Il sibilo di una lama affilata e il dolore della morte che invadeva ogni cosa, fino a diventare solo gelido nulla avvolgente.
Buio, oscurità, oblio.
Aprì
gli occhi, una bruma bianca ovunque, bianchi i muri, bianche le
piattaforme, bianchi i camici delle persone che si muovevano in
quell'ambiente asettico. Sentì l'odore di fieno sotto di
sé e
percepì i limiti fisici della teca di vetro nella quale si
trovava.
Al di là era tutto enorme e distorto, confusionario.
“Bene,
vieni qua” tuonò la voce profonda di un uomo,
allungando la mano
verso di lui dall'apertura in alto.
Squittì spaventato e corse in
circolo per sfuggirgli, ma non c'era via di fuga dalla teca,
perciò
finì per rannicchiarsi in un angolo, mentre quell'enorme
arto si
avvicinava, come artigli di falco su una preda.
Le
dita si chiusero sul suo corpo e lo sollevarono in aria e il viso
dell'uomo apparve nel suo campo visivo, gli spessi occhiali che
riflettevano il suo muso da topo, gli occhietti neri spaventati.
“Ci
vorrà un attimo” disse, avvicinando la pistola per
le iniezioni
che teneva nell'altra mano, il liquido trasparente che riempiva la
fialetta che oscillava per le vibrazioni.
Il
grosso ago scintillò nella luce fredda del laboratorio e poi
lo
trafisse, di colpo e dolorosamente, mentre un bruciore si diffondeva
nel suo corpo. Finì in fretta, per fortuna.
La mano lo rimise
nella teca. Appena toccò nuovamente il fieno sotto le zampe,
corse
via nell'angolo, a rannicchiarsi.
“Sei
stato bravo, Splinter” lo rassicurò la voce,
allungandogli un seme
di girasole.
Il topolino lo annusò titubante poi, accertato che
non fosse una minaccia, lo afferrò coi denti e lo
portò via,
andando a sgranocchiarlo nel suo riparo.
Il
fruscio del vento che spazzava l'erba verde e le fronde degli alberi
nella collina, sfiorando con gentilezza la pelle.
Tutto il
contrario delle corde che gli mordevano la carne dei polsi, strette
tanto da solcarla, la pelle, per tenere fermi i suoi movimenti.
“Traditore,
è ora di morire” disse l'uomo con l'armatura
giapponese, sfilando
la Katana dal fodero con un sibilo minaccioso.
“Oroku
Saki, per undici stagioni ho reso onore all'ultimo desiderio di mia
moglie e ho evitato di affrontarti per proteggere i nostri
figli”
iniziò a dirgli, sovrastato dalla sua figura in piedi con la
spada
puntata contro il collo.
“Ma
ora che sono morti, non sono legato a quella promessa. Sappi
che”
continuò, mentre l'uomo alzava la lama per colpirlo,
“quando ci
incontreremo di nuovo, ti distruggerò.”
“Idiota, non
ci incontreremo mai più” esclamò
l'uomo, pronto a colpire.
Ma lui era pronto. Certo che si sarebbero incontrati ancora, parola d'onore di Hamato Yoshi.
Il sibilo di una lama affilata e il dolore della morte che invadeva ogni cosa, fino a diventare solo gelido nulla avvolgente.
Buio, oscurità, oblio.
“Allora,
come stai oggi, Splinter?” domandò l'uomo col
camice bianco,
prelevandolo per la consueta iniezione.
Il dolore era
sopportabile, ormai. Erano già due settimane che ogni giorno
subiva
quel trattamento e se non ci si poteva certo abituare al dolore,
perlomeno aveva capito che era temporaneo.
E non era l'unica cosa
che aveva capito.
Aveva dei
pensieri, pensieri
profondi, che sapeva che non gli appartenevano, prima. Capiva le
differenze tra sé e quegli umani, capiva cosa gli stessero
facendo e
capiva il loro linguaggio.
Era stato umano, una volta.
Sognava
sempre da quando avevano
iniziato a fargli quell'esperimento. Sognava di morire, in cima ad
una collina, sotto un cielo terso.
Il suo esecutore aveva
sterminato la sua famiglia e poi lo aveva ucciso e lui gli aveva
giurato vendetta. Allora si era reincarnato per compierla? Ma era un
topo, si era specchiato nel vetro della sua teca, come avrebbe
potuto?
Aspettò che l'uomo col camice si allontanasse, poi con un balzo arrivò all'apertura e la aprì con facilità, sgusciando fuori velocemente.
Erano
giorni che usciva da solo
dalla sua gabbia per esplorare i dintorni, per familiarizzare con
l'ambiente.
Stava cercando qualcosa, ma non sapeva ancora che
cosa.
Il fruscio del vento che spazzava l'erba verde e le fronde degli alberi nella collina.
Il cielo terso si rifletteva negli occhi dei suoi figli, che lo guardavano con paura e rabbia, per ciò che li aspettava. Le braccia legate dietro la schiena, in ginocchio davanti ai loro nemici, i loro occhi erano tutti per lui. Il loro padre.
Toshio
lo guardava con rassegnazione e rispetto, comunicandogli che sapeva
non fosse colpa sua.
Riku sembrava più preoccupato per lui, che
per sé stesso.
Sora aveva le sopracciglia aggrottate e la
mascella contratta, deciso a non mostrare paura nemmeno in punto di
morte.
Hoshi, invece, piangeva silenziosamente.1
Le
lame calarono improvvise, spezzando le vite dei suoi figli, senza che
potesse fare nulla. E il suo cuore si fermò in quell'esatto
momento.
Morì in quell'esatto momento, perciò non era
più importante cosa
gli avrebbe fatto Oroku Saki.
Era un uomo già morto, ormai.
Le sue ultime parole furono una promessa di vendetta, per la sua famiglia, prima che la lama calasse sulla sua testa, portandosi via ogni cosa, anche il dolore.
Buio, oscurità, oblio.
Gironzolava per il laboratorio, con la codina rosa che frusciava dietro di sé. Una donna col camice lo guardò per qualche istante, poi sorrise e gli aprì una porta che lui non poteva raggiungere.
Si erano
abituati, ormai, al
vederlo vagare per gli ambienti del laboratorio. All'inizio avevano
gridato sorpresi. All'inizio c'era stato il panico ed era stato
riportato nella sua teca con urgenza, rinforzata con un lucchetto
perché non si ripetesse.
Ma lui aveva aperto ogni lucchetto e
ogni serratura che avevano messo per impedirgli di uscire e invece di
arrabbiarsi, le persone coi camici si erano entusiasmate per la sua
manualità ed intelligenza.
E gli
avevano concesso di
muoversi liberamente, per controllare cosa facesse.
Non che
facesse niente di particolare: esplorava, cercava di capire cosa
cercassero di ottenere coi loro esperimenti, apprendeva sempre
più
concetti che gli erano estranei.
Entrò
in una stanza in cui
prima non era mai stato, lunga, spaziosa, lampade al neon al soffitto
e tubi che spuntavano da qualche parte e correvano per i muri per
sparire chissà dove.
C'era una teca come la sua, poggiata su un
bancone in un angolo, e si avvicinò per vedere cosa
contenesse. Le
sue zampe erano agili e scattanti e con un solo balzo riuscì
a
raggiungerla, bilanciandosi con la coda per la parabola del salto.
Atterrò con leggiadria e osservò attentamente all'interno della teca, curioso. In un primo istante vide solo il suo riverbero, perciò si avvicinò ancora un po', appoggiando il muso nero al suo riflesso.
Quattro
piccole tartarughine
stavano placidamente pensando ognuna ai fatti propri. Mangiavano
lattuga, riposavano su un sasso, fissavano il vuoto.
Quattro
innocue, piccole tartarughine, col guscetto verde scuro.
“Oh, ecco dov'eri, Splinter. Sei venuto a vedere i nostri nuovi ospiti?” disse la voce di una donna, avvicinandosi alla teca su cui lui aveva poggiato una zampina.
Un brusco
respiro. Un
urlo.
“Chet! Vieni qui, corri!” gridò la donna
sotto shock a
qualcuno, avvicinandosi per osservarlo meglio.
Forse era
davvero strano vedere
un topo piangere, in fin dei conti. Tanto da dover chiamare il capo
del suo reparto perché vi assistesse.
Ma Splinter non se ne
curava. Con la mano premuta contro il vetro della teca come se
volesse essere inghiottito dentro, guardava i suoi quattro figli,
restituitigli in forma di tartarughe.
Toshio, Riku, Sora, Hoshi. E lui, Yoshi.
La famiglia Hamato era di nuovo unita.
Anche se non per molto.
Aveva perso Sora. Aveva smarrito Sora. Lo aveva abbandonato.
Sora.
“Sensei,
stai bene?” si fece strada una voce gentile, destandolo dalla
sua
meditazione.
Il maestro si riscosse e aprì gli occhi sul suo
figlio maggiore. Un tempo forse era stato Toshio, ma ora era
Leonardo.
Gli sorrise
e lo invitò a
sedersi per meditare con lui. La tartaruga mutante non se lo fece
ripetere ancora e si inginocchiò di fronte.
“Stavi mormorando
sotto voce, padre. Qualcosa ti turba?” domandò con
riguardo,
sperando di non essere inopportuno.
“Stavo ricordando. Cose del
passato che non ci può più toccare e cose di un
passato che ancora
ci sfiora” rispose Splinter, enigmatico.
Leonardo
capì che era il suo
modo per discutere senza svelarsi mai davvero, per indurre il suo
ascoltatore ad arrivare alla verità con le sue forze.
“Stiamo
per uscire per le ricerche, sensei. Vieni con noi?” propose
per
distoglierlo dai suoi pensieri, che sembravano averlo rabbuiato.
Il maestro
afferrò il bastone
appoggiato per terra al suo fianco e lo usò per tirarsi su.
“Buona
idea, ho proprio voglia di rivedere il cielo2”
rispose raggiungendo i suoi figli, Riku, che ora era Donatello e
Hoshi, che pure chiamandosi Michelangelo, non aveva perso un
dettaglio del suo carattere spensierato.
Tutti
insieme fuori, a cercare
Sora.
Raphael.
Per poter essere di nuovo una famiglia.
1: i nomi dei figli non sono mai scritti nei comics, non sono canon. Sono nomi che io ho dato loro per esigenza di trama. Tre di questi nomi li ho presi dalla mia serie Heart's mutation, appariranno nel futuro.
2: Sora, il nome che ho usato per Raphael, vuol dire cielo. Perciò il cercare il cielo o il voler vedere il cielo, ha un doppio significato, per Splinter. Vuole vedere suo figlio.
Note:
Buona sera!
Sono felice di poter pubblicare la seconda OS, perché oggi sono arrivata al sesto comics e ne ho buttato giù una nuova, di getto. Son cose che rendono felici!
Grazie per aver letto la prima, grazie per la fiducia! Spero di riuscire a mantenere le aspettative.
Questa OS è su Splinter/Hamato Yoshi, nel periodo in cui era ancora un topo, nel laboratorio della Stock Gen, prima ancora che mutassero, quindi. Una doppia narrazione, passato e presente, che si uniscono nella mente di questo uomo, che uomo più non è. Il discorso nella parte in corsivo tra Oroku e Yoshi è presa dal comics 3.
A prestissimo, un grande abbraccio
*Spoiler *
(Per chi non avesse letto il comics, Splinter e le quattro turtles sono le reincarnazioni di Hamato Yoshi e i suoi figli, uccisi nel Giappone feudale da Oroku Saki.)