Henry De Grandpré
Difese
Nessun disagio nella ribellione.
Questo era ciò che vedeva. Nessuna paura o
vergogna
nell’essere un ribelle, scomunicato, giudicato e, probabilmente molto
presto, duramente
punito. Henry de Grandpré non sapeva come avrebbe reagito lui,
ritrovandosi
nella stessa situazione del barone di Dunchester.
I suoi conterranei erano contro di lui, il diretto
discendente del suo re avrebbe sempre ricordato il suo tradimento, il
papa gli
aveva tolto l’unica certezza a cui poteva aggrapparsi e l’idea di
morire adesso
doveva essere intollerabile.
Eppure non era bastata l’idea del futuro infernale
ed eterno
che lo aspettava dopo la morte a farlo vacillare, in un panorama in cui
la
Francia non poteva essere un appiglio famigliare a cui aggrapparsi se
la guerra
fosse finita nel peggiore dei modi.
Henry credeva fermamente che, anche se all’inizio
Martewall
era stato restio a combattere contro il re per il quale erano morti i
suoi
fratelli, la ribellione fosse per natura nelle sue corde.
E adesso solo la vittoria poteva portare a una
prospettiva
futura piacevole. La sua morte e la sconfitta sarebbero state ancora
più
terribili di quelle di un qualsiasi altro uomo.
Henry adesso capiva appieno quale orrore
rappresentasse una
guerra civile. Capiva, attraverso il tentativo di immaginare come ci si
dovesse
sentire a combattere contro i propri conterranei, coloro che un tempo
erano
stati compagni.
E provava rispetto e ammirazione verso quell’uomo
che, pur
sapendo di essere alleato del fronte in svantaggio, non agiva per
opportunismo e
resisteva a testa alta.
Non erano amici, e probabilmente non lo sarebbero
mai stati
nello stesso modo in cui Henry lo era diventato con Etienne de
Sancerre, Jean o
Henry de Bar. I suoi compagni d’arme erano più esperti di lui, ma
sottolineavano sempre le sue qualità, e lo facevano sentire un loro
pari.
Probabilmente non sarebbe mai riuscito a sentirsi
al pari di
Martewall.
L’inglese possedeva un’ aurea di potenza diversa
da ogni
altro uomo che Henry avesse conosciuto. C’era qualcosa in lui che
spingeva i
suoi nemici a temerlo, i suoi sottoposti ad obbedirgli senza la minima
esitazione, qualcosa di intangibile e invisibile, solo percepibile.
Henry era molto bravo a percepire le cose. E
quando pensava
a Martewall in guerra gli sembrava che fosse esattamente nel posto in
cui
doveva essere, perché gli anni passati a combattere avevano lasciato un
segno
in lui. Ora era un veterano e sapeva guidare un esercito come se fosse
nato per
farlo.
Henry notava il suo senso di indifferenza e
repulsione per i
banchetti, per le lunghe giornate vuote
e calde tra le mura di un castello, la sua noia e l’impazienza mentre
osservava
fuori dai grandi finestroni di Seour, aspettando di poter tornare in
Inghilterra e rivivere il piacere dei viaggi e provare a creare un
futuro
migliore per la sua terra.
Probabilmente Martewall non pensava potessero
esserci altre
strade per lui. Che tutto ciò che non riguardava la battaglia, i suoi
doveri e
la difesa di ciò che riteneva giusto gli sarebbe stato sempre negato
dalla vita.
Henry sperava che non se ne fosse convinto troppo.
Ma non potevano certo essere loro a
spiegarglielo, lui e Jean lo sapevano bene e si trovavano d’accordo,
Henry ne
era convinto, anche se mai ne avevano parlato.
Henry sorrise nel vedere la persona che avrebbe
potuto far
crollare tutte le certezze dell’anima fredda di Geoffrey Martewall. Si
avvicinò
con passo calmo, ma attento a non farsi sentire, lo sguardo velato di
malizia.
Se c’era una cosa che sapeva fare meglio degli
altri era
scavare nell’anima delle persone, intuirne la sostanza. Brianna
Foxworth si era
guadagnata la sua simpatia fin dal primo momento che aveva passato in
Francia
come dama da compagnia e serva di Isabeau. Henry provava un grande
rispetto nei
suoi confronti. Era una donna forte, combattiva e indipendente, che da
ragazzina si era ritrovata disprezzata da tutti, sola con il suo
bambino da
proteggere e da amare.
Lei e Martewall condividevano l’incomprensione del
mondo.
La conosceva oramai abbastanza da sapere che
Martewall si
meritava una donna come lei al suo fianco. A discapito di ogni
pregiudizio,
malgrado ogni convenzione. Più li osservava più si convinceva che così
dovessero andare le cose.
*
La stanza era rischiarata solo dalla luce
divampante del
camino. Si erano riuniti lì dopo la cena, con molta discrezione.
Era prevedibile che la discussione sarebbe caduta
inevitabilmente su Adolphe de Gant.
«Risolveremo la situazione, non temete. » disse
infine Jean con
orgoglio ma anche con aria stanca e il tono di chi vuol chiudere al più
presto
la conversazione. « Ma serve tempo, Etienne. E serve una strategia. Non
puoi
accusarlo senza prove e non puoi ucciderlo senza il benestare del re.
Devi
fartene una ragione. » decretò, deciso, incatenando lo sguardo di
Etienne de
Sancerre al suo.
Etienne lo osservò mentre alle sue spalle il cielo
si
incupiva. Annuì una sola volta, la mascella contratta dalla rabbia.
« Pensi che non riuscirete a provare la sua
colpevolezza. »
La voce di Martewall ruppe il silenzio e vibrò,
profonda,
nella stanza per la prima volta in quella sera. Etienne lo guardò
appena, e
l’incertezza nel suo sguardo non gli si addiceva affatto.
« Gant avrà ciò che merita. Guardati attorno,
Sancerre, e
scoprirai che si è già fatto troppi nemici. »
Tra tutti loro, Martewall in quel momento era
l’unico
davvero sicuro di ciò che diceva. Henry fu grato della sua presenza,
anche se
solo momentanea. Sembrava essere il solo che riuscisse a mettere fine
in due
parole alle proteste di Etienne, come se fosse abituato, più che ad
esercitare
l’arte della diplomazia, che gli era del tutto estranea e con Sancerre
non
funzionava, a gestire personalità irruente.
« E tu, inglese, quanti nemici hai? Metà
dell’Inghilterra
desidera vedere la tua testa su una picca, e forse anche buona parte
dei francesi.
Eppure sei ancora qua.»
« Etienne, per favore! » Henry si sentì in dovere
di
intervenire, scuotendo la testa esasperato. « vuoi forse paragonare
Gant a sir
Geoffrey? »
« No! » affermò subito Etienne indignato « non
intendevo
dire questo. »
Mentre Jean sospirava, Martewall lo tranquillizzò
con uno
sguardo neutro e un gesto per lasciare intendere che non era offeso.
« Io non ho mai cercato di non farmi nemici. Gant
invece si
è sempre guardato le spalle e ha fatto in modo di sembrare il più
devoto dei
cristiani, il più fedele dei francesi e il più onesto dei vassalli. Non
credo
si sia mai trovato in una situazione simile. Questo dovrebbe darvi un
vantaggio. »
De Bar annuì seguito a ruota da Jean, trovandosi
evidentemente d’accordo con ogni parola.
Jean incrociò le braccia al petto e si toccò
istintivamente
la spalla.
« è scaltro. » dovette ammettere, cupo.
« Ma non è l’unico ad esserlo. » affermò
Martewall,
includendo tutti nella sua occhiata eloquente.
Martewall non aveva uno spirito arrendevole,
questo era
certo. E pur avendo la sua guerra e i suoi tormenti personali in quel
momento
stava lì con loro, ad assistere ad una conversazione che non avrebbe
comunque
portato a niente, a cercare di placare la rabbia cieca di Etienne e a
dare
sostegno a Jean, in uno dei luoghi chiusi e affollati che tanto odiava.
Henry
apprezzava in modo particolare il suo parere, razionale e lucido, non
forzatamente ottimistico.
Sancerre ghignò sarcastico.
« Se non ti bastava già metà dell’Inghilterra,
gioisci,
Martewall… hai un altro nemico. »
La frase fece drizzare la testa di Jean. De Bar
fulminò
Etienne con lo sguardo.
« Scusa. » fece Etienne a Jean, alzando una mano
con sincero
dispiacere, ma anche in parte divertito.
Martewall scosse le spalle noncurante. Il Falco
però non si
astenne dal guardarlo preoccupato, in attesa della sua opinione.
« Gant è ossessionato da te, perché solo tu puoi
mandarlo in
rovina. Io non ho importanza per lui. »
« Chiunque interferisca nei suoi piani ha
importanza per
lui. » lo contraddisse Jean.
Martewall aveva un modo tutto suo di mostrarsi
spavaldo, con
una strana naturalezza e noncuranza, ed era chiaro a tutti che ne
avesse pieno
diritto.
*
Ogni volta che lo
guardava, non poteva fare a meno di ripensare a quel giorno.
L’aria era calda, rischiarata dal sole rovente del
primo
pomeriggio. I cavalli si abbeveravano nel ruscello, stanchi, scuotendo
la coda
e la criniera per scacciare le mosche. Henry accarezzava distrattamente
il
collo del suo destriero, e aveva solo voglia di varcare le soglie della
contea
di Champagne e tornare a casa.
Era accerchiato dai suoi soldati e da un paio di
scudieri. I
volti di coloro che mancavano dal giorno della battaglia di Bouvines
gli
tornavano però sempre in mente e pesavano sul suo cuore come macigni.
Improvvisamente fu distratto dai suoi pensieri dal
passo
deciso di molti uomini, dal clangore dei loro armamenti e dalle voci
che si
alzavano ed abbassavano, berciando ordini.
Guardò sulla strada di terra secca dietro di lui,
come molti
dei suoi uomini. Vide una carovaniera
formata da tre soldati in testa e almeno il doppio di loro dietro.
Erano a
cavallo e accerchiavano qualcosa che dalla posizione in cui si trovava
Henry
era impossibile da definire. Il giovanissimo conte rabbrividì
istintivamente,
portando la mano alla spada. Uno dei suoi soldati più anziani
intercettò il suo
movimento e gli si avvicinò.
« è il conte di Soissons coi suoi cavalieri,
signore. »
Henry aguzzò la vista e riconobbe prima i blasoni
sulle
cotte di maglia, poi il volto navigato del conte. Si preparò a
salutarlo
solennemente, sebbene non gradisse la sua compagnia. Quelle erano le
sue terre
e solo grazie alla sua benevolenza Henry aveva potuto transitarvi e
accorciare
il suo viaggio.
Soissons lo raggiunse e gli strinse la mano con un
grande
sorriso e parole cortesi. Henry notò che alcuni dei suoi cavalieri,
rimasti più
distanti, tiravano per le briglie dei cavalli senza padrone,
appartenuti forse
ai periti durante la battaglia.
Henry spostò lo sguardo dietro alle spalle di
Soissons,
mentre il conte ancora gli stava parlando, con un bagliore negli occhi.
L’uomo più anziano intercettò la sua occhiata e
ghignò con
soddisfazione.
« Ah, sì… » disse, smontando di sella e ordinando
con un
gesto ai suoi uomini di fare una sosta. « il re mi ha lasciato alcuni
prigionieri di guerra. » continuò, sorridendo e facendo segno a Henry
di
avanzare.
Lo sguardo del giovane si era incupito, e non
colse
l’invito. Una volta che i cavalli si furono spostati, Henry poté vedere
i
soldati sguainare le spade con le catene, che culminavano stringendosi
attorno
ai polsi dei prigionieri, ben salde nella mano libera. I soldati li
fecero
camminare verso gli alberi, quattro uomini di diversa età, tutti
insieme per
controllarli ogni secondo.
La scena fu straziante. Henry non riuscì a vederli
negli
occhi e ne fu grato, nessuno di loro sembrava avere la forza di
rialzare la
testa. Erano vestiti solo con braghe e camicie strappate sporche da
giorni, i
capelli unti e le barbe sfatte. Qualche macchia di sangue era visibile
anche
sugli abiti scuri, probabilmente dal giorno della battaglia decisiva.
Le gambe
cedevano a causa delle ore di cammino a piedi, le braccia sempre
contratte a
causa delle catene che le tenevano unite all’altezza dei polsi. Le
schiene si
incurvavano, esasperate dal caldo.
« Hanno viaggiato a piedi. » constatò Henry,
quando ebbe
riacquistato la voglia di aprire bocca.
« Certo. » disse Soissons, come se si chiedesse
perché
avrebbe dovuto confermare un concetto scontato.
« Ma avete cavalli liberi. » replicò Henry, cauto.
Soissons si aggiustò la manica ricamata con un
sorriso
indifferente.
« Sono inglesi? » chiese Henry, non provando
nemmeno a
forzare il suo silenzio.
« Sì. Tutti. » rispose l’altro. « Ma i Pontchateau
hanno
anche qualche imperiale. O forse fiammingo. Voi? »
Henry si chiese se il conte stesse parlando di
merci o di
persone, con lo sguardo a stento controllato e la mascella contratta.
« Io non voglio nessuno. » sibilò.
Il sorriso di Soissons si distese e il
sopracciglio destro
si alzò mentre annuiva.
« Neanche lui? » chiese, indicando con la mano
guantata un
punto al margine della strada. Là vi era un uomo costretto in ginocchio
da ben
tre soldati che non lo perdevano di vista neanche per un secondo. Era
separato
dagli altri e Henry suppose che fosse quindi il loro capo, o comunque
qualcuno
di rango superiore.
I quattro prigionieri si irrigidirono al vedere
quel gesto,
e provarono a scambiare qualche parola prima che una spada saettasse
sopra alle
loro teste.
A differenza degli altri prigionieri, il giovane
indicato da
Soissons teneva la testa, incorniciata da lunghi capelli castani,
faticosamente
alta per quanto poteva, e i suoi occhi si puntarono senza paura in
quelli del
conte più anziano. Henry vi lesse un odio dalla potenza, orgoglio e
fierezza
smisurati e distolse lo sguardo con un nodo alla gola, sebbene
l’occhiata
dell’inglese non fosse indirizzata a lui. Sul viso del sassone vi erano
chiari
segni di percosse.
Henry non avrebbe dovuto stupirsi. Ma persino il
pensiero
che gli inglesi avrebbero trattato allo stesso modo i francesi non
bastò a
frenare il suo disgusto.
« Perché dovrei volerlo? » chiese, mordendosi
l’interno
guancia.
Soisson alzò le spalle.
« Potreste chiedere un alto riscatto, è il figlio
di un
barone. E poi, lo conoscete. È stato il compagno dello sceriffo di
Flandre al
torneo di Bearne.»
Henry sgranò gli occhi dalla sorpresa e soppesò di
nuovo il
prigioniero con lo sguardo, per poi distoglierlo di nuovo, imbarazzato.
« Non mi interessa.
» mentì Grandpré.
Soissons osservò Martewall da lontano, cupo. « Ve
lo avrei
ceduto volentieri. » ammise, dopo qualche secondo, le braccia
incrociate al
petto. « Il suo sguardo mi suggerisce che potrebbe crearmi problemi. »
Henry non riuscì a trovare nulla da ridire. Ma con
la coda
dell’occhio gli sembrò d’intravedere il sospiro sollevato di un
prigioniero
pressappoco suo coetaneo, che aveva potuto intuire il discorso dei due
feudatari.
Non riuscendo a trattenersi osservò di nuovo il
barone in
faccia. I suoi occhi parevano dinamici ma nel contempo ricchi
d’esperienze,
immagini, sicurezze e tormenti. Il modo in cui lo scrutavano lo metteva
in
soggezione, artigliava l’anima sciogliendone i segreti e la tenacia, e
l’odio
infiammava le iridi di un fuoco guizzante ma gelido. Per
fortuna l’inglese non prestò mai molta
attenzione al ragazzo, concentrato su ogni mossa di Soissons e dei
soldati che
lo minacciavano con le spade sguainate.
Non erano gli occhi di chi proteggeva solo se
stesso. Henry
era oramai riuscito ad intuire il rapporto che univa Martewall ai suoi
compagni
e sapeva, così come il barone stesso, che la sua solitudine non poteva
essere appieno
compresa da loro. Loro che fino a quando lui sarebbe stato presente
avrebbero
avuto la loro guida, mentre lui, così consapevolmente inafferrabile e inarrivabile, avrebbe avuto solo se stesso.
*
C’era una cosa che non comprendeva di lui e che
gli metteva
davanti diversi interrogativi.
La capacità di mostrarsi spietato, tanto con gli
altri
quanto con se stesso. Henry non sarebbe mai riuscito a uccidere come
lui
uccideva e si chiedeva cosa ricercasse nella battaglia che altrove non
riusciva
a trovare. Gli sembrava naturale
chiedersi che cosa avesse vissuto, visto o sofferto.
In fondo, ogni uomo usava le difese che aveva per
creare un
baluardo potente contro le avversità del mondo. E Geoffrey Martewall ne
aveva
bisogno più di molti altri. Henry
sentiva una punta di invidia, la stessa che provava nel notare la
naturalezza e
la sicurezza con cui si faceva obbedire dai suoi uomini, al pensiero
che, più
che difese, quelle di Martewall sembrassero armi.
Eccomi
faticosamente di ritorno : )e siamo al sette. Ancora
lontani dalla fine.
Come
se io sapessi quale sarà il momento della fine…
Ooook
il capitolo mi sembra un po’ corto, ma doveva
finire qui. Avevo paura di essere ripetitiva confrontando questo
capitolo con
quello dell’altro francese che ho stressato per, forse, giorni o
settimane:
Etienne. Fra tutti è il capitolo che mi convince meno, Henry si è
rivelato più
insidioso di quanto pensassi.
Spero
di essere riuscita a comprenderlo bene…. :
)
Eeeee…
invece, per il prossimo capitolo, avrei voluto lasciare
spazio anche al povero Henry de Bar… se lo merita e mi sta simpatico.
Però per
adesso ci studiamo da lontano, lui mi guarda e non dice una parola: \
Avrei
un’altra ideuzza, e questa è più consolidata, ma
dovrei tornare ad un’inglese… e potrebbe, forse, probabilmente,
comparire un
Geoffrey Martewall più o meno… della mia età ; )… si vedrà.
Ciao
e grazie per essere arrivati fin qui!