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Autore: Little Redbird    01/12/2014    3 recensioni
Johnlock Au futurista.
John fa parte di un'equipe di scienziati che sta creando un nuovo tipo di essere umano superintelligente, che non è trattenuto da nessun sentimento umano. John se ne innamora, anche se sa di non poter essere ricambiato... o forse sì (pare che il risultato dell'esperimento non sia così immune ai sentimenti dopotutto).
Genere: Romantico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Lestrade, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Capitolo #2  



Le luci accecanti del laboratorio erano una delle cose che John amava di più. Girare trai suoi colleghi più eccelsi, con indosso il camice bianco, lo faceva sentire parte di qualcosa. Osservare i risultati dei suoi esperimenti era la cosa più appagante della sua vita; guardare i progressi fatti dai soggetti al di là del vetro lo inorgogliva non poco.
Creare umani super potenti era il sogno dell’umanità da secoli, qualcuno ci aveva provato e aveva miseramente fallito. Gli ultimi soggetti con forza disumana erano stati usati nella quarta guerra mondiale, erano stati lasciati liberi di distruggere tutto quello che incontravano – compresi innocenti ed i loro stessi creatori – ed erano stati eliminati appena prima che estinguessero quella che una volta era la loro stessa razza. John non avrebbe mai preso parte ad un esperimento di quel genere; costringere normali uomini ad assumere sostanze tossiche per vincere una guerra era per lui quanto di più sbagliato ed ingiusto potesse esserci. Quello a cui lui stava lavorando era un progetto totalmente differente, la sua equipe potenziava la mente, non il corpo, incoraggiava l’intelligenza, non la forza. Immaginava quanto fosse raccapricciante osservare esseri umani trasformarsi in mostri con muscoli eccessivamente sviluppati, vederli detestare il proprio aspetto e arrendersi al fatto di non poter controllare la propria forza. Anche solo guardare ai reperti storici, le foto e i video custoditi nelle loro banche dati, gli metteva agitazione. Ma John sapeva che quello che stava facendo lui era qualcosa di completamente diverso, sebbene avesse – come tutto, del resto – i suoi aspetti negativi. La differenza, nel suo progetto, era che i soggetti si sottoponevano volontariamente ai loro trattamenti. Accettavano di lasciar modificare, attraverso le apparecchiature più recenti e sofisticate offerte dal governo, il DNA delle loro cellule. I soggetti – non gli piaceva chiamarli cavie – venivano selezionati in base al loro grado sociale, il QI naturale e alcuni aspetti riguardanti il DNA. Ogni anno si presentavano ai colloqui migliaia di persone da tutto il mondo; a quanto pareva, la possibilità di diventare più intelligenti della norma valeva la pena di lasciare la propria famiglia, i propri affetti, lasciarsi chiudere in piccole stanze sorvegliate ventiquattro ore su ventiquattro, con gli unici svaghi proposti dai dottori, e rinunciare alle proprie emozioni semplici – cosa che sembrava essere positiva per quelli che tentavano di essere scelti. Lasciarsi estirpare il dolore era una prospettiva allettante anche per lui, ma non era capace di immaginare una vita senza emozioni positive, senza tenerezza o gioia o amore. Anche se quell’amore era rivolto a chi non poteva ricambiarlo.
“Dottor Watson?”
John si riscosse dai propri pensieri e si voltò verso uno dei suoi colleghi. “Dimmi, Lestrade.”
“Il paziente 221B ha superato con successo anche il test di questa settimana.”
“Come ci aspettavamo.”
L’uomo, i cui capelli grigi quasi scintillavano sotto quelle luci, si accigliò, combattuto tra il dirgli quello che stava pensando o tenerlo per sé.
“Che succede?” domandò John. “Devi dirmi tutto su quel paziente, lo sai.”
“Dice che si è annoiato” si arrese l’altro. Sul viso aveva un’espressione più stupita di quella di John, probabilmente. “Gli altri soggetti ci stanno lavorando da almeno dodici ore, mentre lui l’ha svolto in un’ora e dice di essersi annoiato.”
John non si stupì più di tanto. Il paziente 221B era in assoluto il più intelligente di quelli che avevano trattato ed era quasi un genio anche prima di essere modificato geneticamente.
“Significa che stiamo procedendo bene, caro Lestrade.” Gli posò una mano sulla spalla e l’altro sorrise ma, di nuovo, sembrava indeciso se dirgli o meno quel che sapeva.
Non aspettò che il dottor Watson lo incitasse, stavolta. “Ha chiesto di lei tutta la mattina.”
La testa di John si voltò di scatto verso il corridoio in cui la camera del paziente era situata, quasi come se l’avesse chiamato. Scostò la mano dalla spalla del collega e cercò di sembrare impassibile.
“Ti ringrazio, vado a controllare immediatamente.”
Lestrade annuì e si allontanò per svolgere il suo lavoro. John cercò sulla sua tavoletta personale i valori dei test clinici del suo paziente e constatò che era tutto in regola.
Inspirò a fondo e si diresse nel corridoio dei pazienti inglesi. Sulla soglia, espirò con calma il respiro che non si era accorto di trattenere ed entrò con le mani sudate.
“Come va, oggi, Sherlock?”
Il ragazzo dai capelli scuri lo guardò lentamente, non lasciando trasparire nessuna emozione – poiché, si disse John, non poteva provarne. Era seduto con la schiena rigida, le mani giunte e pallide posate sul banco d’acciaio. Il letto era stato rifatto con perfezione maniacale, sotto di esso, pile di libri riposti con cura lasciavano intendere che aveva finito i suoi svaghi. Le pareti bianche erano ricoperte di formule, melodie e disegni, tutto ciò che l’aveva colpito in quei libri o nelle ore dedicate agli svaghi pensati dagli scienziati.
“Come ogni giorno, dottor Watson” rispose.
“Mi hanno detto che hai superato con successo anche il test di questa settimana” gli disse, sedendosi al tavolo di fronte a lui.
“Le hanno detto che questo test mi ha annoiato a morte?”
John sorrise. La sua sfacciataggine era la più difficile da gestire, gli altri pazienti si limitavano ad essere saccenti. “Me l’hanno detto, sì.”
John poggiò i gomiti sul tavolo in metallo, avvicinandosi di poco, ma di proposito. Non riusciva a spiegarsi il buon odore che emanava da Sherlock – a  nessuno dei pazienti era concesso mettere del profumo e gli veniva distribuito del sapone inodore –, ma ne era diventato dipendente. Più restava in quella stanza e più l’olfatto vi si abituava, più sentiva il bisogno di sentire ancora quell’odore.
Sherlock lo stava studiando attentamente con i suoi occhi multicolore, resi ancora più luminosi dalle luci bianche. John si chiese se non fosse quello il motivo per cui amava le luci del laboratorio.
“Ho chiesto di lei, questa mattina” confidò Sherlock con la sua voce profonda.
Ogni volta che parlava era come ritrovarsi al buio, essere inghiottiti dalle tenebre più piacevoli del mondo.
John ingoiò il groppo di desiderio che sentiva in gola. Sentirlo parlare era una delle cose per cui si alzava al mattino. “Lo so” disse. Si impose di continuare a parlargli per poter ascoltare le sue risposte, anche se l’unica cosa che davvero voleva dirgli non gli era concessa, perché lui era uno scienziato e Sherlock il suo paziente – la sua cavia. “Hai qualche richiesta da farmi?”
“Nessuna” rispose, lasciando le labbra socchiuse.
John ingoiò di nuovo a vuoto. “Volevi farmi sapere che i test iniziano ad annoiarti?”
“No” disse, lasciando le labbra a forma di ‘o’.
John si alzò in fretta dal tavolo, scostando la sedia metallica con un’assordante suono di acciaio contro piastrelle. “Allora vado” disse, evitando di guardare ancora quelle labbra incredibilmente rosa.
“Non vuole sapere perché ho chiesto di lei?” domando Sherlock, attirando di nuovo la sua attenzione.
John lo guardò con un’espressione palesemente sofferente. Stringeva i pugni per impedirsi di cercare di toccarlo, per ricordarsi che il ragazzo non provava nulla per lui – né per altri, ed era colpa sua.
“Ti ascolto” rispose. E, dannazione, se l’ascoltava! Ascoltava ogni frase, ogni parola, ogni sillaba pronunciata da quella bocca con quella voce. E ascoltava il proprio battito seguire il ritmo della cadenza del suo tono.
“Avete fatto male i conti” mormorò affilando lo sguardo. Aspettava che John cogliesse da solo il significato delle sue parole, ma lui era troppo occupato ad ascoltare.
“Cosa?” domandò, riscuotendosi.
“Non dovrei provare nulla, me l’avevate promesso.” La sua voce si faceva sempre più bassa, costringendo il dottore ad avvicinarsi a lui. “E allora perché sento il bisogno di strapparti quel camice di dosso, John?” disse in un sussurro appena udibile.
Il dottor Watson spalancò gli occhi, incapace di credere a quello che aveva appena sentito. La stanchezza gli stava giocando un brutto scherzo? Aveva sentito male a causa del tono basso con cui l’altro aveva parlato?
Boccheggiò un istante. Non sapeva cosa fare, cosa dire, se continuare a fissarlo incredulo o uscire dalla stanza e non tornarvi mai più. Rimase lì, in piedi, immobile, ancora qualche secondo mentre Sherlock continuava a fissarlo in attesa di una risposta.
John deglutì ancora, questa volta era il panico a bloccargli la gola. “Da quanto?” chiese.
“Da quanto voglio strapparti i vestiti?” chiese Sherlock, l’ombra di un sorriso su quelle labbra.
“Da quanto provi emozioni” riformulò John, rispondendo al sorriso solo per metà.
“Da sempre” fu la risposta destabilizzante di Sherlock. “E questo risponde ad entrambe le domande” aggiunse, accentuando il sorriso.
John scosse la testa, stordito. “Ma non hai mai mostrato nulla…” Non riusciva davvero a capire.
“Ho un viso molto meno espressivo del tuo, tutto qui.”
John si chiese se volesse dire che tutte le volte in cui aveva fissato i suoi occhi arcobaleno con la voglia di annegarci dentro, tutte le volte che aveva dovuto trattenersi letteralmente dal toccarlo, Sherlock lo avesse notato; forse aveva persino sperato che cedesse.
Sherlock si alzò, non aveva mosso un muscolo fino ad allora, ma si scostò dal tavolo con la grazia di un ballerino, aggirando l’ostacolo tra lui ed il dottore con poche, lente, fluide falcate. Era la prima volta che John fantasticava sulle gambe di qualcuno, ma quei muscoli avvolti nella divisa blu scuro dei pazienti, che guizzavano ad ogni movimento, lo mandarono quasi fuori di testa.
Fece un passo indietro, passando una mano sul viso, poi la lasciò a coprire la bocca. Sherlock allungò una mano per afferrare la sua, la lasciò un attimo a mezz’aria, aspettando che lo scienziato lo lasciasse continuare o lo fermasse, ma John non si mosse, riusciva a stento a respirare. Le lunghe dita del moro sfiorarono il dorso della mano che teneva ancora premuta sulla bocca, poi la scostò lentamente e la portò alle labbra per baciarla. John si rilassò e si irrigidì al tempo stesso. Il suo braccio sembrava aver perso sensibilità dopo quel tocco leggero, ma il resto del suo corpo aspettava teso la prossima mossa di Sherlock. Questi si portò la mano di John su un fianco e si avvicinò a lui. Ora il dottore poteva sentire il suo profumo con una intensità che non aveva nemmeno mai osato sperare di poter percepire. Il respiro di Sherlock gli sfiorava le guance, provocandogli brividi lungo il collo. Quando le sue labbra finalmente sfiorarono quelle di lui, John temette di perdere i sensi, e quasi ci sperò, perché dopo aver percepito quella morbidezza nulla avrebbe più avuto senso.
Sherlock si spinse ancora di più contro il suo corpo, costringendolo ad arretrare un po’, fino a che si scontrò con lo schienale della sedia che aveva occupato fino a poco prima. La sua lingua gli sfiorò le labbra, che cedettero al primo tocco, lasciando che riempisse la sua bocca con una lentezza disarmante.
John si lasciò trascinare in quella danza di mani e bocche ancora qualche istante, prima di divincolarsi con riluttanza. Quello che stavano facendo andava contro ogni regola imposta da lui stesso, ma a preoccuparlo ancor di più era che la loro ricerca si basava su informazioni errate: se Sherlock provava ancora emozioni, quanti altri riuscivano a sentire qualcosa?
“Devo andare” disse, il fiato corto a causa di quello che era appena successo.
“I tuoi studi possono tardare ancora un po’” obiettò l’altro avvicinandosi di nuovo.
Era molto più alto del dottore, avrebbe potuto intrappolarlo senza sforzi, ma John gli posò una mano sul petto e lo guardò con sguardo supplichevole. Tutti quegli eventi erano troppo da sopportare in una volta.
“Torno il più presto possibile” promise.
Sherlock annuì. “Non vado da nessuna parte” disse ironico, scostandosi per lasciarlo passare.
John uscì di corsa, fermandosi a riprendere fiato solo quando arrivò nella sala di monitoraggio. “Merda” sussurrò, rendendosi conto che tutti, probabilmente, avevano visto quanto poco professionale fosse appena stato.
Lestrade era davanti ai computer, dava le spalle ai monitor, oscurandone la visuale. John pregò che non si fosse mosso da lì per tutto il tempo. Gli si avvicinò e lui fece un gesto di brindisi col suo bicchiere di caffè.
“Abbiamo un problema” sussurrò John.
“Non mi sembrava fosse un problema, due minuti fa” gli disse ghignando.
John divenne paonazzo.
“Non c’è di che” mormorò Lestrade, scostandosi dai monitor.
John lo guardò perplesso. Il suo collega sapeva già tutto? Era stato Sherlock ad organizzare quell’incontro? Lanciò un’occhiata al monitor che inquadrava il paziente 221B. Sherlock aveva poggiato le mani ai bordi del tavolo e guardava fisso nella telecamera. Anche da lì, avrebbe giurato John, poteva vedere i suoi occhi brillare.
Seguì Lestrade nel laboratorio e sorrise. Eliminare le emozioni di qualcuno per renderlo più intelligente era l’idea più stupida che gli fosse mai venuta.







 One shot scritta per il Drabble Week-end indetto nel gruppo We are Johnlocked.

Pur essendo stata scritta per il drabble weekend, il prompt non mi permetteva di creare una drabble o una flash, mi ha presa l'ispirazione e sono venute fuori più di duemila parole. Credo, però, che un prompt così bello sarebbe stato meglio svilupparlo con una long, cosa per cui non ho tempo al momento, ma chissà.
Grazie alla fantastica Donnie che l'ha promptata.

Red.

 


   
 
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