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Autore: thyandra    02/12/2014    3 recensioni
[Spoiler A choice with no regrets ch 7-8]
"Dicono che a tutto si faccia l'abitudine, prima o poi, persino alla guerra. Dicono che prima o poi, tra tutti quei morti e tutto il senso di colpa di chi sopravvive, si finisce per perdere la ragione, insieme alla speranza. Dicono che con gli occhi pieni di morte, la mano diventa più forte, perché agisce per abitudine, per rassegnazione, e ogni umanità va a farsi benedire. Ci sono soldati che bramano quella forza, non sapendo che è la debolezza più grande. Dicono che li renderebbe immuni alla paura.
Chi abbia sparso la voce non lo si dice, però, perché tutti sanno che in questo mondo non si vive abbastanza da abituarsi alla morte, ma si muore abbastanza d'abituarsi alla speranza.
"
Ciò che l'umanità non sa, quando lo chiama il soldato più forte, è che vivere più a lungo di tutti significa anche soffrire più a lungo di tutti, perché per diventare un superstite bisogna prima vedere la morte dei propri compagni.
Levi POV. [Rivetra; accenni LevixIsabel]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eren, Jaeger, Hanji, Zoe, Isabel, Magnolia, Petra, Ral
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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The light behind your eyes


 

Il problema di avere una mente sempre abituata a pensare alla possibilità peggiore è che non c'è un maledetto modo per farla smettere. Neanche di notte.

Soffro d'insonnia da quando ero un moccioso che rubava la saccoccia ai soldati della polizia militare, giù nei Sotterranei, ma non mi ha mai infastidito più di tanto, finché a quella non si sono aggiunti i fottuti fantasmi.

Non sono tipo da dire le cose per metafore: so di meritarmi un cervello infestato, credetemi, lo so, ma quel che mi fa incazzare è l'ironia da quattro soldi della mia testa deviata; sorridono, tutti quei morti; sorridono ogni volta che chiudo gli occhi, come volessero sfidarmi a trovare sonno, loro che non possono fare nient'altro che dormire coi vermi, ad esser fortunati, o con le budella d'un titano.

La pazzia non mi ha mai spaventato; sapete, ho visto cose peggiori al mondo, cose che farebbero impazzire chiunque altro. Il punto, forse, è proprio questo: forse sono già pazzo. Forse bisogna esserlo, per guardare la morte in faccia ogni giorno e continuare ad andare avanti come se ci fosse ancora speranza.

Ma io, in quella fottuta speranza, ci ho puntato tutto. Sin da quando del mondo conoscevo solo il sudiciume dei Sotterranei e la speranza non potevo permettermela, perché non portava il pane nello stomaco secco e vuoto. Sin da quando ho capito che non avevo altra possibilità di vivere un altro giorno, io a quella dannata speranza ho finito per aggrapparmici come un pezzente.

Se non altro, lo dovevo ai loro fottuti sorrisi.

 

x.

 

"Dimmi, Levi," cinguetta la quattrocchi in un tono molto più acuto del necessario, mentre sorride come un'idiota. So cosa sta per dire; l'anticipo.

"Non hai un rapporto da scrivere, Quattrocchi?" dico, atono, appurando la mancanza di tè nero per poi prenderle la caraffa dalle mani e versarmi tutto il caffè rimasto. È già una brutta giornata.

Lei non batte ciglio. "Può aspettare!"

Percepisco distintamente il lungo, basso sospiro di Moblit a qualche passo di distanza. Finirà per scriverlo lui per lei, ci scommetto la prossima scorta di tè nero.

"Sul serio, Levi" insiste lei. "Quando incontrerò la tua nuova squadra?"

"Presto" rispondo brevemente, bevendo un sorso di caffè. Aggrotto le sopracciglia. Ho dimenticato di aggiungere lo zucchero ed ha un sapore di merda. Ne do la colpa alla quattrocchi, lanciandole un'occhiata omicida appena vedo il suo sorriso allargarsi. Lei mi porge lo zucchero e mi guarda con aspettativa, chiaramente insoddisfatta dalla mia risposta precedente. Appoggia il mento sui palmi aperti, i gomiti sul tavolo.

Mi prendo del tempo per risponderle, divertendomi della sua crescente impazienza. Aggiungo lo zucchero e prendo qualche sorso, riluttante, prima che la sua stupida faccia sorridente cominci a seccarmi.

"D'accordo" mi arrendo. "Durante la prossima spedizione."

Non c'è niente da essere entusiasti, penso, mentre continuo a bere il mio caffè.

 

 

x.

 

Saper giudicare una persona con una sola occhiata è un'abilità che richiede anni di pratica. Sbagliare valutazione può essere pericoloso, può costarti il culo nel peggiore dei casi, ed è una lezione che ho imparato bene, nel tempo. Certe cicatrici non scompaiono.

Negli anni in cui ho vissuto nelle fogne, quest'abilità è stata il danno collaterale che la mia mente ha accettato di subire, pur di avere una bella vista sulla direzione in cui girava il mondo. Una mente deviata era un piccolo prezzo da pagare, se significava sopravvivere un giorno di più in quel letamaio, se significava restare vivo a scapito di quei maiali che si rotolavano nelle loro ricchezze, su in superficie, mentre noi dormivamo nei vestiti caldi del sangue d'un poveraccio trovato morto in un angolo, senza manco un sorriso a tirar meglio la pelle su quelle ossa rese malferme dalla povertà.

Saper osservare era l'unico modo concesso alla preda per diventare cacciatore; quindi affinai la mia tecnica, nell'ombra e nel sudiciume.

Con gli anni, cominciai a sbagliare sempre meno, fino a non sbagliare affatto.

Un'occhiata, ecco tutto. Vi sorprenderebbe sapere quanto sappiano parlare gli occhi. Se cerchi la verità, non chiederla: guarda dritto negli occhi. Gli occhi non perdono tempo a rifilarti stronzate.

Io la capii quando la guardai nei suoi.

Quando vidi il suo sorriso fiducioso seppi che era ancora una mocciosa; che malgrado reggesse in mano delle lame gemelle identiche alle mie, ancora macchiate di quel sangue denso mezzo evaporato, non conosceva ancora il sangue vero, quello che insudicia i vestiti col suo puzzo metallico e che sporca per sempre le mani e la coscienza.

Quando vidi quella breve scintilla d'ammirazione nei suoi occhi ancora giovani, capii. Avevo già visto quegli occhi innumerevoli volte. Li avevo visti chiudersi anche di più.

Lei probabilmente pensava d'amarmi. Potevo dirlo dal modo in cui il suo sguardo s'inteneriva, quando incontrava brevemente il mio; lo vedevo dalla nota di rispetto che assumeva quando era seria; lo intuivo dalla forza in cui stringeva l'elsa delle sue spade, quando le ero vicino. Io ero il suo eroe.

Petra aveva gli stessi occhi di Isabel.

Aveva scelto d'amarmi, sapendo che amare, in questo mondo, significa cedere il passo al coraggio.

E lì, avevo preso la mia decisione, su due piedi: le avevo voltato le spalle, vietandole i miei occhi. Il vento aveva catturato il mio mantello, dando l'illusione che le ali dipintevi sopra fossero vere.

Gli eroi sono troppo idealisti per esistere in quest'inferno, avevo pensato, io combatto per sopravvivere, come ho sempre fatto. Un eroe non spezzerebbe mai il cuore di nessuno.

Io non lo sono e non ho intenzione di diventarlo, perché per essere eroi bisogna dimenticare la paura. Essere il soldato più forte dell'umanità, al contrario, significa conoscere bene la paura, e benedirla in nome della sopravvivenza.

Ed è proprio perché lei non ha paura, che io devo averla per entrambi.

 

x.

 

Essere tirati su da un assassino, da quando non ci si sa allacciare le scarpe da soli a quando le scarpe le si fa a qualcun altro, uccide la paura sul nascere. Almeno, questo è quel che mi dicevo da ragazzino quando vedevo Kenny pulire il sangue rappreso sul suo coltello sui pantaloni, prima di tagliare il pane che metteva in tavola. Adesso, a pulire quel sangue sono io, ma non ho dimenticato il senso di vuoto alla bocca dello stomaco che si prova nell'assistere alla soppressione di un istinto umano tanto primordiale quanto la paura, quel senso di alienazione che da' la consapevolezza di star diventando sempre più affine ai morti, per la propria incapacità di sentire alcunché.

Non ho dimenticato l'orrore che accompagna quella consapevolezza, e non permetterò anche ai loro occhi di diventare opachi, insensibili. Di coltelli ne uso due, senza mai confonderli, così come di facce, per loro, continuo a usarne due.

Ma lei ha scelto d'ammirare quella sbagliata e non serve a niente chiamarla stupida quando lei incanta il disco su quello stupido, insensato "Fratellone".

Non è il sangue a tenerci uniti e non lo sarà mai, fintanto che a riporre il coltello nello stivale sarò io, senza mai lasciarlo toccare ad Isabel.

È troppo giovane per capire che non c'è un cazzo da ammirare in un assassino, anche se questo t'ha salvato la vita a sangue freddo, perché per farlo ha dovuto mandarne a bruciare all'inferno un'altra.

 

x.

 

Nella mia vita ho visto un casino di morti, anche prima di imparare a temerli o a conoscerli come esseri umani e non solo bocche che m'avrebbero rubato il pane, se non fossi stato più rapido di mano di loro. Ho visto così tanti morti da perdere il conto, se anche l'avessi mai iniziato. Ho visto morti da quando ho memoria e quello è un sacco di tempo, da contare con dita sporche di sangue con griglie su una parete rocciosa. A volte mi sento vecchio, rifacendo il conto, pensando a quanti anni potessero avere tutti insieme.

Conosco decine di modi diversi per far morire una persona e ne ho sperimentati parecchi, sotto le unghia incrostate d'un sangue di cui Kenny rideva e di cui io non sentivo ancora il puzzo, perché mi sembrava una legge del mondo.

Per questo oggi sono un buon soldato: perché ho visto abbastanza morte in giro per questa gabbia sotto al cielo da imparare a non battere più ciglio.

Il soldato più forte dell'umanità, mi chiamano, come se fosse un grado militare di cui andar fieri. A quanti compagni devi sopravvivere, prima di diventare il soldato più forte, quanto orrore devi sopportare, per diventare caporale e vedere i tuoi migliori soldati crepare malamente prima di te, perché loro non erano forti abbastanza, per l'umanità? E come se non bastasse, vederli poi venire subito dimenticati, perché le mandibole enormi di quelle facce di cazzo fanno troppa paura alla gente comune, perché si possa accettare la loro esistenza sul nostro mondo.

A quelle stesse mandibole sudice ho votato le mie ali della libertà, anni fa. Perché la smettessero di sorridere alla faccia nostra, formiche, rimaste intrappolate in un formicaio annegato. Perché non dovessi più vedere morte e morte soltanto. Perché fossi l'unico pazzo rimasto a questo mondo a conoscere il sapore del sangue.

Così spero, spero ogni giorno; spero ogni notte; spero ogni volta che prendo tra le mani le impugnature delle mie lame gemelle, invece del coltello lucidato per far venir via il sangue rappreso: spero di fare la scelta giusta.

Ma finora non sono stato così tanto fortunato; ho visto un sacco di morti, talmente tanti da dimenticarne persino le facce, se non quando l'insonnia me le fa ricordare in ogni smorfia sofferente in punto di morte.

Ma il viso di quella che sto guardando adesso so che non potrei dimenticarlo, perché ad ucciderla è stata la mia scelta, non la legge di sopravvivenza, non la speranza.

I suoi occhi sono ancora aperti ed è questa realizzazione che mi colpisce come un pugno allo stomaco. Le sue ali della libertà si agitano sulla sua schiena, ma sono ancora tenute strette da quella gabbia verde di dannatissimo dovere.

So di aver fatto la scelta sbagliata e so che non potrò mai più chiedere perdono agli occhi di Petra, perché neanche me la merito, quella grazia.

I miei arpioni trovano uno degli alberi vicini, mentre mi allontano da lei senza averle neanche calato le palpebre, senza neanche essermi avvicinato a quel suo corpo fragile, rivoltato all'indietro come un calzino vecchio.

Non voglio guardarla negli occhi adesso, perché non l'ho mai voluto fare prima, e lei lo sapeva.

Non voglio vedere la speranza morta insieme al suo sguardo, non di nuovo.

 

 

x.

 

L'unica cosa che riesco a pensare, guardando quegli occhi verdi, morti, è che non hanno perso la speranza.

Quel pensiero mi colpisce peggio d'uno schiaffo, mentre il mondo attorno a me è solo pioggia, maledetta, dannata, impenetrabile pioggia.

La pioggia che m'ha obbligato a scegliere. La pioggia che è l'unica cosa che gli occhi di Isabel stanno ancora osservando. La pioggia che sta annegando il cadavere mutilato di Farlan, che non m'ha rimproverato per non averlo ascoltato, ma ha solo alzato la mano in un ultimo saluto, la morte già negli occhi disperati.

A che cazzo è servito tutto il nostro lavoro, adesso?

È l'unica cosa che riesco a pensare chiaramente, mentre la furia che brucia tra le mie vene uccide quei cazzo di titani. Non voglio che vedano. Non voglio che li prendano. Li voglio vedere morire soffrendo, come sono morti Isabel e Farlan.

Che l'umanità fosse debole, io l'avevo sempre saputo. Anche prima di vedere il mondo esterno, anche prima di salire in superficie. Io la vedevo ogni giorno, quella debolezza. La leggevo negli occhi di ogni essere umano. Sono sempre stato bravo, a leggere negli occhi.

L'umanità era nata debole perché non riusciva a negarsi ciò che non poteva avere: speranza.

Io non avevo mai creduto in quella parola; era solo quello, per me, nient'altro che una parola. Non l'avevo mai conosciuta sulla mia pelle e questo mi bastava a non fidarmici.

Però... l'essere umano è debole.

Dagli qualcosa e lui ti chiederà di più, avido peggio di uno stronzo corrotto della polizia militare.

Togligli tutto e comincerà ad ignorare la paura, perché non avrà più nulla da perdere, come noi.

In entrambi i casi, quel piccolo, patetico essere umano comincerà a sperare. Così come ho fatto io.

Non avevo paura di strisciare in quella corruzione, perché ero un verme anch'io. Non avevo niente da perdere, perché non avevo niente di niente.

Ma poi, all'improvviso, ho avuto loro due; e ho cominciato a desiderare di più.

Il cielo, ieri notte, era meraviglioso. Era da tempo che non lo guardavo davvero, da lì sopra, e non da un buco sul soffitto delle fogne. C'erano un sacco di stelle ad illuminarlo meglio d'ogni torcia ad olio e probabilmente i ragazzi non avevano mai visto tanta libertà tutta insieme. Se la meritavano, avevo pensato, se la meritavano, perché nessuno merita di vivere tutta la vita come un verme.

So che la pioggia non maschera le mie lacrime, quando abbasso le palpebre alla testa mozzata di Isabel.

 

 

x.

 

Dicono che a tutto si faccia l'abitudine, prima o poi, persino alla guerra. Dicono che prima o poi, tra tutti quei morti e tutto il senso di colpa di chi sopravvive, si finisce per perdere la ragione, insieme alla speranza. Dicono che con gli occhi pieni di morte, la mano diventa più forte, perché agisce per abitudine, per rassegnazione, e ogni umanità va a farsi benedire. Ci sono soldati che bramano quella forza, non sapendo che è la debolezza più grande. Dicono che li renderebbe immuni alla paura.

Chi abbia sparso la voce non lo si dice, però, perché tutti sanno che in questo mondo non si vive abbastanza da abituarsi alla morte, ma si muore abbastanza d'abituarsi alla speranza.

Quando ho guardato per la prima volta dentro gli occhi di quel ragazzino, ho saputo d'aver ragione.

Furia, ecco cosa animava quelle pupille verdi.

Ma è stato solo dopo aver perso la mia intera squadra, che ho capito qual era la loro vera forza, al di là della rabbia, del potere dei titani che gli ribolliva nel sangue.

Erano occhi che non volevano arrendersi, quelli. Occhi che avrebbero combattuto fino alla fine.

Erano occhi forti, quelli dell'Ultima Speranza dell'umanità.

"Ehi, Levi" mi dice la Quattrocchi. "Pensi che ce la faremo, con Eren dalla nostra parte?" So che ha in viso un'espressione d'entusiasmo maniacale e non incontro il suo sguardo, fissando invece il mio riflesso sulla superficie bollente del tè nero. Il mio riflesso guarda me.

Eren ha gli stessi occhi che avevo io, penso. Sì, ce la faremo.

 

x.

 

 

Il problema di avere una mente sempre abituata a pensare alla possibiltà peggiore è che col tempo si perde la capacità di piangere, dopo aver scoperto che non porta alcun sollievo.

Ho sempre sofferto d'insonnia, nella mia vita, non è una novità per me ritrovarmi fin troppo sveglio tra le lenzuola, fino alle prime luci dell'alba, guardando fisso dentro quegli occhi ormai morti e quei sorrisi ancora vivi.

Conosco i nomi di tutti i miei fantasmi e non ne ho mai dimenticato neanche uno.

Mi passo una mano sugli occhi cerchiati, salutandoli anche stanotte. A volte mi chiedo se cambierebbe qualcosa, se fossi ancora in grado di piangere.

Con un sospiro, mi metto a sedere sulle lenzuola disordinate. Quegli stronzi continuano a sorridermi, mentre io cammino lentamente tra le stanze silenziose, cercando di non svegliare nessuno. Ho bisogno di una boccata d'aria fresca.

La luna è ancora alta nel cielo altrimenti nero come l'inchiostro. Mi prendo qualche minuto per osservarla, cercando di calmare i miei nervi. E' una routine a cui sono abituato, ormai. Quanti anni sono passati, dalla prima volta?

Un tempo la notte non mi dispiaceva. Non era poi così male, dato che quegli ammassi di sterco gigante non trascinavano i loro culi enormi in giro per il nostro mondo, di notte. Se uno si sforzava, poteva anche immaginare che non esistessero affatto.

Io non ci ero mai riuscito.

Il cielo è pieno di stelle, come quella notte in cui lo guardai insieme ad Isabel e Farlan. Sono così luminose da riflettersi sull'oceano sottostante, persino con le luci artificiali che coronano la costa di Miami chiaramente visibile dalla villa.

Mi passo una mano tra i capelli, respirando a fondo nel tentativo di far tornare il cuore dentro la gabbia toracica e non fuori a farsi una passeggiata notturna al chiaro di luna. Mi dico che ormai è inutile farsi infestare la mente dai rimpianti, come se non lo sapessi già.

Un paio di braccia sottili mi avvolgono in un abbraccio da dietro e giuro che per un attimo la mano è corsa al fianco, dove una volta stavano le lame.

Ottimo controllo, Levi, penso tra me e me, abbandonandomi tra le braccia di lei, come se nulla fosse. Come se lei non avesse capito all'istante dove la mia mente malata stava già andando a parare. Come se non conoscesse bene quel luogo.

Lei si dondola da un piede all'altro, rassicurante, stringendomi stretto e poggiando il naso sulla mia spalla, senza dire niente. C'è solo il suono del suo respiro sulla mia pelle, e entrambi sappiamo che non mi ci abituerò mai.

Inaspettatamente, sono io a rompere il contatto per primo, sciogliendomi dalla sua stretta per guardarla negli occhi. Il tempo sembra dilatarsi all'infinito, mentre i miei muscoli s'irrigidiscono nuovamente, inseguendo pensieri lontani e lasciandosi inseguire dalle iridi di lei.

A un certo punto, però, lei sorride appena, ma quel tanto che basta perché il sentimento le arrivi agli occhi. È solo allora che rompo il contatto visivo, incapace di sostenere il suo sguardo ancora a lungo.

Lei sa. A lei non importa, mi dico, sapendo d'aver pensato la stessa cosa un casino di volte. Anche lei ritorna , ogni tanto.

Sembra che dopotutto non sapessi a che cosa stavo andando incontro, quando ho permesso che la mia mente deviasse, in quell'altra vita.

Ma le dita di Petra cercano le mie e stringono forte ed è allora che mi rendo conto che gli occhi di lei sono diversi, questa volta. Sono diversi da quelli del fantasma alle sue spalle. Sono occhi consapevoli, quelli che cercano i miei, prima di posarsi sulle mie labbra.

E a obbedire ai suoi ordini, in questa vita, sono io. È con riluttanza che mi stacco da lei, ed è quando lei non protesta per il fatto che le mie mani da soldato siano ancora tra i suoi capelli, che la realizzazione che anche lei è stata un soldato, anche lei ha visto e ricorda quel sangue, mi colpisce come una secchiata d'acqua gelida.

Lei sa. A lei non importa che la mia mente sia ancora laggiù, di tanto in tanto.

Dev'essere diventata pazza anche lei. E sembra confermare questo pensiero, quando, all'improvviso, comincia a ridere.

"Cos'è quello sguardo speranzoso, Levi?" dice, ed è la familiarità con cui pronuncia il mio nome, più che la consapevolezza che quella speranza sia tornata nella mia vita, a farmi capire che anche se i miei fottuti fantasmi mi hanno inseguito in quest'altra vita, forse questa è la volta buona per cercare di essere felice.





















L'angolino di thyandra: Salve a tutti, cari lettori! Lo so che ho già una raccolta rivetra in corso (e che avrei dovuto aggiornare oggi), ma a questa storia ci lavoro da molto più tempo e, adesso che l'ho finalmente conclusa, volevo sapere che cosa ne avreste pensato. 
Ho deciso d'impostare la narrazione a cerchi concentrici -in cui passato, presente e futuro si intrecciano e ripetono- per uno scopo preciso, ovvero mostrare quanto nella sua vita, gli eventi si siano sempre ripetuti, come una spirale perversa che porta sempre (o quasi) allo stesso finale. Confusi? Inorriditi? Beh, credo sia comprensibile, mi stupisco se siete ancora qui a leggermi. Per inciso, il finale da Reincarnation!AU non era affatto in programma, ma poi mi sono detta che avevo maltrattato abbastanza i personaggi e che potevo dar loro un po' di (quasi) pace. Sì, perché Levi, in questa nuova vita, soffre di ptsd e mi dispiace per coloro che volevano l'happy ending, siamo pur sempre sul fandom di snk e ad ogni modo i finali troppo fluff non mi sono mai piaciuti :P
Adesso ci terrei che chiunque non sia ancora fuggito si facesse sentire con un commento anche breve, perché il Levi POV is a bitch ed è stato terribilmente difficile da amalgamare al mio stile -che annega in allusioni e metafore. Quindi se avete lamentele da pormi sull'IC non solo di Levi, ma anche di qualunque altro personaggio, siete i benvenuti. Spero solo di non aver calcato troppo la mano!
PS: il titolo della fic è tratto da una canzone -o meglio un amv stupendo- che vi consiglio di andare a spulciare.

  
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