutti …
Quelli dei comuni esseri umani forse … non i miei.
Fermo impaziente il respiro, chiudo gli occhi e lo ricaccio fuori col naso emettendo uno sbruffo nervoso. Se solo riuscissi a togliermele dalla testa! Se solo riuscissi a dimenticarle, quelle immagini così angoscianti e così reali! Chiuderle nel cassetto come quel telefono che non tocco da giorni e dimenticarle lì con la speranza che rimangano solo incubi. Se solo si potesse …
Un’ombra minuta e gentile si accosta a me ed interrompe i miei pensieri. Mi volto alla mia destra e vedo quella ragazza, la nipote di mamma Manimi, in piedi accanto a me nel suo solito kimono verde chiaro che sembra scintillare colpito per intero da un lucente fascio di luce lunare. È muta dalla nascita per colpa di una malformazione genetica che l’ha privata delle corde vocali, ma non è male da guardare, anzi. Credo debba avere vent’uno anni o giù di lì, ha la pelle pallidissima, il viso piccolo dai lineamenti tipicamente orientali, una bocca rosea e piccolina e due grandi occhi verdi. I suoi lunghi capelli di un castano chiaro sono quasi sempre legati in tre piccoli chignon sulla testa per mezzo di nastri di raso abbinati al colore del suo kimono del momento. Quello che mi colpisce di più di lei però è il suo sorriso. È facile farla sorridere, anche perché sembra che lo faccia pure se non ce n’è un motivo.
Anche adesso, mentre fissa la grande faccia della luna sopra il lago con le mani dietro la schiena, le sue labbra sono increspate in un leggero sorriso sereno. Mi sorprendo a fissarla, chiedendomi come faccia a mantenere quest’allegria nonostante la vita gli abbia riservato solo dolore. Oltre ad essere nata senza le corde vocali, all’età di sette anni i suoi genitori sono morti a causa dell’esplosione di un vecchio reattore situato nel paesello in cui erano andati a trascorrere le vacanze, lasciandola orfana in affidamento ai nonni materni. Purtroppo però suo nonno, il marito di Manimi, morì otto anni fa a causa di un infarto lasciando solo lei e sua nonna a gestire la proprietà. Eppure ora lei è lì di fronte a me, serena, e sorride alla faccia bianca della luna puntando il viso così in alto da sembrare un gesto di sfida verso la vita e la malinconia. Perché?
Come se avesse udito i miei pensieri lei, che penso di non ricordare male si chiami Hikari, si volta verso di me e gesticola dolcemente una domanda. Non riesci a dormire?
Annuisco sconsolato
 
<< No … >> rispondo, tornando a guardarla
 
Lei mi sorride di nuovo, poi indica i suoi occhi, me e con indice e medio di entrambi le mani aperti e uniti alle punte disegna una piccola bocca triste nell’aria, tirandoli bruscamente in giù. Hai gli occhi tristi ....
Stavolta sono io a sorridere, abbassando il volto. Non sono in grado di risponderle con la verità, non capirebbe. Mi limito a rimanere in silenzio incrociando le gambe e tornando a lanciare sassolini nell’acqua limpida del lago. Ma lei non si arrende.
Si siede accanto a me, e quando la guardo mi comunica, servendosi di quel linguaggio a gesti tutto suo che ho imparato a capire in quei pochi giorni di permanenza grazie alla dolce mamma Manimi.
Sei sempre triste mi dice e non parli mai. Ti sento la mattina alzarti per venire qui. I tuoi passi sono stanchi ma sembra che non te ne importi. L’altra mattina ti ho visto allenarti dalla finestra della mia stanza. Mi sono avvicinata ed i tuoi occhi erano duri e malinconici. Poi hai cominciato a restare qui anche di notte …
 
<< Sono solo incubi. >> rispondo, frenandola bruscamente.
 
Ma lei è più testarda di me a quanto sembra, perché alza il palmo aperto di una mano a un palmo dal mio naso imponendomi il silenzio, con una determinazione così strana da vedere in uno scricciolo come lei che non posso fare a meno di obbedirle
Ti tolgono il sonno, ti fanno sudare freddo quando ci pensi, ti privano della serenità mentale e tornano a tormentarti anche durante il giorno impedendoti di vivere.
Non sono … solo incubi. Non se continui a pensarci. Mi dice, gesticolando con veemenza e rallentando poi nel mimarmi le ultime frasi.
E all’improvviso io mi sento esplodere. Mi alzo irato e stringo con violenza il pugno sinistro, rabbrividendo quando sento una lunga scossa di dolore partire da sotto il guanto in pelle consumata,
 
<< Bene, ti ringrazio! Avevo proprio bisogno di qualcuno che alimentasse i miei sospetti, ora credo proprio che riuscirò a dormire di più. >> le ringhio contro.
 
La vedo scurirsi in volto ed arretrare, poi giro i tacchi e inizio a camminare irato verso la grande casa rossa, lasciandola sola in riva al lago.
Salgo velocemente le scale e mi rinchiudo in camera mia gettandomi sul letto. Gli occhi mi bruciano da impazzire per la stanchezza, sento di voler piangere e fatico a stento a trattenermi. Perché se adesso chiudo gli occhi e mi addormento sfinito, rivedrò quell’incubo, le lacrime del mio migliore amico, quelle che ancora non sono cadute e che non potrò impedirgli di versare, l’angoscia e la disperazione. Sognarlo di nuovo, sarebbe come rivivere per l’ennesima volta la morte di mio nonno. Ed io non voglio.
Io non … posso …
 
Giorno 6. L'incubo sulla tela
 
Un rumore appena percepito mi risveglia, come di piccoli passi che s’introducono nella stanza. Riapro gli occhi e subito devo richiuderli nascondendomeli con la mano, perché la luce del sole del mattino che entra dalla finestra spalancata sul lago me li fa bruciare come se vi fosse stato gettato su dell’acido. Sento quei passi avvicinarsi alla finestra e da dietro le palpebre chiuse percepisco la luce intensa affievolirsi un po’. Quando li riapro, vedo la giovane Hikari sorridermi di fronte alle persiane semi chiuse.
Volto la testa verso il comodino, ed oltre al vecchio vassoio in argento in cui giacciono una tazza piena di un the nero fumante e una fetta di torta alle fragole, scorgo l’ora segnalatami per mezzo dei numeri turchesi che lampeggiano nel monitor della sveglia elettronica. Le dieci e trentaquattro del mattino. Niente incubi stanotte? O forse ero così sconvolto da non aver avuto bisogno di vederli per sapere che ci sarebbero stati?
Guardo nuovamente la giovane, che mi comunica: L’ho fatta io, per te.
Immagino si riferisca alla torta, perché subito dopo si porta una mano alla bocca simulando un morso. Mangia!
Dovrei farlo. Per farmi perdonare di come l’ho trattata ieri sera prima di tutto, e poi … perché non mangio da quando sono iniziati gli incubi e non ho alcuna intenzione di farlo.
Mi metto a sedere, ancora intontito, e dopo essermi massaggiato con una mano gli occhi stanchi decido di fare almeno una delle due cose.
 
<< Scusami per ieri sera! >> dico, guardandola e intanto reggendomi al lato del letto con entrambi le mani e cercando di tornare completamente in me << E’ che sono … molto preoccupato. >> aggiungo, cercando un motivo valido da fornirle, che possa in qualche modo far apparire meno cattivo il mio impeto, ma mi accorgo di aver solo dato l’impressione di stare arrampicandomi sugli specchi, così sospiro spazientito << Se solo riuscissi a levarmi queste immagini dalla testa! >>
 
Mi lascio sfuggire questa frase, e pochi secondo dopo lei corre verso la porta e spalancandola mi fa segno di seguirla. Sono sorpreso, e incuriosito obbedisco. Ci dirigiamo spediti all’ultima stanza sulla sinistra, e non appena spalanca la porte mi accoglie un ambiente pulito, piccolo, luminoso e pieno zeppo di quadri che ritraggono scene di ogni tipo e soggetti che anche io conosco molto bene. Un ritratto ad olio del suo vecchio nonno, un altro del lago di notte, uno splendido prato fiorito impresso con colori a matita in un cartoncino da disegno, mamma cavalla col suo puledro e infine anche Hikari stessa, da piccola con i suoi genitori.
Mi soffermo su quest’ultimo dipinto, meravigliandomi di quanto sia stata in grado di riprodurre con precisione una scena in cui lei doveva avere forse quattro anni o cinque. Sono talmente dettagliate che mi sembra quasi di sentire le risate di quell’uomo e quella donna mentre abbracciano quella bimba e la strapazzano di coccole. Mi manca il fiato, mentre sposto lo sguardo sui dipinti intorno a quello, tutti ritraenti i suoi genitori e a volte anche lei.
Sono sbalordito e quasi commosso quando lei stessa, avvicinandosi a quella parete illuminata da un raggio di sole, allarga le braccia e sorride felice, come a dire Queste sono le mie fotografie di famiglia.
Poi punta un dito verso di me e, spostandosi verso un cavalletto in legno posizionato proprio vicino ad un tavolino in acero laccato su cui giacciono pennelli, tavolozza ed una scatola di colori, mi fa segno aprendo la mano come se mi stesse invitando.
A fare cosa? Ci metto un po’ a capire, sono talmente stordito che sinceramente non so proprio immaginare a cosa si riferisca, ma quando finalmente ci riesco esclamo stupito.
 
<< Io? Dipingere? >> chiedo.
 
Lei sorride e annuisce con forza, ripetendo il gesto con la mano aperta. La cosa è talmente ridicola e impossibile da spingermi a scoppiare in una fragorosa risata.
 
<< Con questa mano? >> dico, sollevando il braccio malandato.
 
Ma lei sembra non avermi visto neanche, perché afferra uno dei pennelli più grossi e me lo porge, ed è allora che capisco che fa sul serio. Sbruffo spazientito e un po’ divertito. E’ davvero troppo ingenua.
 
<< Senti Hikari, tu sei bravissima! >> dico << Ma io non ho mai dipinto nulla in vita mia quando la mia mano destra era ancora con me, figurati adesso! >>
 
E poi, penso senza dirlo, con tutto il lavoro che ho da fare per imparare ad usare la katana con la destra figurarsi se mi metto a perdere tempo imbrattando una tela.
In risposta, lei si fa seria, quasi a voler prendere in giro la mia espressione, e impugnando il pennello con la mano sinistra come se fosse un’arma si mette goffamente in posizione di attacco e comincia a muovere e roteare il polso facendo finta di tirare stoccate. So quello che sta cercando di dirmi. Magari impari ad usare la sinistra! Ma è così buffa che non posso fare a meno di esplodere in una risata, che non si ferma neanche quando lei sorride indicando prima la sua bocca e poi la mia. Visto, stai ridendo!
Annuisco con gli angoli della bocca ancora tirati all’insù, e butto indietro la testa lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
 
<< D’accordo, sto ridendo. Hai vinto, contenta? >> la provoco.
 
Lei sorride e scuotendo la testa mi porge il pennello.
 
<< Oh, e va bene! Dà qua! >> dico, afferrando il pennello e intingendolo nel nero.
 
Tiro due pennellate a caso agitando il polso all’insù e le mostro la tela sporca
 
<< Visto? Non so disegnare! >> ribatto.
 
Lei mi si para davanti, inclina di lato la testa e corruga la fronte pensierosa, rimanendo così per qualche istante. Poi afferra il pennello più piccolo, lo intinge anche lei nel nero, poi nel bianco e traccia una sottile linea in mezzo a ciascuna delle pennellate, trasformandole in tante piume nere che volteggiano su uno sfondo bianco.
Impallidisco fissandole, e sento la mia mano destra tremare mentre la mia mente è catapultata di nuovo verso quelli che sono i miei incubi più profondi, quelle immagini che non riesco a capire, che mi fanno paura. Poi, temendo di rivelarmi, le rivolgo uno sguardo sconvolto e la vedo rispondermi con un mezzo sorriso mentre inclina la testa verso la tela. Altroché se sai disegnare.
Poi mi consegna il pennello e si dilegua, richiamata dalla voce di sua nonna. Ed io rimango lì di fronte a quelle piume d’inchiostro che fluttuano nella luce, e ripenso a Genesis, ad Angeal ed al mio incubo.
E decido di provarci
***

È stato inutile. C’ho provato tutto il giorno a liberarmene, ma era troppo inquietante, ed io troppo scosso. In più, fare un lavoro di precisione con quella maledetta mano sinistra è impossibile anche con i consigli di Hikari. È stata seduta alla sua piccola scrivania laccata di bianco per tutto il giorno, facendomi compagnia col suo silenzio e lavorando con una matita su un foglio bianco. Neanche il lieve fruscio della grafite che graffia e accarezza il foglio è riuscito ad aiutarmi.
Il fatto è che … quello che ho visto è troppo orribile, così tanto che non voglio farlo diventare reale neppure in un disegno. Dopo dovrei bruciarlo, e non sarebbe servito a nulla.
Così, quando il sole è calato sullo specchio limpido e azzurro del lago lasciando di nuovo spazio al denso nero della notte puntellata dai piccoli diamanti delle stelle, decido di scendere per la prima volta a mangiare assieme a Hikari e sua nonna.
Non che mi vada più di tanto, perché cenare con la morte nel cuore e nella mente non è un buon modo per sperare d’ingurgitare quantità esagerate di cibo, ma lo faccio perché non mi va di far scontenta quella ragazza dopo il modo in cui l’ho trattata l’altra sera, e anche perché ormai sono così debole che continuare ad allenarmi sarebbe inutile se non metto un po’ di carburante.
Butto giù due cucchiai di minestra di farro, divido in tre una bistecca e mi costringo a masticarne qualche cubetto, mentre cerco di partecipare alla conversazione sul dipingere che Hikari ha iniziato con sua nonna, informandola che ci sto provando anche io
 
<< No, lo faccio giusto per … curiosità. E non sono neanche bravo>> rispondo scuotendo le spalle e sforzandomi di sorridere.
<< Oh, vedrai che la nostra Hikari saprà insegnarti! >> mi risponde la donna, con voce gentile.
 
Guarrdo la ragazza e sorrido.
 
<< Non ho dubbi, è bravissima lei! >> rispondo.
 
Hikari sembra arrossire e sorride abbassando timida lo sguardo, poi mi posa una mano su quella bendata, che tengo poggiata sul tavolo come se fosse un oggetto inutilizzabile e dimenticato, e me la stringe lievemente.
Vibro, ma questa volta non è il dolore. I nostri occhi s’incrociano per qualche istante, io sento che vorrei ricambiare la stretta ma non appena i miei nervi si muovono so che non posso farlo perché una lieve scossa mi richiama alla mente la mia condizione di convalescente.
Così continuo a guardarla, a sprofondare in quegli occhi verdi e allegri come un raggio di sole che rifulge su un diamante, fino a che non mi accorgo che ci stiamo fissando come se questa fosse l’ultima cosa che vorremmo fare prima della fine del mondo.
Richiamo la mia mente all’ordine, e alzandomi dal tavolo ringrazio per la cena e corro di sopra, in camera mia, chiudendo la porta a chiave e buttandomi sul letto. Se ieri non è successo niente, penso cercando di addormentarmi, magari neppure stasera.
Così chiudo gli occhi e dopo qualche minuto, in cui odo il mio respiro farsi sempre più lento, sprofondo nel buio.

\\\

Mi risveglio urlando mentre è ancora buio, sudato e agitato. Respiro aprendo e chiudendo la bocca come se stessi annaspando e sventolando le braccia in aria scaccio spaventato e sconvolto le ultime immagini di quell’incubo, sempre lo stesso da cinque giorni ormai, che svaniscono come nebbia colorata ma non mi lasciano neppure la calma per respirare.
Angeal.
Riesco a pensare solo a questo. E istintivamente sento che devo provarci ora, se voglio liberarmene, così mi alzo di scatto e afferro la maniglia della porta tirandola verso di me con violenza e lanciando un ringhio quando questa oppone resistenza, ricordandomi solo dopo di averla chiusa a chiave e girandola come se gli stessi sferrando un pugno.
Mi fiondo nel piccolo studio di Hikari, illuminato completamente dalla luce lunare che filtra dal balcone spalancato affacciato sulla meravigliosa vista del lago pacifico sotto i raggi argentei dell’astro minore, e afferrando un pennello inizio a spargere i colori sulla tavolozza, d’istinto e con rabbia, e a dare i primi colpi di pennello, mentre sento le lacrime scendere dai miei occhi brucianti e andare a mescolarsi nel colore denso con cui sto colpendo la tela, il braccio destro pulsare per colpa dell’inibitore e della ferita e il cuore tremare dal dolore.
Solo quando ho finito e l’immagine del mio incubo appare ora fisicamente davanti ai miei occhi riesco a cadere in ginocchio, e col viso tra le mani per evitare di guardarla inizio a piangere come un bambino senza avere la forza di fermarmi.
Sento dei passi, poi due braccia piccole e delicate avvolte dalla stoffa leggera di un kimono mi stringono da dietro la schiena ed iniziano a carezzarmi i capelli.
Ce l’ho fatta, penso, ora basta! Per favore, basta …
E nel mentre, sento la ragazza alle mie spalle tremare per un brevissimo istante, rivolgendo lo sguardo verso la tela.


 
                          










 
 
Note dell’autrice: D’accordo, dopo questo capitolo ho i brividi. So che Victor ricorda alcuni avvenimenti come se li avesse già vissuti, ma non avevo neanche il minimo sentore che sapesse dipingere, figurarsi poi quando mi è spuntata in testa l’idea di questa ragazzina che lo inizia a questa arte. A proposito, per chi non lo sapesse Hikari significa Luce, e nel corso della storia vedremo che non è un nome messo così a caso ma sarà molto importante per la caratterizzazione di Vic da "adulto".
La scena in cui dipinge la morte di Angeal (ç__ç) mi ha ricordato molto una scena della prima serie di Heroes – tra l’altro è l’unico episodio che ho visto di quel telefilm - dove c’è un tizio, un pittore maledetto si potrebbe dire, che ha sognato la fine del mondo e l’ha dipinta, nascondendo poi il quadro perché gli faceva troppa paura. Niente, volevo dirvelo nel prossimo capitolo e lasciarvi un qualche giorno di tempo per riprendervi dalla botta emotiva, ma prospetto che ce ne saranno altre come questa (l’ho già detto che è una Angst?) perciò tanto vale farlo adesso. Ah, un messaggio per Vic …. Mi hai letteralmente lasciato senza parole O_O
Povero Angeal …. sto soffrendo come una dannata, maledizione! Vado a piangere in un angolino scuro della casa sperando che non mi scopra nessuno, và.
Comunque, almeno per farvi sorridere un po’ … ma allora non t’importa solo di Sephiroth, eh Vittorio? Hai capito lui, fa conquiste  :D
Ragazzi, questa è la storia più travolgente e imprevedibile che io abbia mai scritto, ci vediamo tra un paio di giorni col racconto dei restanti giorni di congedo del nostro 2nd class impossibile, vi assicuro che se questo vi ha fatto piangere come è successo a me … vi conviene andare a fare scorta di fazzoletti ç_ç
 
A presto :*
 
Sarah
   
 
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