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Autore: Aries K    04/12/2014    1 recensioni
Quando la giovane Emily Collins mette piede nel collegio più cupo e spaventoso di Londra non sa che la sua vita sta per cadere in un mondo oscuro fatto di sangue e creature che credeva vivere solo nei suoi incubi. Quando pensa che la sua esistenza non possa cadere più in basso di così incontra William Delacour, figlio della temibile preside Jennifer Delacour. William -così enigmatico e onnipresente in quel convitto esclusivamente femminile- nasconde un segreto che sembra coinvolgere anche la giovane. I due non potranno che avvicinarvi anche se, non molto lontano da loro, qualcuno cova una centenaria vendetta che sembra non volersi compiere...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dodicesimo Capitolo








Doveva innescarsi uno strano meccanismo, nella mia mente, in cui il tempo perdeva di consistenza e tornava indietro come la notte in cui sognai i miei genitori nel nostro ultimo Natale insieme. Rivivendo con straordinaria nitidezza lo scambio dei doni, di baci e il sapore del pandoro innevato di zucchero a velo di nonna. Di ridere ancora per la pericolosa pendenza dell’albero allestito da mio padre, che sembrava dover rovinare da un momento all’altro nel camino acceso.
Oppure il tempo scattava bruscamente in avanti, facendomi svegliare nel giorno della vigilia di Natale, offuscando i giorni passati come se non avessero avuto importanza nella mia vita. Come se la confessione di Wiliam di aver amato un’altra ragazza, Adelaide, non fosse mai avvenuta. Come se tutte le notti non avessi ripetuto, ad alta voce, le motivazioni per il quale rimanevo al suo fianco. Di come lui era diventato straordinariamente protettivo e guardingo dal giorno in cui gli confessai che qualcuno mi stava seguendo. E di ignorare il motivo.
Il passato e il presente si esibivano in uno strano girotondo, lasciandomi annichilita dinanzi alla consapevolezza di essere arrivata alla vigilia di Natale e non essermene accorta.
La sera del ventiquattro Dicembre il collegio era vivo come non mai. Le ragazze che mi circondavano sembravano essersi svegliate dopo un interminabile letargo e cinguettavano lungo le scale, nell’atrio, guardando fuori dalla finestra esercitandosi per l’imminente esibizione in chiesa. Io ero impalata nel portico a guardare la neve che scendeva così lentamente da sembrare un’illusione, impaurita e infreddolita. Dal giorno dell’aggressione non avevo più messo piede fuori dal collegio. Mi viene da sorridere nel capacitarmi che mi sentivo protetta nel luogo che consideravo l’inferno. Eppure peccavo d’ingenuità, perché il pericolo mi era alle spalle – sempre – ma ancora non potevo saperlo.
William mi affiancò all’improvviso e ruppe la bolla dei miei pensieri. Mi voltai verso di lui, che aveva il volto nascosto in una sciarpa blu.
"Pronta?", mi domandò, la voce camuffata dal tessuto.
Sorrisi.
“Per cosa? Per il concerto di Natale o per mettere piede fuori dall’istituto?”
“Lo sai benissimo che ci sarò io dietro di te. E questo significa che ti proteggerò, come ho sempre fatto.”
Mi strinsi nel cappotto bianco, non avvertendo poi tanto freddo.
“E ti ringrazio”, sussurrai, grata per la sua accortezza ma anche demoralizzata per aver bisogno di qualcuno capace di guardarmi le spalle.
William mi venne vicino e, quando istintivamente voltai il capo verso il portone per assicurarmi che nessuno venisse e ci scoprisse, le sue dita mi afferrarono per il mento costringendomi a guardarlo negli occhi.
“Non devi ringraziarmi per questo. E’ come se mi ringraziassi per il fatto che sono innamorato di te. E’ stupido.”
“Mmm…”, feci arretrando per liberarmi dalla sua presa, -“dunque, caro il mio innamorato, mi stai dando della stupida?”
La fronte di William si aggrottò e i suoi occhi non fecero in tempo a vedere le mie mani appallottolare un grumolo di neve che già l’avevo centrato.
“Oh, questa poi!”, esclamò, sorpreso e imitò il mio gesto andando a raccattare della neve fuori nel giardino. Mi tirò una palla che schivai. Dunque mi chinai sul muretto per raschiare quel poco di neve accumulata ma, senza averlo messo in conto, la velocità soprannaturale di William mi fece perdere l’equilibrio, e lui mi afferrò per i fianchi allontanandomi dalle mie armi.
“Lasciami! Mettimi giù!”, gli ordinai, a bassa voce, dimenandomi.
“Ogni tuo desiderio è un ordine.”
Mi depositò un bacio tra i capelli e mi lasciò andare, mentre il suo viso s’imbronciava ricordandomi quello d’un bambino. Guardava all’interno della lunga finestra, William, e mai come allora l’osservavo senza provare timore. La bestia giaceva in lui, e mi proteggeva dai suoi simili. Lo accettavo e non avevo paura. D’altronde era passato abbastanza tempo da averci fatto il callo, con questa storia.
La porta principale si aprì, la Delacour e gli altri professori ci ordinarono di disporci in una fila ordinata e di procedere a passo svelto.
Le luci dei negozi che sfioravamo erano colorati promemoria a quella che sarebbe stata la grande festa organizzata dall’oratorio per noi collegiali. Mi strinsi nel cappotto non sapendo cosa aspettarmi, sentendomi miseramente esposta, vulnerabile, in quelle strade londinesi che non mi vedevano da un po’. Sapevo di essere paranoica nel guardarmi vertiginosamente intorno, ignorando non volutamente le chiacchiere che mi volevano coinvolta delle mie amiche, ma, in quel traffico di persone, potevano nascondersi loro.
Istintivamente lanciai un’occhiata oltre le mie spalle per verificare la presenza di William che non appena intercettò i miei occhi ingigantiti per la paura, scosse il capo con rimprovero. Tornai a guardare in avanti, non potendo calmarmi nemmeno se avessi voluto.
“… e questo è quanto. Tu cosa ne pensi, Em?”, m’interrogò Nicole che iniziò a sbuffare calore sulle sue mani unite vicino al viso.
“Oh…”, blaterai presa alla sprovvista, -“io non stavo ascoltando, scusami.”
“Domani andrà a casa a festeggiare il Natale con sua madre, i suoi nonni e George. Questo la disturba parecchio”, mi spiegò velocemente Jamie, alzando gli occhi al cielo.
“Mi dispiace”, fu tutto ciò che dissi poiché c’era qualcun altro che doveva affrontare situazioni ben peggiori di una innocua rimpatriata famigliare.
“Perderò il tuo compleanno, e la festa all’oratorio”, m’informò Nic, facendo vagare lo sguardo verso il marciapiede pasticciato di neve ed impronte.
“E in più mamma mi ha detto che dovranno comunicarmi una splendida notizia”, continuò, calciando un sassolino.
“E non sei impaziente di sentire questa notizia? Magari sarà davvero una bella notizia”, le domandò Jamie, sotto i migliori auspici.
Nicole la guardò per un breve istante in tralice ma l’altra era talmente presa ad osservare la neve sciogliersi sul suo palmo guantato che non ci fece caso. Come io non feci caso al fatto che avevamo appena arrestato il passo di quella marcia meccanica, e di essere giunte a destinazione. Mi bastò percorrere con gli occhi quella facciata al limite del gotico, arrampicarmi lungo i pennacchi e ricadere con lo sguardo sul portone aperto che ci invitava ad entrare. Le mie gambe erano così immobili e la mia salivazione così azzerata che dovetti ripetermi che quella non era l’entrata diretta degli inferi, ma l’entrata della casa del Signore dove, tra non meno di qualche minuto, sarebbe stata invasa dalle nostri voci angeliche. E, primo fra tutti i pensieri, non c’era nessuna croce di legno o di chissà quale altro materiale a penzolare in aria con maestosa minacciosità. Quindi, l’episodio della volta scorsa non avrebbe avuto modo di ripetersi ed io non dovevo far altro che cacciare indietro le immagini che mi ricordavano l’accaduto.
Un gruppo di noi strisciò lungo le pareti per via della calca che vi era oltre i banchi, una volta raggiunto l’altare ci posizionammo secondo l’ordine dei professori. Fui piantata in prima fila assieme a Jamie, Camille e le sue scagnozze. Dietro vi erano le altre della nostra classe e parte di quelle del primo anno mentre, il resto, si stagliava nelle prime file e ai lati della chiesa. La Delacour, suo figlio e – ospite d’onore a sorpresa- il signor Simus Murfy in tutta la sua eleganza, accompagnato da una donna dal volto paffuto e simpatico, invece, occupavano i posti laterali accanto al leggio.
Guardai William che aveva l’attenzione rivolta nel punto in cui ero stata inchiodata a terra; nei suoi occhi doveva ripetersi l’istantanea del momento in cui era riuscito a trarmi in salvo. Proprio come se si fosse accorto che lo stavo osservando, lui alzò il capo e i nostri sguardi s’incrociarono, complici e discreti. Rimanemmo ad osservarci in quella bizzarra immobilità fin quando non toccò sfoderare le nostre voci in festa.
Al termine di uno dei canti il prete fece un gesto d’invito con la mano a qualcuno che non riuscivo a vedere. In un primo momento credetti che si stesse riferendo alla Delacour perché si spostò di lato, in realtà il movimento permise a suo figlio di passarle avanti per raggiungerci sull’altare. Salì i gradini di marmo e il signore che accompagnava i canti con il pianoforte gli lasciò lo sgabello. William tossì prima di enunciare le sue intenzioni.
-“Vorrei cogliere l’occasione di questa stretta collaborazione tra mia madre e il parroco Patrick per augurare, a tutti voi, un felice Natale. Che possiate vivere d’amore e far sì che tutti i giorni –anche i più bui- siano illuminati dalla stessa luce che vedo stasera nei vostri occhi. E…”, prese respiro, sfiorando i tasti con le dita come se li volesse accarezzare,-“questo è per te.”, concluse, a testa bassa, ed iniziò la melodia. I sussurri delle mie compagne alle mie spalle scommettevano che ciò che stava facendo fosse un omaggio al ritrovato rapporto con sua madre, ma solo io capii immediatamente –dal primo accenno, dalla prima nota- che quella canzone non era rivolta a Jennifer.
Era rivolta a me.
Era la canzone di mia madre.
Mi mancò il respiro per qualche secondo e fin quando la musica non crebbe d’intensità mi resi conto che lo stavo trattenendo, così come le lacrime. Tuttavia, sebbene la commozione, dovetti aggrapparmi con le mani alle ginocchia per evitare di singhiozzare. Vidi la Delacour fissare suo figlio con la bocca dischiusa e le mani intrecciate in grembo, convinta di star ascoltando una sua dedica. Ricordo di aver provato una piccolissima fitta di gelosia perché lei mi appariva beata nell’ascoltare qualcosa di così profondamente mio. E della mia famiglia.
Quando terminò l’esibizione e ci alzammo tutti in piedi per applaudire; solo una persona, Jamie, fu capace di bisbigliarmi nell’orecchio:
-“Secondo me, questa era per te, amica mia.”



Di ritorno al collegio ecco scatenarsi il motivo di tanta euforia e agitazione: la festa allestita da alcuni rappresentanti dell’oratorio della chiesa. Se prima della celebrazione si avvertiva un clima elettrico di gioia adesso, credetemi, era tutto un altro paio di maniche. I dormitori si erano trasformati in camerini e, in una stanza del primo piano con la porta completamente spalancata, le ragazze si erano radunate in biancheria intima di fronte all’entrata del bagno intimando ad una certa Sefa di muoversi o avrebbe visto il contenuto del suo baule venir mangiato dal fuoco del camino di non so quale posto.
Io e Nicole -che a differenza di Jamie non eravamo abituate ad assistere a un clima così esplosivo e repentino- ci guardavamo intorno senza nascondere il nostro disorientamento.
“E’ il collegio del nord di Londra con preside l’egregia Jennifer La Terribile Delacour, oppure siamo state trapiantate in un altro istituto incredibilmente simile di un altro universo?”, scherzò Nicole che con un balzò alla mia sinistra permise di far passare una mandria di ragazze tutte in ghingheri. Jamie sghignazzò.
“Anche l’anno scorso è stato così, più o meno. Quest’anno c’è molta più felicità perché, sapete, la festa è motivo di nuovi incontri, di svago. E le persone come me hanno qualcuno con cui condividere non solo la sorte ma anche il Natale.”
Anche nella nostra camerata si respirava lo stesso clima che pervadeva l’intera struttura; Jamie si offrì di pettinarci i capelli mentre Nicole tirò fuori da una bustina di plastica una tavolozza di ombretti dalle diverse tonalità. Riuscimmo ad occupare un lavandino e io fui la prima ad essere preparata. Le mie amiche mi avevano fatto rivoltare la sedia contro lo specchio perché volevano che mi mirassi in tutto il mio splendore ad opera conclusa.
“Sii paziente”, mi avevano ammonito mentre il mio viso veniva spennellato e i miei capelli acconciati.
“Sono così lunghi i tuoi capelli, Emily. Ancor di più di quando sei arrivata qui. Li adoro”, commentò Jamie, appuntandomi l’ultima mollettina ai lati della nuca. Non potevo vedere ma ero sicura al cento per cento che me li avesse raccolti in una mezza coda elaborata.
“Io ho finito”, sentenziò Nicole, che fu immediatamente affiancata da Jamie. Quest’ultima si aprì in un sorriso meravigliato, di sincero stupore.
“Sei splendida. Sei…insomma, wow! Vado a prenderti il vestito. Nicole, non farla specchiare.”
“Fosse l’ultima cosa che faccio”, la rassicurò l’altra, portandosi il pennello sporco di viola all’altezza del cuore in un gesto solenne. Voltai la testa di lato e incontrai lo sguardo di Daisy che era circondata dalle sue amiche.
-“Sei veramente bella, sai?” Mi sorrise e poi, senza lasciarmi il tempo per ringraziarla del complimento, si esibì in una piccola giravolta su se stessa. Il suo lungo e pomposo vestito lillà si aprì, avvolgendola, per poi ricomporsi al suo arresto.
“Ti piace?”
“E’ meraviglioso, Daisy. Dico davvero.” Mi donò un altro sorriso e poi le sue amiche la tirarono via per raggiungere i pullman che ci avrebbero scortato al ricevimento, benché non sarebbe partito se non tra qualche minuto.
Dopo che quel gruppetto passò per la porta, ecco che tornò Jamie con il mio vestito piegato sulle braccia.
“Alzati, e per l’amor del cielo stai attenta alla capigliatura!”, si raccomandò tutto d’un fiato, e obbedii. Le due mi aiutarono a far passare il vestito da sopra la testa; questo scivolò velocemente sul mio corpo, modellandosi, come se fosse stato creato apposta per me.
“E ora girati!”
Jamie mi prese per le spalle senza preavviso e in un attimo ecco che miravo allo specchio una perfetta sconosciuta.
Non potevo essere io, quella ragazza così elegante, così adulta e splendente. Non avevo mai visto i miei occhi rischiarare quella luce come non li avevo mai ricordati così chiari da sembrare azzurri. Forse era l’illusione provocata da quella polverina stesa sulle mie palpebre. E le mie labbra! Così lucenti e ben definite. Persino il colorito del mio viso era alterato, regalandomi una nuova luce. Con una mano tremante per l’emozione mi toccai i capelli voluminosi che mi ricadevano dolcemente sui seni. Proprio come avevo intuito Jamie me li aveva raccolti in una semplice ma ben riuscita mezza coda.
“Allora? Non ci dici niente?”, ridacchiò Nicole, la quale aveva ben inteso il mio stato d’animo. Lo vedevo dall’espressione compiaciuta che si era manifestata sul suo viso.
“Cosa dovrei dire? Mi avete trasformata.”
“Cenerentola, adesso vai ad un altro specchio libero a mirarti, perché anche noi dobbiamo vestirci, adesso”, ridacchiò Jamie e mi feci da parte, senza togliermi dalla testa il mio inaspettato riflesso.
Dopo aver trascorso del tempo incalcolabile seduta sul vecchio letto ad attendere, eccole uscire dal bagno insieme ad altre ragazze. Sbattei gli occhi, meravigliata da come anche loro sembrassero più mature, più raggianti. Ci misi un po’ ad abituarmi a tutta quella luce che emanavamo, come se i miei occhi fossero rimasti al buio fino a quel momento.
Il cortile era occupato da quattro enormi pullman e una serie di macchine in attesa di trasportare le ragazze più fortunate dalle proprio famiglie. Una tra queste era Camille che incontrammo scendendo le scale all’esterno del collegio.
“L’orfanella che va all’oratorio. Quasi mi commuovo”, sogghignò parandosi davanti a me, proprio sull’ultimo scalino. Le mie mani strinsero con estrema violenza i lati del vestito che straripavano da sotto il cappotto. Avvertii dei mugolii di insofferenza nascere e gorgogliare nelle gole delle mie due amiche, ma fui io a rispondere:
“Per te non vale il detto a Natale si è tutti più buoni, vero? Sarebbe chiedere troppo?”
“Oh, anima pia!”, esclamò portandosi le mani sul copricapo di lana, per poi farle afflosciare lungo i fianchi, -“nessuno ti ha mai risposto che si deve essere buoni tutto l’anno e non solo a Natale”, cercò chiaramente di imitare la mia voce, -“mi dispiace, Collins. Io sono così tutto l’anno e non sarà un po’ di neve o qualche lucina artificiale a farmi cambiare per un po’.”
“Interessante. Sappiamo chi riceverà tutto il carbone, quest’anno, amiche. Ora, spostati”, blaterò Nicole, scendendo uno scalino per spalleggiarmi. Io mi ritrovai con lo sguardo incollato a quello di Camille, chiedendomi come fosse possibile nutrire tanta cattiveria e non provare compassione o qualche altro sentimento benevolo. Feci per sorpassarla ma, inaspettatamente, si alzò sulle punte arrivando con il suo naso quasi a sfiorare il mio.
“Il regalo più bello lo riceverò tra qualche giorno, quando tornerò qui ad umiliarti, Collins.” Il suo fiato mi gelò la punta del naso, mentre rovesciavo gli occhi al cielo, fremente di andar via. Camille mi afferrò il viso con un movimento fulmineo e delicato, poi poggiò le sue labbra sulle mie guance.
“Buon Natale.”
Rimasi impietrita da quel gesto e mentre lei veniva portata via dalla macchina di sua madre, Nicole e Jamie trascinarono via me, scherzando ed esibendosi in versi schifati e osceni.
Mi accomodai in uno dei primi posti e mi sedetti al fianco di Nicole – per un attimo mi domandai come facesse a non sentire freddo con le gambe coperte solo dallo strato sottile delle calze- seguita da Jamie che prese il posto dietro con Victoria, una ragazza della camera affianco.
E qui, proprio durante il tragitto collegio-oratorio, la mia memoria comincia a vacillare, facendomi perdere frammenti di quell’andata spensierata, in cui tutte intonavamo canti natalizi e canzoni ascoltate alla radio.
Ma c’è stato un piccolo discorso tra me e Nicole che voglio –con tutte le forze- riportare a galla affinché voi possiate capire di come il destino di chi ci è accanto possa essere inesorabilmente legato al nostro, senza nemmeno esserne consapevoli.
Ero stufa di cantare e il dito lungo e sottile della mia amica che creava ghirigori sul vetro appannato attirò la mia attenzione. I suoi occhi miravano la vegetazione priva di colore che ci scorreva sotto il naso, anche se il suo sguardo sembrava perdersi in un posto figurato solo dalla sua mente. Non le dissi niente, continuando a studiare le sue espressioni, quando con stupore mi colse nell’atto.
“Mi capita spesso di pensare a dove mi porterà il nuovo anno, ogni volta in questo preciso periodo.”
“Beh”, feci io, -“è normale. Tutti se lo chiedono anche se poi, alla fine, non cambia granché rispetto all’anno prima.”
“La verità è che ho una terribile paura di quello che domani dovrò sentirmi dire, Emily.” Si voltò quasi di scatto, come se avesse fretta di cogliere la mia reazione o una mia buona parola.
“Ti riferisci alla famosa notizia che dovranno comunicarti tua madre e George”, affermai, sfoderando un sorriso rassicurante.
“Sì, questa volta temo che mi porteranno via da Londra. Io amo questa città, le persone che ci vivono, l’aria che si respira, passeggiare per il Camden Town e comprare anche le cose più inutili di questo mondo. E amo poter rimanere ad osservare il Tamigi, come facevo quando ero più piccola con mio papà. Voglio conoscere i misteri che popolano questo posto. E poter mantenere le uniche amicizie sincere che mi sono costruita fino adesso.”
Il mio sorriso vacillò per qualche istante perché, le parole della mia amica, smossero qualcosa di indefinito nel mio essere. Qualcosa di simile alla nostalgia, alla malinconia.
Allungai una mano sulla sua, fredda e ossuta, provando a trasmetterle quella solidarietà che cercava.
“Ovunque ti condurrà questo nuovo anno puoi sempre contare su di me. Non saremo mai lontane, nemmeno se andassi…”, bloccai la frase per pensare ad una meta.
“Francoforte?”, suggerì, sgranando gli occhi.
“Sarebbe sempre troppo poco. La mia amicizia, te lo assicuro, ti raggiungerà anche lì”, ridacchiai battendole dei piccoli colpetti sulla mano. Anche lei sembrò rincuorata.
“E a te, invece, cosa pensi ti porterà quest’anno?”
“Non ne ho la più pallida idea”, dissi sinceramente, -“cos’altro potrebbe succedere?”
La piccola allusione che trapelò dalla mia voce fu colta immediatamente da Nicole, la quale mi lanciò un’occhiatina d’intendimento.
“Niente potrebbe stupirti, disorientarti, più di quanto non abbia fatto la famiglia Delacour.”
Trattenni il fiato per un secondo e le feci cenno di abbassare il tono anche se tutte erano occupate tra loro.
“Certamente, certamente. Non penso che il mondo possa nascondere qualcos’altro capace di turbarmi come questa storia. Insomma, per quanto io possa averla fatta mia non smetterò mai di realizzare.”
Nicole si lasciò andare ad un lungo sospiro.
“Ed io non dimenticherò mai tutto questo.”
“Anche se lo volessi, non potresti”, risposi, incapace di poter controllare il piccolo tremolio che avvertii lungo le corde vocali.
Eppure entrambe ci sbagliavamo.
Non potevamo di certo sapere che il destino avrebbe condotto Nicole lontano da me, nel luogo più lontano possibile. Che il peggio doveva ancora arrivare, che i vampiri non avrebbero smesso di stupirci, meravigliarci, terrorizzarci.



Diroccata all’esterno ma bellissima all’interno, fu il mio primo pensiero quando entrai nella sala, dopo aver corso contro un vento pazzesco che a momenti balzava tutte all’indietro. La grandezza della sala poteva benissimo competere con quella della mensa del collegio; lungo le pareti serpeggiavano le tipiche decorazioni natalizie che catturavano le luci colorate appese sopra le nostre teste. I vari tavolini tondi che occupavano gran parte dello spazio erano rivestiti da lunghe tovaglie bianche con ai bordi del muschio finto, mentre, molto più sobria era la tavola delle leccornie, quella che girava intorno ai tavolini.
“Oh, mio Dio.” Questa è stata l’esclamazione di qualche mia compagna nel vedere tutta quella moltitudine di colori fatta di antipasti, primi, secondi e dolci. Tanti dolci.
Non di mena importanza, però, era la postazione del Dj infondo alla sala, accanto alla vetrata che dava sul giardino. Parecchi ragazzi erano radunati lì intorno, a parlottare, godendosi il nostro arrivo con vistosa curiosità nello sguardo.
Sulle note di una musica piuttosto soft cominciammo a dividerci e quindi ad entrare in sintonia con il clima dell’ambiente, che avevo l’impressione dovesse esplodere in una musica più movimentata da un momento o l’altro.
Avevo appena terminato il mio antipasto quando l’assenza di William cominciava a farsi sentire. Perché, vedete, nonostante tutto lui rimaneva il motivo per il quale mi alzavo dal letto al mattino. E volgere lo sguardo negli spazi in cui mancava mi faceva sentir sola.
“Scusatemi, devo andare a prendere una boccata d’aria”, mi congedai dalle chiacchiere e, afferrando il soprabito dalla spalliera della sedia, mi avviai verso la vetrata.
Non appenai uscii mi scontrai con un gelo irreale, capace di farmi lacrimare gli occhi. C’erano solo due ragazzi appoggiati alla ringhiera di legno che divideva il prato dal palco, fumavano e chiacchieravano incuranti del freddo.
Stavo quasi cedendo al desiderio di tornare dentro al caldo quando mi resi conto che non avrei potuto farlo senza prima capire il perché rimanessi incantata a mirare la vegetazione lontana. E non era perché mi ricordava il verde che circondava il collegio; ma perché in mezzo a quella foschia, a quelle foglie, avvertivo qualcosa di sbagliato. Era una strana sensazione, dovervela trasmettere sarebbe un’impresa pindarica, per questo mi limito a raccontarvi cosa successe immediatamente dopo essere rimasta lì ad osservare.
M’incamminai, scendendo i tre gradini di legno, affondando i piedi nella neve attecchita. Sentii gli sguardi di quei ragazzi sulla schiena ma, quando mi voltai, avevano terminato le sigarette e stavano rientrando nella sala.
Bene, pensai, senza ironia.
Toccai un albero pregno di umidità e cercai di definire quella sensazione, cercando una spiegazione concreta e per un attimo, il pensiero fulmineo che potessero essere quei tre vampiri, mi paralizzò le articolazioni.
“No. Non oserebbero esporsi in questa maniera”, cercai di convincermi, ad alta voce.
Il vento che andava a disperdersi nella profondità della foresta me la restituì in una eco lamentosa, e quindi decisi di fare dietrofront per evitare di impazzire –o peggio- sfidare la buona sorte.
Ma, non appena diedi le spalle a quel suggestivo scenario, un’ombra si proiettò e allungò accanto alla mia.
   
 
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