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Autore: Andrewthelord    08/12/2014    1 recensioni
Agghiacciante cross-over tra il film “Fracchia la Belva Umana” e l’anime “Kaitou Saint Tail” (Lisa e Seya).
È arrivato in Giappone il più importante dipinto del novecento italiano, un Osvaldo Paniccia originale. Non solo Saint Tail (Seya), anche la Belva Umana (Paolo Villaggio) è sulle sue tracce. Riusciranno Asuka jr (Alan) e il Commissario Auricchio (Lino Banfi) ad impedire l’ennesimo furto? E Giandomenico Fracchia (Paolo Villaggio) verrà ancora utilizzato dal suo sosia per i suoi loschi piani?
Non si tratta, come potrebbe sembrare, di una fan fiction nonsense, ma di una vera e propria storia in cui i personaggi sono loro stessi e non delle caricature.
Sono ben graditi i commenti, anche brevi!
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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55 Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Tomoki

 

Non è tanto una brutta notizia in sé a tagliarti le gambe. Perché una brutta notizia, per quanto brutta possa essere, la affronti. All’inizio ti devasta, ma poi ti comunica essa stessa dei mezzi, delle modalità, degli stratagemmi per superarla. In un modo o nell’altro. Oppure, molto banalmente, per convivere con il dolore immenso che provocano.

A fiaccarti lo spirito, impedendoti ogni tipo di lucidità tale da permetterti una qualsivoglia reazione razionale è il dubbio. L’impossibilità di sapere se quella notizia che attendi sia bella, banale o brutta. Anche molto brutta.

Tomoki Asuka era davvero nel marasma più totale. Spalancava porte, camminava per lunghi corridoi, cercava negli ampi saloni scuri, tra vetri rotti e odore di varecchina. Suo figlio pareva essere scomparso nel nulla.

Dalle ricetrasmittenti e dai volti dei colleghi che aveva incrociato sapeva che la Contessa era stata liberata, che la Belva era stata con tutta probabilità catturata. Aveva persino saputo che qualcuno aveva tramortito quell’imbecille dell’agente Matsuda e se ne era scappato via con Giandomenico Fracchia. Ma ad innestargli il tarlo del dubbio più atroce la notizia – a dir poco agghiacciante – del fatto che Esposito e Yamaguchi erano davvero morti. E che De Simone, nonostante fosse una pellaccia, era stato tanto così dal fare la stessa fine. “Che speranze”, ripeteva la sua mente razionale, “poteva avere dunque suo figlio?”.

Nonostante tutto continuava a cercare, a correre, a urlare il nome di Daiki. Non era più il capo della polizia, anzi, forse, quella sera, non lo era mai stato davvero. «DOVE SEI???», urlò di nuovo. Ma nell’oscurità più totale, vide uno spiraglio di luce. Letteralmente. Tra le tante porte del lungo corridoio del secondo e ultimo piano, verso la fine, ne scorse una socchiusa. Da essa, entrava una luce tenue. Probabilmente una specie di lampione. Doveva essere, evidentemente, la porta verso il terrazzo panoramico. D’estate ci piazzavano il bar esterno: la gente andava per sedersi sui distinti tavolini, sorseggiare costosi cocktail dai nomi esotici e dal gusto orribile e godersi la visuale dall’alto della spiaggia e dell’oceano.

Come spinto da una forza incontenibile, si lanciò verso la porta, la spalancò con forza e gridò di nuovo il nome di suo figlio.

Era lì. Riverso su una specie di lungo sdraio, uno di quelli in dotazione del bar estivo dell’acquario. Le gambe distese, la mano sinistra lungo il corpo e la destra sopra il petto, quasi a proteggersi dal freddo. Pareva guardasse in alto.

«DAIKI!!!», urlò. Il ragazzo girò la testa, e, con voce flebile, salutò: «Papà. Ce l’abbiamo fatta».

Tomoki piombò verso il figlio. Si accorse che non era ridotto proprio una meraviglia. «Ma… Cristo… Ti hanno rotto il naso… E che diavolo hai in bocca?». Era disperato, davvero. Sua moglie, se avesse potuto farlo dal cielo, lo avrebbe ucciso. Aveva esposto il loro unico figlio a un rischio mortale. Non solo: l’avevano ridotto così soprattutto perché lui aveva acconsentito a trattarlo non per quello che era – un ragazzino – ma per una specie di poliziotto cresciuto e formato. E sì che era lei quella di manica larga. «La gamba… È gonfia… Ma…».

«Saint Tail mi ha salvato», lo interruppe tranquillo. Nonostante la gravissima preoccupazione, il dolore e il pentimento, Asuka senior si accorse che il figlio pareva sotto l’effetto di una qualche droga inebriante.

«Saint Tail?», domandò Tomoki. Era solo un nome, ma dentro v’erano tutti gli interrogativi del mondo, per i quali, però, il poliziotto poté intuire con un sorriso più d’una risposta.

«Ha sconfitto la Belva», riprese Asuka junior.

Aveva parlato solo di lei. Di fronte a suo padre non aveva minimamente accennato alle sue vistose ferite. Non aveva spiegato il perché si trovasse lì, a tre piani di distanza dal luogo dove Tomoki, poco prima, aveva sentito si era verificato lo scontro con la Belva. Non aveva raccontato come – così conciato – fosse riuscito a salire le scale. Ma soprattutto, non aveva dato alcun indizio sul perché uno che aveva incrociato così da vicino la morte e che aveva abbracciato in modo così stretto il dolore si trovasse in quello stato di profonda beatitudine.

Nonostante l’inquinamento luminoso che funesta il Giappone più delle altre nazioni occidentali, quella notte era letteralmente bagnata di stelle. L’oceano, placido e sereno, ricordava la sua presenza con il costante e lento fragore delle onde contro gli scogli. Gli stessi scogli che per centinaia – migliaia di anni avevano fatto da cassa di risonanza di quell’eterna musica. Una brezza profumata di salsedine scorreva per i vestiti e pareva lenisse le ferite dal sangue e dagli agenti infettivi.

Tomoki sospirò, aprì il taschino e si accese una sigaretta. Un goffo, goffissimo tentativo di mascherare in una nuvola di nicotina le lacrime che gli rigavano il viso, di confondere con i colpi di tosse per il fumo i singhiozzi del pianto. Ma Asuka junior guardava verso il cielo, verso gli astri. In lontananza, tra i corpi celesti, c’era una stella particolare. Luccicava di rosso, bagnata dai riflessi argentei della luna piena, ormai calante e dunque, possibilmente, ancor più grossa e luminosa. Trainata dall’ultimo dei suoi palloni ad elio. Chissà con che energie quella luce era riuscita a librarsi ancora alta nel cielo. Libera da tutto e da tutti. La stellina rossa ormai era ridotta al lumicino: spariva verso l’entroterra, verso la città, mascherata da altre luci, coperta dalla foschia e dalla nebbia. Ma lui la vedeva ancora. E l’avrebbe vista per sempre. Nessuna nube l’avrebbe nascosta dal suo sguardo. Per lui era luminosa come la cometa di Halley.

Sorrise ancora prima di perdere i sensi. Distrutto, sconfitto, torturato e quasi ammazzato aveva pregustato il paradiso.

I raggi del sole in lontananza davano il via a un nuovo giorno. Asuka sorrise, prima di svenire di nuovo. Era davvero un nuovo giorno, in tutti i sensi.

 

 

   
 
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