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Autore: Porrima Noctuam Tacet433    12/12/2014    1 recensioni
Sempre Geoffrey Martewall, ma attraverso occhi diversi.
Hector- "...aveva capito che c’erano ancora troppe ferite che il suo animo indomito tentava di sanare ogni giorno, troppa voglia di liberarsi da qualcosa."
Brianna-" Lo aveva visto dalle finestre e non aveva capito subito perché la paura l’avesse attaccata a tradimento, così all’improvviso. Poi la verità le si era rivelata in un modo così evidente che Brianna non aveva potuto continuare ad ignorarla."
Gant-"« Dovete sentirvi molto solo, sir. » gli aveva sputato addosso Gant, con una calma solo apparente.
Martewall aveva fermato il suo passo ma non si era voltato.
Jerome-"E sapeva anche che non avrebbe ascoltato il suo ordine.
Sembrava nato per essere diverso dagli altri, e, di conseguenza, per essere allo stesso tempo dannatamente irritante e dannatamente insostituibile."
Etienne-"Erano state poche le volte in cui aveva provato ad immaginare cosa pensasse.
Forse perché se c’era una cosa che Etienne detestava, era fallire. E da quel punto di vista, Martewall rappresentava un fallimento continuo."
Guillaume-" « Cercate solo… » disse, senza più voltarsi « Di non fare per orgoglio o paura la mia stessa fine. » "
...
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Geoffrey Martewall, Un po' tutti | Coppie: Geoffrey/Brianna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Henry De Grandpré

Difese

 

Nessun disagio nella ribellione.

Questo era ciò che vedeva. Nessuna paura o vergogna nell’essere un ribelle, scomunicato, giudicato e, probabilmente molto presto, duramente punito. Henry de Grandpré non sapeva come avrebbe reagito lui, ritrovandosi nella stessa situazione del barone di Dunchester.

I suoi conterranei erano contro di lui, il diretto discendente del suo re avrebbe sempre ricordato il suo tradimento, il papa gli aveva tolto l’unica certezza a cui poteva aggrapparsi e l’idea di morire adesso doveva essere intollerabile.

Eppure non era bastata l’idea del futuro infernale ed eterno che lo aspettava dopo la morte a farlo vacillare, in un panorama in cui la Francia non poteva essere un appiglio famigliare a cui aggrapparsi se la guerra fosse finita nel peggiore dei modi.

Henry credeva fermamente che, anche se all’inizio Martewall era stato restio a combattere contro il re per il quale erano morti i suoi fratelli, la ribellione fosse per natura nelle sue corde.

E adesso solo la vittoria poteva portare a una prospettiva futura piacevole. La sua morte e la sconfitta sarebbero state ancora più terribili di quelle di un qualsiasi altro uomo.

Henry adesso capiva appieno quale orrore rappresentasse una guerra civile. Capiva, attraverso il tentativo di immaginare come ci si dovesse sentire a combattere contro i propri conterranei, coloro che un tempo erano stati compagni.

E provava rispetto e ammirazione verso quell’uomo che, pur sapendo di essere alleato del fronte in svantaggio, non agiva per opportunismo e resisteva a testa alta.

Non erano amici, e probabilmente non lo sarebbero mai stati nello stesso modo in cui Henry lo era diventato con Etienne de Sancerre, Jean o Henry de Bar. I suoi compagni d’arme erano più esperti di lui, ma sottolineavano sempre le sue qualità, e lo facevano sentire un loro pari.

Probabilmente non sarebbe mai riuscito a sentirsi al pari di Martewall.

L’inglese possedeva un’ aurea di potenza diversa da ogni altro uomo che Henry avesse conosciuto. C’era qualcosa in lui che spingeva i suoi nemici a temerlo, i suoi sottoposti ad obbedirgli senza la minima esitazione, qualcosa di intangibile e invisibile, solo percepibile.

Henry era molto bravo a percepire le cose. E quando pensava a Martewall in guerra gli sembrava che fosse esattamente nel posto in cui doveva essere, perché gli anni passati a combattere avevano lasciato un segno in lui. Ora era un veterano e sapeva guidare un esercito come se fosse nato per farlo.

Henry notava il suo senso di indifferenza e repulsione per i banchetti, per  le lunghe giornate vuote e calde tra le mura di un castello, la sua noia e l’impazienza mentre osservava fuori dai grandi finestroni di Seour, aspettando di poter tornare in Inghilterra e rivivere il piacere dei viaggi e provare a creare un futuro migliore per la sua terra.

Probabilmente Martewall non pensava potessero esserci altre strade per lui. Che tutto ciò che non riguardava la battaglia, i suoi doveri e la difesa di ciò che riteneva giusto gli sarebbe stato sempre negato dalla vita. Henry sperava che non se ne fosse convinto troppo.  Ma non potevano certo essere loro a spiegarglielo, lui e Jean lo sapevano bene e si trovavano d’accordo, Henry ne era convinto, anche se mai ne avevano parlato.

Henry sorrise nel vedere la persona che avrebbe potuto far crollare tutte le certezze dell’anima fredda di Geoffrey Martewall. Si avvicinò con passo calmo, ma attento a non farsi sentire, lo sguardo velato di malizia.

Se c’era una cosa che sapeva fare meglio degli altri era scavare nell’anima delle persone, intuirne la sostanza. Brianna Foxworth si era guadagnata la sua simpatia fin dal primo momento che aveva passato in Francia come dama da compagnia e serva di Isabeau. Henry provava un grande rispetto nei suoi confronti. Era una donna forte, combattiva e indipendente, che da ragazzina si era ritrovata disprezzata da tutti, sola con il suo bambino da proteggere e da amare.

Lei e Martewall condividevano l’incomprensione del mondo.

La conosceva oramai abbastanza da sapere che Martewall si meritava una donna come lei al suo fianco. A discapito di ogni pregiudizio, malgrado ogni convenzione. Più li osservava più si convinceva che così dovessero andare le cose.

 

*

 

La stanza era rischiarata solo dalla luce divampante del camino. Si erano riuniti lì dopo la cena, con molta discrezione.

Era prevedibile che la discussione sarebbe caduta inevitabilmente su Adolphe de Gant.

«Risolveremo la situazione, non temete. » disse infine Jean con orgoglio ma anche con aria stanca e il tono di chi vuol chiudere al più presto la conversazione. « Ma serve tempo, Etienne. E serve una strategia. Non puoi accusarlo senza prove e non puoi ucciderlo senza il benestare del re. Devi fartene una ragione. » decretò, deciso, incatenando lo sguardo di Etienne de Sancerre al suo.

Etienne lo osservò mentre alle sue spalle il cielo si incupiva. Annuì una sola volta, la mascella contratta dalla rabbia.

« Pensi che non riuscirete a provare la sua colpevolezza. »

La voce di Martewall ruppe il silenzio e vibrò, profonda, nella stanza per la prima volta in quella sera. Etienne lo guardò appena, e l’incertezza nel suo sguardo non gli si addiceva affatto.

« Gant avrà ciò che merita. Guardati attorno, Sancerre, e scoprirai che si è già fatto troppi nemici. »

Tra tutti loro, Martewall in quel momento era l’unico davvero sicuro di ciò che diceva. Henry fu grato della sua presenza, anche se solo momentanea. Sembrava essere il solo che riuscisse a mettere fine in due parole alle proteste di Etienne, come se fosse abituato, più che ad esercitare l’arte della diplomazia, che gli era del tutto estranea e con Sancerre non funzionava, a gestire personalità irruente.

« E tu, inglese, quanti nemici hai? Metà dell’Inghilterra desidera vedere la tua testa su una picca, e forse anche buona parte dei francesi. Eppure sei ancora qua.»

« Etienne, per favore! » Henry si sentì in dovere di intervenire, scuotendo la testa esasperato. « vuoi forse paragonare Gant a sir Geoffrey? »

« No! » affermò subito Etienne indignato « non intendevo dire questo. »

Mentre Jean sospirava, Martewall lo tranquillizzò con uno sguardo neutro e un gesto per lasciare intendere che non era offeso.

« Io non ho mai cercato di non farmi nemici. Gant invece si è sempre guardato le spalle e ha fatto in modo di sembrare il più devoto dei cristiani, il più fedele dei francesi e il più onesto dei vassalli. Non credo si sia mai trovato in una situazione simile. Questo dovrebbe darvi un vantaggio. »

De Bar annuì seguito a ruota da Jean, trovandosi evidentemente d’accordo con ogni parola.

Jean incrociò le braccia al petto e si toccò istintivamente la spalla.

« è scaltro. » dovette ammettere, cupo.

« Ma non è l’unico ad esserlo. » affermò Martewall, includendo tutti nella sua occhiata eloquente.

Martewall non aveva uno spirito arrendevole, questo era certo. E pur avendo la sua guerra e i suoi tormenti personali in quel momento stava lì con loro, ad assistere ad una conversazione che non avrebbe comunque portato a niente, a cercare di placare la rabbia cieca di Etienne e a dare sostegno a Jean, in uno dei luoghi chiusi e affollati che tanto odiava. Henry apprezzava in modo particolare il suo parere, razionale e lucido, non forzatamente ottimistico.

Sancerre ghignò sarcastico.

« Se non ti bastava già metà dell’Inghilterra, gioisci, Martewall… hai un altro nemico. »

La frase fece drizzare la testa di Jean. De Bar fulminò Etienne con lo sguardo.

« Scusa. » fece Etienne a Jean, alzando una mano con sincero dispiacere, ma anche in parte divertito.

Martewall scosse le spalle noncurante. Il Falco però non si astenne dal guardarlo preoccupato, in attesa della sua opinione.

« Gant è ossessionato da te, perché solo tu puoi mandarlo in rovina. Io non ho importanza per lui. »

« Chiunque interferisca nei suoi piani ha importanza per lui. » lo contraddisse Jean.

Martewall aveva un modo tutto suo di mostrarsi spavaldo, con una strana naturalezza e noncuranza, ed era chiaro a tutti che ne avesse pieno diritto.

 

*

 

 Ogni volta che lo guardava, non poteva fare a meno di ripensare a quel giorno.

L’aria era calda, rischiarata dal sole rovente del primo pomeriggio. I cavalli si abbeveravano nel ruscello, stanchi, scuotendo la coda e la criniera per scacciare le mosche. Henry accarezzava distrattamente il collo del suo destriero, e aveva solo voglia di varcare le soglie della contea di Champagne e tornare a casa.

Era accerchiato dai suoi soldati e da un paio di scudieri. I volti di coloro che mancavano dal giorno della battaglia di Bouvines gli tornavano però sempre in mente e pesavano sul suo cuore come macigni.

Improvvisamente fu distratto dai suoi pensieri dal passo deciso di molti uomini, dal clangore dei loro armamenti e dalle voci che si alzavano ed abbassavano, berciando ordini.

Guardò sulla strada di terra secca dietro di lui, come molti dei suoi uomini.  Vide una carovaniera formata da tre soldati in testa e almeno il doppio di loro dietro. Erano a cavallo e accerchiavano qualcosa che dalla posizione in cui si trovava Henry era impossibile da definire. Il giovanissimo conte rabbrividì istintivamente, portando la mano alla spada. Uno dei suoi soldati più anziani intercettò il suo movimento e gli si avvicinò.

« è il conte di Soissons coi suoi cavalieri, signore. »

Henry aguzzò la vista e riconobbe prima i blasoni sulle cotte di maglia, poi il volto navigato del conte. Si preparò a salutarlo solennemente, sebbene non gradisse la sua compagnia. Quelle erano le sue terre e solo grazie alla sua benevolenza Henry aveva potuto transitarvi e accorciare il suo viaggio.

Soissons lo raggiunse e gli strinse la mano con un grande sorriso e parole cortesi. Henry notò che alcuni dei suoi cavalieri, rimasti più distanti, tiravano per le briglie dei cavalli senza padrone, appartenuti forse ai periti durante la battaglia.

Henry spostò lo sguardo dietro alle spalle di Soissons, mentre il conte ancora gli stava parlando, con un bagliore negli occhi.

L’uomo più anziano intercettò la sua occhiata e ghignò con soddisfazione.

« Ah, sì… » disse, smontando di sella e ordinando con un gesto ai suoi uomini di fare una sosta. « il re mi ha lasciato alcuni prigionieri di guerra. » continuò, sorridendo e facendo segno a Henry di avanzare.

Lo sguardo del giovane si era incupito, e non colse l’invito. Una volta che i cavalli si furono spostati, Henry poté vedere i soldati sguainare le spade con le catene, che culminavano stringendosi attorno ai polsi dei prigionieri, ben salde nella mano libera. I soldati li fecero camminare verso gli alberi, quattro uomini di diversa età, tutti insieme per controllarli ogni secondo.

La scena fu straziante. Henry non riuscì a vederli negli occhi e ne fu grato, nessuno di loro sembrava avere la forza di rialzare la testa. Erano vestiti solo con braghe e camicie strappate sporche da giorni, i capelli unti e le barbe sfatte. Qualche macchia di sangue era visibile anche sugli abiti scuri, probabilmente dal giorno della battaglia decisiva. Le gambe cedevano a causa delle ore di cammino a piedi, le braccia sempre contratte a causa delle catene che le tenevano unite all’altezza dei polsi. Le schiene si incurvavano, esasperate dal caldo.

« Hanno viaggiato a piedi. » constatò Henry, quando ebbe riacquistato la voglia di aprire bocca.

« Certo. » disse Soissons, come se si chiedesse perché avrebbe dovuto confermare un concetto scontato.

« Ma avete cavalli liberi. » replicò Henry, cauto.

Soissons si aggiustò la manica ricamata con un sorriso indifferente.

« Sono inglesi? » chiese Henry, non provando nemmeno a forzare il suo silenzio.

« Sì. Tutti. » rispose l’altro. « Ma i Pontchateau hanno anche qualche imperiale. O forse fiammingo. Voi? »

Henry si chiese se il conte stesse parlando di merci o di persone, con lo sguardo a stento controllato e la mascella contratta.

« Io non voglio nessuno. » sibilò.

Il sorriso di Soissons si distese e il sopracciglio destro si alzò mentre annuiva.

« Neanche lui? » chiese, indicando con la mano guantata un punto al margine della strada. Là vi era un uomo costretto in ginocchio da ben tre soldati che non lo perdevano di vista neanche per un secondo. Era separato dagli altri e Henry suppose che fosse quindi il loro capo, o comunque qualcuno di rango superiore.

I quattro prigionieri si irrigidirono al vedere quel gesto, e provarono a scambiare qualche parola prima che una spada saettasse sopra alle loro teste.

A differenza degli altri prigionieri, il giovane indicato da Soissons teneva la testa, incorniciata da lunghi capelli castani, faticosamente alta per quanto poteva, e i suoi occhi si puntarono senza paura in quelli del conte più anziano. Henry vi lesse un odio dalla potenza, orgoglio e fierezza smisurati e distolse lo sguardo con un nodo alla gola, sebbene l’occhiata dell’inglese non fosse indirizzata a lui. Sul viso del sassone vi erano chiari segni di percosse.

Henry non avrebbe dovuto stupirsi. Ma persino il pensiero che gli inglesi avrebbero trattato allo stesso modo i francesi non bastò a frenare il suo disgusto.

« Perché dovrei volerlo? » chiese, mordendosi l’interno guancia.

Soisson alzò le spalle.

« Potreste chiedere un alto riscatto, è il figlio di un barone. E poi, lo conoscete. È stato il compagno dello sceriffo di Flandre al torneo di Bearne.»

Henry sgranò gli occhi dalla sorpresa e soppesò di nuovo il prigioniero con lo sguardo, per poi distoglierlo di nuovo, imbarazzato.

  « Non mi interessa. » mentì Grandpré.

Soissons osservò Martewall da lontano, cupo. « Ve lo avrei ceduto volentieri. » ammise, dopo qualche secondo, le braccia incrociate al petto. « Il suo sguardo mi suggerisce che potrebbe crearmi problemi. »

Henry non riuscì a trovare nulla da ridire. Ma con la coda dell’occhio gli sembrò d’intravedere il sospiro sollevato di un prigioniero pressappoco suo coetaneo, che aveva potuto intuire il discorso dei due feudatari.

Non riuscendo a trattenersi osservò di nuovo il barone in faccia. I suoi occhi parevano dinamici ma nel contempo ricchi d’esperienze, immagini, sicurezze e tormenti. Il modo in cui lo scrutavano lo metteva in soggezione, artigliava l’anima sciogliendone i segreti e la tenacia, e l’odio infiammava le iridi di un fuoco guizzante ma gelido.  Per fortuna l’inglese non prestò mai molta attenzione al ragazzo, concentrato su ogni mossa di Soissons e dei soldati che lo minacciavano con le spade sguainate.

Non erano gli occhi di chi proteggeva solo se stesso. Henry era oramai riuscito ad intuire il rapporto che univa Martewall ai suoi compagni e sapeva, così come il barone stesso, che la sua solitudine non poteva essere appieno compresa da loro. Loro che fino a quando lui sarebbe stato presente avrebbero avuto la loro guida, mentre lui, così consapevolmente inafferrabile e  inarrivabile, avrebbe avuto solo se stesso.

 

*

 

C’era una cosa che non comprendeva di lui e che gli metteva davanti diversi interrogativi.

La capacità di mostrarsi spietato, tanto con gli altri quanto con se stesso. Henry non sarebbe mai riuscito a uccidere come lui uccideva e si chiedeva cosa ricercasse nella battaglia che altrove non riusciva a trovare.  Gli sembrava naturale chiedersi che cosa avesse vissuto, visto o sofferto.

In fondo, ogni uomo usava le difese che aveva per creare un baluardo potente contro le avversità del mondo. E Geoffrey Martewall ne aveva bisogno più di molti altri.  Henry sentiva una punta di invidia, la stessa che provava nel notare la naturalezza e la sicurezza con cui si faceva obbedire dai suoi uomini, al pensiero che, più che difese, quelle di Martewall sembrassero armi.

 

 

 

Eccomi faticosamente di ritorno : )e siamo al sette. Ancora lontani dalla fine.

Come se io sapessi quale sarà il momento della fine…

Ooook il capitolo mi sembra un po’ corto, ma doveva finire qui. Avevo paura di essere ripetitiva confrontando questo capitolo con quello dell’altro francese che ho stressato per, forse, giorni o settimane: Etienne. Fra tutti è il capitolo che mi convince meno, Henry si è rivelato più insidioso di quanto pensassi.

Spero di essere riuscita a comprenderlo bene….  : )

Eeeee… invece, per il prossimo capitolo, avrei voluto lasciare spazio anche al povero Henry de Bar… se lo merita e mi sta simpatico. Però per adesso ci studiamo da lontano, lui mi guarda e non dice una parola: \

Avrei un’altra ideuzza, e questa è più consolidata, ma dovrei tornare ad un’inglese… e potrebbe, forse, probabilmente, comparire un Geoffrey Martewall più o meno… della mia età ; )… si vedrà.

Ciao e grazie per essere arrivati fin qui!

  
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