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Autore: Sheep01    02/12/2014    6 recensioni
E dire che gli mancavano meno di tre mesi alla pensione. Meno di tre fottutissimi mesi. Aveva programmato tante di quelle cose da fare per soffocare l’angoscia di finire come tanti ex colleghi che andavano a smaltire gli ultimi, pigri anni di vita in qualche bettola, a sfondarsi lo stomaco di whisky a giocare a carte, a raccontare le storie dei bei tempi andati, a lamentarsi del tempo e del degrado della gioventù odierna. E invece guarda un po’ che cosa gli doveva capitare.
Una di quelle robe che era sicuro di non aver visto nemmeno in Vietnam quando non era che un ragazzino irascibile, strafatto di canne. Morti ne aveva visti tanti, certo. Morti che ritornavano in vita e sembravano guardarti come fossi un cheeseburger, proprio mai.
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Atlanta: un misterioso esperimento scientifico si conclude bruscamente con un incidente dalle conseguenze inaspettate.
Nel giro di pochi giorni, un'epidemia mondiale prende a serpeggiare per il paese, cominciando a decimare la popolazione...
Genere: Avventura, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 6

 

È questo il destino della razza umana. Socievolezza. Vuoi che ti dica che cosa ci insegna la sociologia a proposito della razza umana? Te lo dico in poche parole. Mostrami un uomo o una donna soli e io ti mostrerò un santo o una santa. Dammene due e quelli si innamoreranno. Dammene tre e quelli inventeranno quella cosa affascinante che chiamiamo «società».

(L’Ombra dello Scorpione – Stephen King)

 

*

 

Tennessee

 

 

“Uscire dall’altra parte sarà un po’ come venir fuori dall’utero materno.” Barney scrutava le profondità oscure della voragine, in mano una torcia che non riusciva ad illuminare che pochi metri oltre l’ingresso. Nessuna preoccupante novità all’orizzonte, a meno che le Ganasce non si nascondessero negli anfratti del tunnel, pronte a saltar fuori come un branco di simpatici mattacchioni la notte di Halloween.

Una volta gli era persino capitato di fare uno scherzo simile, durante gli anni di formazione nell’esercito. Uno di quelli che gli erano costati una punizione esemplare. Mai che però gli fosse venuto in mente di pentirsi della decisione: ogni tanto ci sono soddisfazioni che ben valgono il rischio.

Non era sicuro però che quello fosse uno di quei pericoli che valesse la pena correre. Tanto più che a lui, quella faccenda di correre, non era mai piaciuta. Certo, arrivare ad Atlanta, rivedere gente, scoprire che forse ci sarebbe stata la possibilità di una cura o di un qualsivoglia centro di accoglienza era una prospettiva allettante, rassicurante, ma d’altro canto era un uomo con i piedi ancora ben piantati per terra (per quanto potesse esserlo una persona che si è vista precipitare in un filmaccio di fantascienza con tanto di mostri morti, in meno di un mese) e poteva anche dirsi scettico di trovare un’oasi di pace e tranquillità.

Si godeva il momento. Questa era la nuova filosofia di vita di Bernard Charles Barton, adeguata allo scenario di morte in cui erano finiti. Vivere giorno per giorno. Programmare i piccoli traguardi, racimolare abbastanza per poter vivere fino a vedere la prossima alba, il prossimo tramonto. Le prospettive che si estinguevano in piccole porzioni di vita gli permettevano di restare razionale, lucido.

E poi c’era Clint. Clint che lo costringeva a perseverare, a mantenere bassa la sua indole esuberante. A pensare al collettivo. Inizialmente Clint e solo Clint.

E poi era arrivata Natasha.

Una ragazzina ambigua e affascinante. Uno di quei personaggi che probabilmente non ti piacerebbe incontrare in altre circostanze: criptica, silenziosa e dall’aria un po’ letale.

Come se non fosse chiaro che avevano a che fare con un essere uscito direttamente da un inferno di altra natura. Aveva intravisto i suoi tatuaggi, testato la sua abilità con le armi e subito la forza della sua furia.

Natasha non era esattamente rassicurante, ma molto probabilmente l’unica persona di cui, al momento, avessero veramente bisogno.

E l’unica persona a cui avrebbe affidato l’esistenza di suo fratello.

Quanto si erano accorciate le prospettive di vita, in quella terra dimenticata da Dio? Giorni? Probabilmente settimane, ottimisticamente mesi.

Si sarebbe assicurato di mettere in salvo Clint, prima di tutto, e poi avrebbe sperato per il meglio. Saperlo in compagnia di qualcuno di fidato appariva certo meno terrificante di pensarlo solo.

Lo aveva abbandonato una volta. Non avrebbe commesso l’errore di nuovo.

“Perché, tu ricordi quando sei uscito da un utero?” la domanda di Clint, sempre a frenare il suo entusiasmo da quattro soldi.

“No. Però so per certo cosa significhi entrarci”, gli rivolse un sorriso tutto denti, mentre Natasha, dalle retrovie, soffocava una risata.

“Non è una gran battuta.”

“E tu non sei più capace di ridere.”
“Mi chiedo cosa ci sia da ridere…”

“E’ una delle poche cose che ci resta. La risata. Togli quella, che cazzo vivi a fare?”

Clint gli lanciò uno sguardo ambiguo.

Già, bè, forse non c’era niente di divertente in quella specifica battuta, ma era necessario trovare il lato comico delle cose per evitare di farsi opprimere da tutto quel terrore.

Decise che forse sarebbe stato meglio lasciar perdere.

“Ho capito, dai, andiamo.” Spronò il gruppo, rimettendo in moto. Spense la radio e si prepararono all’oscura traversata.

*

 

Tony Stark lanciava a Happy sguardi di sincero compiacimento. Come aspettandosi una reazione, se non entusiastica, quantomeno appagata.

Happy scrutava l’oggetto che aveva fra le mani nemmeno fosse un meteorite silurato sulla terra da un pianeta sconosciuto. Nemmeno fosse il guscio di uovo da cui era sbucato quel bamboccio di Superman.

Era solo un guanto. O presunto tale. Un guantone di metallo. Un guantone che, Tony era certo, sarebbe piaciuto a Happy. Non era forse stato un pugile, una volta? Tanto tempo fa. La vita prima della vita vera. La vita prima di entrare nella sua, di vita, insomma.

“E… quindi?” fu tutto ciò che ebbe da dire, dopo interminabili attimi di profondissime riflessioni.

“Quindi che?” Stark stava perdendo la pazienza.

“Quindi che è?”

“Come che è?”

“Sì, che è un guantone di metallo… lo vedo, ma a che diavolo serve?”

“Serve a… te l’ho già detto a che serve! Non prestavi la dovuta attenzione.”

“La prestavo, ma parli troppo complicato, capo, lo sai che con me devi evitare di raccontare le tue storielle cibernetiche.”

“Non sono storielle cibernetiche, uso solo il linguaggio tecnico.”

“Tecnico, cibernetico, non lo capisco. Parole chiare, concise, terra terra.”

Tony stronfiò qualcosa di incomprensibile, magari un insulto e sospirò.

“Prova a pigiare il pulsante.”

“Quale dei tanti?”

“L’unico che trovi. E fa' attenzione, non è un giocattolo!”

“Non vedo pulsanti.”

“Quello sul dorso.”

“Questo coso luminoso?”

“Quel coso luminoso.”

Happy direzionò quella sottospecie di videogioco virtuale steampunk verso la fine della strada e pigiò il pulsante. Nell’aria riecheggiò solo un sonoro click.

“Non funziona.”

“Certo che funziona. Solo non come credi tu.”

“Ah sì? Hai inventato laser invisibili?”

“In un certo senso… è un dispositivo ad ultrasuoni.”

“Ultra… ?”

“Suoni.” Gli sfilò l’apparecchio di mano per infilarselo lui stesso. “Un potenziamento di un dissuasore ad ultrasuoni... la versione perfezionata di quello che usano per la derattizzazione.”

“Ci sono dei topi qui?!” Happy cominciò a guardarsi attorno in modo piuttosto comico. Buon vecchio Happy. Per i morti viventi non faceva una piega, ma con i topi...

Ricordava ancora chiaramente quella volta che se ne erano trovati uno nella cucina di casa. Happy era intento a costruire una piramide di sandwich al formaggio, mentre Jarvis (che Dio l’avesse in gloria) avvertiva quello squittio così inconfondibile.

Tony li aveva trovati così: maggiordomo a rincorrere quel minuscolo mammifero munito di coda e Happy rattrappito su una sedia a strillar come Farinelli dopo la castrazione.

Meno male che alle guardie del corpo non veniva richiesto di deviare proiettili al topo. Tony aveva dato la colpa al formaggio. Happy aveva smesso di mangiare latticini.

“Non lo so, potrebbe darsi. Ma non è questo il punto, amico mio. Il punto è che questo è un dispositivo anti DM.”

“DM?”
“DM. Sì. Denti Marci.”

“Denti… ?”

“Marci. Sì. Cos’è? C’è l’eco qui? Denti Marci.”

“Gli zombie?” indagò Happy, con aria chiarificatrice.

“Non chiamarli così.”

“Ma è quello che sono!”

“No. Gli zombie stanno nei film horror, o tutt’al più in voga nel voodoo. Questi non sono zombie sono… Denti Marci.”

“Denti marci.”

“Esatto. Ora…” Tony assunse un’aria professionale. “Dicevamo?”

“I topi…”

“Giusto, i topi! No! Gli ultrasuoni. Gli ultrasuoni fanno da deterrente ai DM.”

“Da quando?”

“Da sempre. Ovvero da due mesi a questa parte.”

“E come lo sai?”

“Non lo so. Lo ipotizzo.”

“Lo ipotizzi.”

“Non credevo ti fossi trasformato in un pappagallo, Happy.”

Tony cominciava a registrare un leggero principio di mal di testa. Era da settimane che non soffriva di mal di testa: e chi aveva il tempo di sentirsi male? Chi aveva le energie per rassegnarsi al degrado fisico? Si massaggiò gli occhi e riprese.

“Per arrivare agli ultrasuoni si deve raggiungere una frequenza superiore ai 20000 hertz. Ci sono ancora in atto controversie scientifiche che provano l’efficacia di simili dispositivi sugli animali: insetti, uccelli… ratti. Dunque mi sono chiesto se, con qualche modifica del modello originario si potessero raggiungere dei risultati anche su… un DM.”

“Modello originario? Dunque esistono in commercio dispositivi del genere?”

“Esistono. Ma il mio è un pezzo unico, brevettato specificatamente. E poi la forma è superba.”

“E’ un guantone di metallo.”

“Non lo trovi originale e pratico?”

“Ahm… e… che hai intenzione di farne?”

“Secondo te?”

“Deterrere… deterreggere… de…”

“Allontanare i DM.”

“Oh, dici che è possibile?”

“Una volta ha funzionato. Più o meno. Diciamo che non lo so, dovremmo fare un test.” E nel dirlo direzionò il dispositivo direttamente su Happy che lo guardò terrorizzato per qualche istante, nemmeno fosse un fucile caricato ad acido muriatico, “Sentito niente?”

“N-no! Forse non funziona.”

“Funziona benissimo, ma tu non sei un DM. Appurato ciò…” Tony si guardò attorno, “dovremmo trovarne uno.”

Happy sembrò seguire la direzione del suo sguardo: nell’arco di centinaia di metri, niente altro che strade deserte, boschi e vallate a non finire. Nemmeno l’ombra di un DM.

“E’ proprio vero che quando cerchi qualcosa…”

Tony abbassò l’arma.

“Ragazzi? Che cosa facciamo ancora fermi?” Pepper era sbucata dal finestrino posteriore dell’auto, l’aria stanca, il viso pallido, ma in netto miglioramento.

“Parlavamo di DM.” Rispose Happy con aria consapevole.

“DM? Ma non erano OS?” protestò la donna, un cipiglio contrito a deformarle il bel viso.

“OS?” interrogò Happy, ora guardando Tony con aria perplessa e vagamente delusa.

“Occhi sporgenti.” Suggerì Pepper dalle retrovie, guadagnandosi un sospirone drammatico dall’uomo.

“Una rosa, con un altro nome… puzzerebbe lo stesso di morto.” Sentenziò Tony definitivo, prima di decidersi a rimontare in macchina.

 

*

 

Il pick-up sbandò in modo preoccupante quando le ruote urtarono uno dei binari.

“Merda… mi sento in una cazzo di centrifuga.”

Una cazzo di.

Tipico di Barney e del suo parlar forbito.

“Smettila di lamentarti, farà bene al tuo culone.” Lo redarguì Clint.
“Non ho un culone.”

“Ah, questo lo dici tu. Hai smesso di avere le chiappe sode da quando sei tornato a Waverly.”

“E’ meglio che non dico che cosa ha smesso di essere sodo in te, fratellino, da quando sei tornato a Waverly.”

Clint trattene male una risata. Non era vero che non sapeva più ridere. Solo cercava di evitarlo. Perché aveva compreso quanto le distrazioni potessero essere definitive. E stare in allerta non favoriva certo l’umorismo.

“Non sono sicuro dovresti ridere, Clint.”

“Non sto ridendo.”

“Stai ridendo. La tua voce dice che stai ridendo dentro. Non sta ridendo Natasha?” si rivolse alla ragazza che, per quanto era silenziosa, si sarebbe potuta dire assente dal veicolo traballante e incerto su cui viaggiavano. Il rombo del motore scandiva inquietante i metri macinati attraverso il tunnel e lei si mosse dal sedile posteriore per raggiungerli.

Il viso incuneato fra i due sedili anteriori.

“Mi sembra che abbia la stessa faccia granitica di sempre.” Commentò, definitiva e lapidaria.

Ma in quella sentenza, per la prima volta, Clint ci lesse dell’ironia. Forse, dopo quasi un mese di frequentazione, aveva cominciato a comprendere le dinamiche del gruppo.

“Non cominciare a dargli corda…”

“La bambina sa il fatto suo.”

“Non sono una bambina.”

Una sbandata su quell’ultima sentenza li riportò tutti al silenzio. C’erano momenti che non richiedevano niente altro che quello.

I fari del pick-up illuminavano mano a mano la grotta, la cui fine ancora non si vedeva.

C’erano dei graffiti, sulle pareti. Cose che, ormai, appartenevano a un’altra vita. Un po’ come scoperte di reperti archeologici di un’altra era. Quella delle bombolette spray. Bombolette spray che a nessuno sarebbe più venuto in mente di usare, se non per qualche scopo pratico, di rapido utilizzo.

Ci pensava ogni tanto: gli capitava di incastrarsi in pensieri che riguardavano il passato.

Una specie di malinconia che difficilmente sarebbe riuscito a estinguere. Malinconia per tutto ciò che aveva perso: quelle cose che non sono necessarie alla sopravvivenza, ma che durante un’intera esistenza, aiutano a creare ricordi. Bei ricordi.

Non ci sarebbero state più vacanze estive. Non quelle di Natale. Non ci sarebbero stati più film blockbuster al cinema, non un nuovo disco in uscita dei Rolling Stones. Non l’annuario della scuola. Non un ballo di fine anno. Una partita degli Iowa Hawkeyes. Non i talk show del sabato sera. Non i concerti al palazzetto dello sport.

Forse, in un futuro. Un futuro tanto lontano dalla sua immaginazione, per adesso. Un futuro di cui, sicuramente, non avrebbe fatto parte.

Il pick-up sbandò di nuovo.

“Fa' attenzione.” Suggerì a Barney, che stronfiò qualcosa di poco chiaro.

“Non ci vedo abbastanza.”

“Hai mai pensato che potresti aver bisogno di un paio di occhiali? Cominci a diventar vecchio.”

“Parla per te.”

“Io ho undici decimi. Precisi.”

“Sbruffone.”

“Ragazzi…” la voce di Natasha, improvvisamente tesa, dura.

Lo sguardo andò a dirigersi proprio sulla fine visibile del tunnel. Niente graffiti, solo sagome. Sagome… in movimento.

“Merda.” Barney aveva rallentato e poi fermato il furgoncino, senza spegnere il motore.

“Quanti sono?”

“Dimmelo tu, Undici Decimi.”

Clint focalizzò. A giudicare da ciò che stava emergendo dalle nebbie dell’oscurità avrebbero potuto essere almeno una decina.

Ma poi arrivò il rumore. Quel rumore che preannunciava le ganasce in movimento. L’eco a moltiplicare la sinfonia a percussione.

“Forse una decina… forse di più.”

Barney serrò la presa al volante.

“Una decina gestibili… il forse di più diventa un tantino preoccupante, Clint.”

Natasha, alle loro spalle, aveva già caricato l’arma e passato arco e frecce a Clint.

“Aspettiamo. Se sono più di dieci… metti la retromarcia e usciamo da qui.”

La prospettiva di atterrare una decina di quei mostri non era certo allettante. Ma non avevano certo fatto tutta quella strada per poi essere costretti a una disastrosa ritirata. C'era adesso una flebile luce alla fine del tunnel: quanto poteva mancare?

Assottigliò lo sguardo. Undici. Erano già undici le sagome che riusciva a individuare.

Dodici. Tredici.

Tredici.

Tredici.

Attese.

Tredici.

Definitivo.

“Barney…” lo preparò, mettendolo in allerta, “Parti a tavoletta.”

Il rombo del motore fu così violento che disintegrò come cristallo lo schiocco delle ganasce.

 

*

 

Virginia

 

Non si era fatto domande quando gli avevano gridato di salire a bordo.

Non se ne era fatte quando i motori delle Harley, che inizialmente erano un concerto di almeno cinque strumenti, si era assottigliato a due soli.

Né quando il centauro biondo, massiccio come un carro armato, aveva spento la moto, l’aveva scagliata di lato in mezzo a un gruppo di cespugli ed era scoppiato in lacrime, senza vergogna –  se per lo sfregio alla cromatura o la perdita dell’intera squadra, quello non seppe dirlo. Non subito almeno.

Bè, forse il fatto che si fosse emozionato a veder trascinare a terra, uno dopo l’altro tutti i giganti che lo avevano accompagnato fino a quel momento, non era esattamente uno di quegli spettacoli che ti innescano il buon umore.

Domande su come evitare che i suoi singhiozzi divenissero facile richiamo per altri mostri schioccanti, gli risalirono su per il cervello con una certa insistenza. Ma optò per la diplomatica opzione di lasciare Thor nel suo brodo a smaltire l’amarezza, beandosi, di contro, che il triste fato dei suoi compagni non fosse toccato a lui.

Solo un altro membro del gruppo era riuscito a trascinarsi fuori da quell’imprevisto attacco (imprevisto per loro, branco di ottusi sordi, lui aveva sentito arrivare quei mostri molto prima che potessero anche solo rendersi conto che non stavano partecipando a un rave party campagnolo). L’unica donna. La valchiria acida che non aveva fatto altro che scoccargli occhiate di fuoco dal momento in cui lo avevano accolto nel gruppo. Non aveva nascosto a nessuno il fatto che lo reputasse un peso, inutile e gracilino com'era. Un peso che li avrebbe rallentati, che li avrebbe condotti esattamente a quel punto.

E anche adesso, che la giunonica Sif cercava di raccattare i fragili pezzi dell’immenso, piagnucolosoThor – stringendolo in uno di quegli abbracci che tutto sembravano fuorché meramente consolatori – non si risparmiava di rivolgergli sguardi accusatori e feroci.

Loki pensò bene che restare in disparte sarebbe stata la soluzione più appropriata per evitare qualsiasi tipo di grana. Finché avrebbe fatto parte di quel gruppo, tanto valeva sfruttare la loro protezione.

 

Fu solo tardi, quel pomeriggio, che lo scontro non poté essere rimandato, non più evitato.

Thor, vinto dalla spossatezza di quell’inconsolabile pianto, aveva deciso di scacciare il pensiero fisso del lutto collettivo, andando a cercare di mettere insieme qualcosa per cibarsi: le provviste faticosamente guadagnate, si erano sparpagliate per strada o in balia di cannibali morti, insensibili al fascino del bacon.

Sif, che solo un attimo prima sembrava del tutto presa a fare un inventario delle cose rimaste, lo aveva avvicinato a tradimento, nei pressi di quella misera pozza d’acqua a cui era andato ad abbeverarsi e a tergere le vesciche ai piedi che – ad occhio e croce – ci avrebbero messo almeno una settimana a guarire.

Stava valutando se raccontare che in fondo, in mezzo alla vegetazione, aveva intravisto quella che sembrava una casa, nel bosco (un dettaglio da film horror che faceva un po’ troppo cliché anche per  i suoi gusti), quando avvertì una presenza incombere su di lui, senza nessuna avvisaglia.

“Come facevi a sapere che stavano arrivando?” la voce di quella donna, decisa, accusatoria, lo fece trasalire.

Ma non si voltò, se non all’ultimo minuto, ritrovandosi a scontrarsi con la muscolatura massiccia delle sue cosce, fasciate da un paio di stretti jeans stinti, strappati al ginocchio.

Si prese del tempo per rielaborare una risposta.

“Li ho sentiti.” Rispose, del tutto determinato a rivolgere tutta la sua più vivida attenzione a quella particolare parte anatomica pur di evitare un confronto diretto che, in quel preciso momento, si sentiva più che giustificato ad eludere. La donna sembrava sul piede di guerra e Loki non era incline alla violenza. Non a subirne, più che altro.

“Come è possibile che non ci siamo accorti di niente?” di nuovo una domanda che assomigliava più a un’accusa.

“Magari… non vi foste distratti a cucinare bacon e uova fritte a colazione…” si rese conto di aver azzardato, regalato una scintilla a quella miccia, nel momento in cui il ginocchio sparì dalla sua visuale privilegiata. Un paio di mani, callose, forti, lo strattonarono per la collottola della divisa sgualcita. Il rumore dello strappo a sottolineare drammaticamente il momento: erano gli unici vestiti che possedeva.

Si trovò a specchiarsi negli occhi chiari di quella femmina vendicativa. Occhi che lo puntavano accusatori, carichi di odio e ribrezzo, ma che brillavano ora di lacrime che, era sicuro, non avrebbe pianto.

“Non fosse stato per te, per la tua inutile carcassa… non ci saremmo mai fermati in quella stupida radura.”

Superato il momento di sconcerto, Loki le restituì lo sguardo affilato, affatto disposto a darle un pretesto per usarlo come capro espiatorio a quella sua patetica causa.

“Non fosse stato per me, tu e il tuo fidanzato sareste crepati, esattamente come tutti gli altri.” Le sibilò a un centimetro dal viso, il suo alito caldo a solleticarle la pelle.

Vide gli occhi di lei dilatarsi, fino a diventare bianchi, enormi.

“Tu sei sporco. Sporco dentro…” la sentì rispondere, le mani che tremavano, lo sguardo terribile. A leggere qualcosa che lo stesso Loki non riusciva a identificare. Uno sguardo che arrivava in profondità. A sviscerare l’essenza di quella sua natura perversa che non era ancora preparato ad accogliere.

Li aveva salvati. Li aveva avvisati. Non fosse stato per lui… non fosse stato per lui sarebbero morti proprio tutti quanti. Non c’era perversione in quello, era stata una mossa d’altruismo bella e buona, una mossa d’altruismo dettata da quel dono che…

Dono. La parola gli si era formata nella testa, prima ancora che il suo significato fosse apparso in modo consapevole.

Era un dono, quello di averli sentiti arrivare.

Il formicolio alla nuca, quella pressione alle tempie. Il rimbombo sordo di quel concerto di schiocchi. Qualcosa nel suo cervello reagiva a quei mostri. Non era forse in quel modo che era riuscito a evitarli durante la fuga attraverso il carcere? La capacità di focalizzare sulle loro mosse con una chiarezza disarmante. Al modo in cui aveva capito, immediatamente, quale era la chiave che gli avrebbe restituito la libertà, come se uccidendo la guardia avesse assorbito anche la sua coscienza. O quello che ne era rimasto. Allo stesso modo con cui aveva fatto con tutti gli altri. E più massacrava teste, e più questo istinto, questa consapevolezza, si faceva nitida. La loro presenza diventava parte integrante del suo essere, così come gli schiocchi, così come…

Stronzate.

Non aveva mai creduto a queste stronzate paranormali.
Era però anche vero che non avrebbe mai creduto di potersi trovare ad affrontare quella sottospecie di abominio umano. Gli unici demoni in cui aveva sempre creduto erano quelli sopiti, sussurranti, nelle viscere della sua coscienza.

E adesso era qui a domandarsi se Sif non avesse ragione, se quel suo essere sporco dentro significasse anche essere investito di un dono che lo faceva empatizzare con quei cosi morti.

Perché in fondo, un po’ morto dentro, ci si sentiva anche lui. Da così tanto tempo che… uccidere una persona, un giorno di qualche mese prima, non gli era sembrato poi il peggiore dei peccati.

Si sentì strattonare di nuovo e solo allora tornò a focalizzare sul presente, sulla donna che lo teneva stretto nella sua morsa, sul suo alito caldo, il suo sguardo di disprezzo… e quel pugno che vibrava a un centimetro dal suo viso.

Si preparò al colpo, sperando che non gli facesse troppo male. O che quantomeno minasse alle sue parti molli.

“Che sta succedendo?”

La provvidenza agisce sempre nei modi più inattesi.

Il gigante biondo di ritorno: “Sif… che stai facendo?”

La presa venne meno e Loki fu libero. Libero di distogliere lo sguardo dall’ennesimo abbraccio disperato. Libero di tornare a valutare o meno se raccontare di quella casa… nel bosco.

“Il sole sta tramontando. Dovremmo trovare un posto per dormire…” sentì mormorare al gigante, quando si fu estinto l’ennesimo slancio da tragedia.

La soluzione al suo tormento valutativo gliel’aveva data lui.

“C’è una casa… laggiù.” Disse Loki.

“Una casa?”

“No… una chiesa.”

La croce. Come aveva fatto a non notare… la croce?

La salvezza arrivava proprio dall’alto, stavolta.

 

*

 

Tennessee

 

Avrebbero dovuto saperlo fin dall’inizio che una situazione del genere li avrebbe condotti direttamente attraverso la bocca dell’inferno, eppure non avevano tentennato un solo istante.

I contro della situazione, disintegrati, uno dopo l’altro, da quell’aura da filo del rasoio di cui i Barton sembravano essere circondati.

La stessa identica aura spericolata che l’aveva sempre caratterizzata, dal giorno in cui era cominciato il suo primario addestramento, nella fratellanza.

Uccidere zombie sembrava essere diventato un passatempo. Un po’ come in quei videogiochi in cui l’unico scopo è quello di concludere una missione e portare a casa punti. Senza venire ucciso, possibilmente.

Clint ne aveva contati tredici. E quei tredici si erano schiantati sul cofano del pick-up, fragili e polposi come una manciata di moscerini particolarmente grossi.

Ma mentre Barney spingeva sull’acceleratore e con il tergicristallo lavava via tutta quella merda di denti, cervella e budella, lasciando strisciate nauseabonde sul parabrezza, ne erano comparsi altri.

E stavolta nessuno ebbe tempo o cuore di contarli. Erano troppi e contarli avrebbe voluto dire perdere secondi preziosi per mettere da parte un po’ di quell'istinto di sopravvivenza di cui avevano decisamente bisogno.

Clint, arrampicato sul tetto della macchina, si occupava di quelli a distanza che solo lui riusciva a vedere. Dotato di una mira straordinaria, certo, ma anche di una vista che aveva un che di miracoloso. Sullo sfondo si poteva intravedere la fine del tunnel. Mai era sembrata loro così distante.

Natasha si era sbarazzata facilmente di quelle… Ganasce che avevano azzardato mosse troppo ravvicinate, e Barney – a chiudere il cerchio più vicino – scagliava fendenti feroci e letali a chiunque si estendesse nel raggio di un metro.

Una squadra piuttosto organizzata, doveva proprio ammetterlo. Una familiarità che, in altri contesti, in altri momenti, le sarebbe sembrata del tutto fuori di testa.

“Ce ne sono altri là dietro!” sentì gridare Clint, da sopra la macchina, mentre lei atterrava almeno un paio dei morti rimasti in vista dopo lo scontro frontale con il loro veicolo.

Barney gorgogliò qualcosa in risposta, una frase che decretò improvvisamente la sua imminente sconfitta. Natasha lo vide cadere a terra, sopraffatto da un numero imprecisato di braccia e gambe che si dimenavano senza criterio.

“BARNEY!” aveva gridato Clint, lacerando l’aria, mentre Natasha saltava giù dal retro del pick-up per accorrere al disastro. Un paio di colpi andarono a segno con la pistola. Un altro paio con calci ben assestati alla base della nuca, della fronte. La furia di un paio di gambe tanto efficaci con i vivi quanto con i morti.

Si sentì sibilare accanto il fischio di un dardo che finì per atterrare uno dei mostri che le si stavano scagliando addosso. E poi un altro. E poi Barney emergeva da quel nugolo di corpi marcescenti, boccheggiando come alla ricerca di aria, congestionato dopo la dura lotta per la sopravvivenza.

Si avventò contro quello che ancora masticava un brandello della sua camicia a quadri, che agitava le ganasce, facendo schioccare quel nauseabondo clack, clack, clack. Gli afferrò la testa molle fra le mani. Un colpo secco, definitivo a rigirargli il collo come fosse fatto di burro. Crollò a terra per scendergli con tutto il peso sulla testa, a veder grumi di cervella sparpagliarsi un po’ dappertutto.

Allungò una mano e aiutò Barney a rimettersi in piedi.

“Ti hanno morso?”

“No, non credo, forse ne ho morso uno io…”

Lo sguardo di gratitudine non durò che un secondo. Gli schiocchi. Quella miriade di schiocchi, assordanti più del sibilo delle frecce infinite di Clint Barton.

Uno stupido tunnel.

Una fine, se non altro, appropriata. Una conclusione da stereotipo. La luce alla fine del tunnel a decretare la morte imminente.

Una liberazione.

Certo avrebbe preferito poterselo scegliere, come morire. E quello era l’unico scenario che non aveva mai ipotizzato.
Clint era sceso dal pick-up, a dar manforte al duo.

Schiena contro schiena, in una triade assassina. Non sarebbero durati molto a lungo.

Era stato bello… finché era durato.

Forse persino meglio di quanto non fosse mai stato appartenere al gruppo di Ivan.

Non c’erano mai state pressioni, mai pretese. I compiti non erano obbligatori, la finzione neppure.

Si era sentita parte di una famiglia. Una di quelle vere. Una di quelle che non scegli, ma con le quali ti senti al sicuro.

E anche lì, in mezzo a quell’apocalisse di corpi senz’anima, anche lì, nel flebile confine che separa la vita dalla morte, fra il rumore degli schiocchi e degli spari e del disgustoso rimestio di membra sgocciolanti, si sentiva, in qualche modo… al sicuro.

 

Era talmente concentrata che quando vide cessar improvvisamente gli assalti, dovette farsi violenza per smetterla di sparar cartucce dalla pistola ormai incandescente.

“C-che sta succedendo?”

Le ganasce sembravano improvvisamente disorientate. I loro sguardo vacui, spaventosi, a cercar qualcosa nell’aria, qualcosa di invisibile e silenzioso.

Le mani non si protendevano più nella loro direzione. Le mascelle avevano ricevuto la loro sacrosanta tregua. Alcuni presero a barcollare. Altri ad allontanarsi, a lasciar loro spazio a restituire ai vivi il respiro.

Lentamente, cominciarono a dissiparsi come uno stormo di uccelli allo sparo del cacciatore. Un nugolo di corpi, costretti alla retrocessione forzata. Alla (non era sicura di voler azzardare la parola) fuga.

“Se ne vanno…” Barney, forse più incredulo di lei. La camicia lacerata sul petto, una manica a penzolar inerte al suo fianco, come il costume assurdo di quei Tarzan dei film anni cinquanta.

Natasha abbassò l’arma, confusa e intontita per l’improvviso calo di adrenalina, e si trovò a fissare lo stormo di Ganasce che si davano alla macchia, lasciandosi inghiottire di nuovo dall’oscurità del tunnel da cui erano partiti.

Solo Clint era rimasto fermo. La schiena rigida, il dardo puntato in una qualche direzione, verso la luce.

“Rimanete dietro di me.” Un ordine, perentorio e duro.

Natasha seguì la direzione del suo sguardo, della punta della sua freccia. E dopo essersi abituata alla luce aveva visto.

Due sagome, che avanzano verso di loro. Due sagome che procedevano lentamente, senza tentennamenti. E sembravano tenerli sotto tiro con qualcosa. Un’arma.

Ma un’arma… non avrebbe dovuto essere roba da vivi?

 

___

 

Note:

Eccoci a dover fare i conti con un altro gruppone di schifosissimi zombie, e ahimè, le prime vittime dell’Apocalisse. Loki raggiunge la consapevolezza di avere qualcosa in più degli altri (e scopriremo in che modo poi deciderà di sfruttare la cosa), Natasha apprende quel senso di appartenenza che la lega al gruppo dei Barton, mentre Stark comincia a ingegnarsi per contrastare la follia. Il fatto che usi gli ultrasuoni è una trovata del tutto mia. Io non ne conosco di zombie per chieder loro se è vero che il loro cervello reagisce male agli ultrasuoni, ma ho pensato che potesse essere interessante paragonare l’istinto che li spinge a quello degli animali.

Il blocco ancora non si è estinto del tutto, temo. Sono stata obbligata a scrivere roba per un lavoro e la cosa mi ha un po’ sbloccato il neurone. Spero si estenda anche alle fan fictions. Ringrazio al solito la mia socia e beta Sere, e chiunque mi abbia seguito fin qui, con una nota affettuosa a chi ha espresso la sua solidarietà per il periodo stitico. Alla prossima!

  
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